Manca una patria europea

16 Mar 2012

L’Europa è attraversata da un diffuso malessere. Siamo sempre meno e sempre più vecchi. Abbiamo perso la fiducia nelle nostre capacità di mantenere la prosperità raggiunta, da ultimo di fronte all’emergere di nuove potenze le cui economie appaiono, e spesso sono, più dinamiche e competitive delle nostre. Allo stesso tempo, temiamo gli arrivi di migranti il cui spirito d’iniziativa e capacità di lavorare sodo potrebbero attenuare il nostro malessere. Perché allora dimostriamo un’incresciosa, e purtroppo maggioritaria, tendenza a temere l’immigrazione, invece di rallegrarcene? Semplicemente perché in molti persiste il timore che i nuovi arrivati non faranno altro che aggravare le sacche di disoccupazione, di precariato e di povertà già presenti all’interno delle nostre prospere società, ma anche perché in troppi siamo restii a condividere la nostra vita con persone che percepiamo come diverse da noi.
Ma le società europee sono sempre state caratterizzate dalla diversità. E’ grazie a tale diversità che l’Europa ha conseguito molti dei suoi maggiori successi, per quanto la diversità demonizzata sia stata causa di alcune delle sue tragedie più immani. E’ quindi essenziale per noi europei affrontare la sfida della diversità a viso aperto, in maniera determinata. Purtroppo, alcuni segnali fanno pensare che il rischio di un ritorno all’antico c’è, con l’idea di “nazione etnica” che si sta prepotentemente riproponendo: si veda la svolta nazionalista ed oscurantista impressa in Ungheria, come pure il fiorire di partiti populisti e razzisti – e rigorosamente anti-europeisti – in paesi di forte tradizione liberale e con società storicamente aperte e tolleranti.
In fondo la globalizzazione avrebbe dovuto rendere ognuno di noi più “cittadino del mondo” di prima. In realtà i suoi effetti collaterali hanno portato ad un confronto involontario, imprevisto, e spesso drammatico, con “l’altro”, lo straniero o il diverso che fosse. Certo, le frontiere non sono scomparse ma sono diventate permeabili: alla circolazione delle informazioni, ai movimenti di capitali e servizi, ai disastri ecologici, ai flussi migratori. Tutti fenomeni transnazionali, mentre questo mutamento discontinuo, come ammonisce Ulrich Beck,  viene troppo spesso colto – o, meglio, frainteso – nel quadro di riferimento della vecchia visione di un’uguaglianza o disuguaglianza racchiusa nel recinto dello stato nazionale. Con il risultato che molte società, ancora oggi, sembrano più impegnate a coltivare la disuguaglianza che aspirare all’uguaglianza.
Di fronte a questo scenario, Jürgen Habermas, che sul tema del cosmopolitismo ha molto riflettuto, indica il progetto europeo o, meglio, “la prosecuzione della legalizzazione democratica dell’Unione europea”, come via, forse impervia, ma obbligata. Per chiunque abbia una visione federalista dell’Europa è impossibile non essere d’accordo. Non l’Europa senza visione e ripiegata su se stessa che abbiamo sotto gli occhi, non l’Europa delle Patrie come invocava De Gaulle, che ha finito per distruggere le patrie e anche le loro democrazie, ma piuttosto la Patria europea, come dice Marco Pannella. Non il superstato europeo che soffoca gli stati nazionali, quindi, ma gli Stati Uniti d’Europa basati su di una visione federalista delle sue istituzioni. Come non vedere nella separazione tra Stato e Nazione, così come lo Stato fu separato dalla Chiesa nella Pace di Vestfalia quasi quattrocento anni fa, la chiave della convivenza tra diverse nazionalità?
Per questo, sostenere, agli albori del Terzo millennio, che lo stato nazionale sia l’unico contenitore possibile entro il quale esercitare la democrazia è un abbaglio di dimensioni colossali. Spinelli, Rossi e Colorni lo avevano già capito settanta anni fa: non a caso il Manifesto di Ventotene è stato scritto nel 1941, cioè alla vigilia del tragico epilogo del delirio nazionalista. Già in quelle pagine c’era l’indicazione di un demos europeo che superasse ideologie e nazionalismi per andare ad identificarsi con strutture democratiche a livello sovranazionale. L’idea dei padri fondatori era che l’Europa non dovesse essere un progetto geografico, né tanto meno un progetto religioso, ma un progetto eminentemente politico e, per questo, in perenne costruzione, senza limiti posti alla sua espansione. Agli appassionati dello stato nazionale vale la pena ricordare che, per quanto riguarda l’Italia, poi, dal dopoguerra in avanti l’interesse nazionale ha sempre coinciso con il processo d’integrazione europeo; sicché, più che all’interesse nazionale, avremmo molto da guadagnare se tenessimo “l’interesse europeo” in maggiore considerazione.

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