Meno soldi ai partiti non è tempo di meline

11 Apr 2012

Forse non hanno capito. O fanno finta di non capire. Chiusi nei loro bunker d’isolamento, davanti a una marea montante d’indignazione e di rabbia popolare, molto pericolosa per il futuro della nostra democrazia, i partiti sembrano pensare di cavarsela con una nuova legge-soufflé sul finanziamento pubblico

Forse non hanno capito. O fanno finta di non capire. Chiusi nei loro bunker d’isolamento, davanti a una marea montante d’indignazione e di rabbia popolare, molto pericolosa per il futuro della nostra democrazia, i partiti sembrano pensare di cavarsela con una nuova legge-soufflé sul finanziamento pubblico. Allora, proprio per cercar di evitare decisioni che darebbero il colpo definitivo alla credibilità del nostro sistema politico, è meglio mettere da parte ogni garbo diplomatico, parlare molto chiaro, cominciando, come ogni storia prevede, da un riassunto delle puntate precedenti.

Tutto è cominciato da una vera e propria truffa della volontà popolare. Un referendum, infatti, aveva bocciato la legge che stabiliva il finanziamento pubblico ai partiti. Le forze politiche, con un espediente tanto sfacciato da apparire davvero provocatorio nei confronti del rispetto che si dovrebbe avere per i cittadini in una democrazia, l’hanno, di fatto, ripristinato. Non solo attraverso il trucco di definirlo in altro modo, come “rimborso elettorale”, ma non prevedendo alcun controllo sull’uso dei soldi che gli italiani sono costretti a devolvere ai partiti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti e sarebbe davvero miope non vedere come lo scandalo dei milioni usati a piacimento, soprattutto suo, dal tesoriere Lusi e di quelli del collega Belsito si possa circoscrivere a quei partiti, senza toccare anche le altre forze politiche.

Già mesi di polemiche sui costi della nostra democrazia, con campagne di stampa documentate e incalzanti, hanno avuto, finora, esiti modestissimi. Persino qualche taglio a indennità pensionistiche, spropositate rispetto alle norme che regolano quelle dei comuni cittadini, hanno suscitato proteste furibonde da parte di parlamentari e di ex presidenti delle Camere che, peraltro, non saranno da annoverare fra i padri (e le madri) della nostra patria. Ora, se non ci saranno provvidenziali ripensamenti notturni, si annuncia un nuovo gioco di «melina» politica.

Di fronte a quanto emerso non solo dalle inchieste e dalle intercettazioni, ma soprattutto dalle confessioni di segretarie e autisti, non si pensa a un decreto-legge che metta fine, subito, a questo vergognoso andazzo, ma alla via parlamentare, seppur con la promessa di un iter più veloce, meglio sarebbe dire meno lento, del solito. Ma se si ricorre a un decreto-legge in casi di urgenza, quale mai provvedimento può essere più urgente di questo?

Non si rendono conto i partiti della situazione in cui si trovano moltissime famiglie italiane in queste settimane? Con una disoccupazione, soprattutto giovanile, già molto alta al Nord, ma veramente drammatica al Sud e con la prospettiva di dover pagare a giugno, ma soprattutto a fine d’anno, un pesante aggravio di tasse sulla casa, il bene che appartiene all’ottanta per cento dei nostri cittadini, si prepara una legge che, sostanzialmente, non diminuisce il contributo pubblico ai partiti.

E’ inutile affollare la testa dei lettori con molte cifre, perché ne basta una, fin troppo eloquente: per oltre due terzi, i partiti incassano soldi che non hanno una documentazione, verificata e credibile, valida a confermare lo scopo di effettivo rimborso elettorale. Anzi, per la stragrande maggioranza dei casi, non esiste alcuna documentazione. Insomma, prendono dai contribuenti italiani 100 e ne spendono correttamente solo circa 33. Il resto dove va?

Il rispetto per la volontà popolare imporrebbe, come si è detto, l’ossequio al risultato del referendum, cioè l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma pretenderlo, in Italia, sarebbe come pretendere l’impossibile. Si può chiedere, invece, come minimo risarcimento ai cittadini, almeno il dimezzamento di questa «imposta forzosa», con il controllo, da parte di una autorità estranea a qualsiasi influenza politica, di come questi soldi vengano usati. I partiti devono uscire da una condizione unica tra le associazioni italiane, quella dell’assoluta imperscrutabilità dei loro bilanci e dell’assoluta insindacabilità dei loro statuti e delle regole di democrazia interna. Prima di cambiare la Costituzione, sarebbe meglio applicarla, perché su questo tema la nostra Carta fondamentale è del tutto disattesa.

Se davvero i partiti, ancora una volta, facessero finta di non capire, toccherebbe al governo Monti intervenire. Il presidente del Consiglio dovrebbe preparare un opportuno decreto-legge e mettere il Parlamento davanti alla responsabilità di bocciarlo. E’ possibile che questo gesto costerebbe a Monti la poltrona, ma forse ne varrebbe la pena.

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