Meglio poche cose che un altro rinvio

14 Mag 2012

Michele Ainis

E la legge elettorale? Votare per la terza volta col Porcellum, formare un altro Parlamento non d’eletti bensì di nominati sarebbe una tragedia democratica. Sentirsi dire dal prossimo presidente del Consiglio, come ha già detto Berlusconi, che l’architettura dei poteri gli sequestra ogni potere, girerebbe la tragedia in farsa

I partiti politici, per recuperare credibilità e consensi elettorali, hanno tutto l’interesse a battere un colpo sulla riforma dello Stato. E gli italiani vivrebbero assai meglio se fossero inquilini d’uno Stato meno arcaico, meno distante, meno astruso. E allora perché ogni progetto di riforma rimane sempre fermo al palo? In questa legislatura è già successo con la bozza Calderoli; se adesso va in malora pure il testo all’esame del Senato, mancherà il tempo per correre ai ripari. E la legge elettorale? Votare per la terza volta col Porcellum, formare un altro Parlamento non d’eletti bensì di nominati sarebbe una tragedia democratica. Sentirsi dire dal prossimo presidente del Consiglio, come ha già detto Berlusconi, che l’architettura dei poteri gli sequestra ogni potere, girerebbe la tragedia in farsa.
È la maledizione delle riforme costituzionali all’italiana: una tela di Penelope. Oppure una guerra dei trent’anni, fate voi. Però senza vinti, senza vincitori. Ma sono per l’appunto tre decenni che ci giriamo attorno a vuoto. C’è bisogno di rievocarne gli episodi? Una giostra di ministri deputati alle riforme (da Maccanico nel 1988 a Bossi dal 2008 al 2011). Un profluvio di progetti, a cominciare dal Rapporto Giannini nel 1979. Testi votati dagli eletti ma bocciati poi dagli elettori (con il referendum del 2006 sulla riforma del centrodestra). Tre Bicamerali (nel 1983, nel 1992, nel 1997). Governi costituenti, come si definì il gabinetto presieduto da De Mita nel 1988. Dibattiti parlamentari tanto solenni quanto improduttivi (per esempio nel luglio 1991 o nell’agosto 1995). E ovviamente intese, lodi, decaloghi, bozze di riforma (da quella timbrata da Boato nel 1997 alla bozza Violante del 2007).
Sarà per questo che adesso siamo stanchi, sfiduciati. Perché trent’anni di chiacchiericcio sterile hanno finito per sporcare l’abito della Carta costituzionale, senza confezionare un vestito di ricambio. E perché invece basterebbe qualche toppa. Come d’altronde dichiararono i partiti quando ha giurato Monti: a te l’economia, a noi le riforme di sistema. Siccome nel frattempo non hanno cavato un ragno dal buco, ora è il governo che prova a offrire un contributo. Mentre Napolitano cerca di svegliare la Bella addormentata, a costo d’esporsi a un insuccesso. Alibi, però, non ce ne sono. Non ci faremo ingannare dal giochino di mettere troppa carne al fuoco — dalla legge sulla corruzione a quella sui partiti, dalle Province alla riforma della Rai — all’unico scopo di bruciare l’arrosto. Non potranno raccontarci che non hanno fatto l’uovo (la legge elettorale) perché prima dovevano generare la gallina (cambiando la Costituzione). La Carta del 1947 non parla affatto dei sistemi d’elezione, ed è sopravvissuta sia al proporzionale sia al maggioritario. Dunque questa scusa non regge.
Insomma fate poche cose, ma fatele. Il meglio è nemico del bene. E d’altronde due Camere servono anche a questo, a smaltire il traffico. Sicché la Prima commissione del Senato può approvare alcune correzioni alla forma di governo; quella della Camera può cucinare almeno un paio di leggi ordinarie, sul sistema elettorale e sul finanziamento dei partiti. Le priorità sono queste. Anzi no, ce ne sarebbe pure un’altra: per i partiti è urgente decidere di decidere.

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