Politica trasparente in quattro tappe

18 Apr 2012

Dice giustamente Angelo Panebianco, nel suo editoriale apparso sul Corriere del 16 aprile («Non più un principe ma un utile sherpa») che i partiti in Italia dovrebbero ritrovare il loro ruolo, che è quello di «organizzazioni specializzate nella raccolta del consenso elettorale e nella fornitura di personale per cariche di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni». E quindi i partiti non dovrebbero essere più «i principi» (nel senso gramsciano della parola), bensì, più modestamente, gli sherpa, cioè i collettori di aspirazioni, di idee, di progetti (come essi sono in altri Paesi europei). Si può aggiungere a queste giuste considerazioni di Panebianco che la strada per arrivare a una trasformazione dei partiti in Italia nel senso che si è detto, è lunga, difficile, accidentata, e quindi di non facile realizzazione. Occorrerà in ogni caso una forte pressione della pubblica opinione perché si riesca a ottenere qualche risultato apprezzabile; e occorrerà anche una vera e propria «riforma intellettuale e morale» (uso una espressione molto cara a Gramsci), attuata dalle élite politiche (ammesso che ne siano capaci). La strada dell’autoriforma che i partiti dovrebbero percorrere dovrebbe andare infatti nella direzione contraria a quella prevalsa nella cosiddetta Prima Repubblica, e dovrebbe quindi combattere e vincere tradizioni consolidate, abitudini acquisite, mentalità diffuse: ma è l’unica strada che può tirare fuori i partiti dalla palude di discredito (che sta trasformandosi in disprezzo) nella quale sono caduti, con grave pericolo per la democrazia nel nostro Paese. Tale autoriforma dovrebbe passare, a mio parere, attraverso alcuni snodi fondamentali, che indico schematicamente.
In primo luogo, i nostri partiti dovrebbero diventare più «leggeri», riducendo i troppo grandi (e perciò troppo costosi) apparati che alcuni di essi hanno, e avvalendosi in misura maggiore del volontariato (cioè della passione politica dei militanti). Un partito la cui struttura organizzativa sia formata solo e soltanto da funzionari e professionisti della politica (stipendiati) è fatalmente un organismo destinato a ossificarsi intellettualmente (nonostante le sue mastodontiche dimensioni), a isolarsi dagli umori e dalle correnti di opinione della società, ad autoperpetuarsi senza ricambi significativi, secondo le regole ferree dell’oligarchia. Anche qui c’è da innovare radicalmente rispetto alla Prima Repubblica: si pensi a che cosa erano sia il Partito comunista sia la Democrazia cristiana: partiti con migliaia di sezioni, migliaia di funzionari, centinaia e centinaia di sedi (e che quindi richiedevano finanziamenti, in gran parte occulti, assai cospicui).
In secondo luogo, tutti i partiti dovrebbero garantire la più larga democrazia interna, celebrando i loro congressi a scadenze fisse, con delegati regolarmente eletti, e praticando le «primarie» per la scelta dei loro candidati alle massime cariche elettive. Su questa esigenza della democrazia interna ai partiti ha insistito con grande forza, per una intera stagione politica, Giuseppe Maranini, nella sua memorabile critica antipartitocratica. «La mancanza — egli scriveva — di un controllo pubblicistico sopra la democrazia interna dei partiti dà un pericoloso vantaggio ai partiti anche ideologicamente antidemocratici, che marciano in falangi compatte». Questa affermazione di Maranini può essere ripresa oggi, opportunamente aggiornata, anche in considerazione della esistenza ormai radicata di partiti carismatico-personali.
In terzo luogo, tutti i partiti dovrebbero adottare la regola che un parlamentare può essere tale solo per due legislature: questo farebbe sì che ogni dieci anni ciascun partito dovrebbe farsi rappresentare da uomini e donne nuovi, capaci di esprimere esigenze ed idee delle generazioni più giovani. Come è stato rilevato più volte da autorevoli commentatori, anche su questo giornale, la nostra società è «gerontocratica», e oppone fiere resistenze all’ascesa dei giovani nei posti di comando. Bene, i partiti politici incomincino a dare il buon esempio, facendo entrare regolarmente in Parlamento i politici più giovani, secondo un giusto e naturale ricambio generazionale.
In quarto luogo, il finanziamento pubblico ai partiti (che può essere ammesso, ma non nella misura elefantiaca e mostruosa attuale: 2,3 miliardi di euro dal 1994 ad oggi, andati anche a partiti scomparsi!) dovrebbe essere gestito nella più assoluta trasparenza, sotto controllo pubblico (trattandosi di denaro pubblico). Che questo non sia avvenuto fino ad oggi la dice lunga sulla degenerazione che i partiti hanno raggiunto in Italia e sulle difficoltà da vincere per ottenere una loro rigenerazione.

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