La decomposizione del Pdl

13 Mar 2012

Era chiaro, anche nei giorni di maggiore turbolenza. Il governo Monti non può cadere sulla Rai. E neppure sulla Giustizia. Malgrado i successi sullo spread, l’Italia non si può considerare fuori pericolo. Il Pdl ha tentato il blitz. Ma per Berlusconi, una riforma che porti a una Rai forte, guidata come un’azienda normale, è una soluzione difficile da accettare

Era chiaro, anche nei giorni di maggiore turbolenza. Il governo Monti non può cadere sulla Rai. E neppure sulla Giustizia. Malgrado i successi sullo spread, l’Italia non si può considerare fuori pericolo. Il Pdl ha tentato il blitz. Il suo segretario, Angelino Alfano, ha provato a fare di questo governo un esecutivo di scopo, abilitato a occuparsi della crisi economica, a imporre sacrifici e rigore, ma senza titoli per entrare negli altri campi e allargare il suo raggio d’azione. Però, questa pretesa è stata giudicata “irricevibile”, e la sortita si è trasformata in una ritirata. Ora, il segretario  pidiellino è costretto, sia pure tra molti distinguo, ad accettare che al vertice di giovedì  si parli, oltre che del lavoro, anche di quelli che per Berlusconi sono gli argomenti tabù.

Non c’è, tuttavia, da indulgere all’ottimismo. Il cammino è sempre pieno di trappole e ostacoli quando si toccano gli interessi reali del Cavaliere. Era l’8 gennaio quando Monti affermò in tv, rispondendo a una domanda di Fabio Fazio: “Mia dia ancora qualche settimana e vedrà che cosa farò per la Rai”. Sono passati due mesi e non si è visto nulla. Allora il governo poteva contare su un Berlusconi “dialogante”, che si faceva addirittura promotore di un “Monti bis”, dopo le elezioni del 2013. L’ennesima operazione di trasformismo mediatico del signore di Arcore. Nel volgere di qualche giorno, dal “Cavaliere di governo” siamo tornati al al “Cavaliere di lotta”. Monti ha respinto il veto. Ma la sfida è tutta da decifrare.

E’ risaputo che, all’interno del Pdl, i rapporti tra Berlusconi e Alfano non sono ormai dei migliori. E ciò, esattamente, da quando il segretario pidiellino si è opposto al progetto berlusconiano di sostituire il Popolo delle libertà con una sorta di lista civica nazionale per affrontare le rischiose elezioni amministrative del 6 maggio. Da allora, il Cavaliere ha scoperto che “ad Angelino manca il quid” per tentare l’improbabile riscossa del centrodestra. Malgrado ciò, quando si tratta di difendere gli interessi del suo capo, Alfano risponde all’appello. E, per Berlusconi, una riforma che porti a una Rai  forte,  guidata come un’azienda normale, è una soluzione difficile da accettare. Il Cavaliere non domina più la scena, da quando ha dovuto lasciare Palazzo Chigi. Ma attenzione: “non è andato via, continua a lavorare”. Giustamente lo si è ricordato alla manifestazione con cui Libertà e Giustizia ha festeggiato i suoi dieci anni di vita

Certo, la destra attraversa una crisi profonda. Privo della leadership ufficiale dell’uomo che l’ha inventato, il Pdl è in piena decomposizione. Con la sua sortita, Alfano ha pensato anche, probabilmente, di poter rappattumare i cocci, di fare appello all’orgoglio di partito per recuperare l’unità perduta. Ma, se così stanno le cose, si è trattato di una mossa dettata dalla disperazione. In Parlamento, il Pdl ha ancora i voti per mettersi di traverso rispetto alle decisioni che il signore di Arcore non gradisce. Ma va perdendo progressivamente posizioni. E ora rischia di perdere le amministrative di maggio. Perché, senza la Lega, anche alcuni grandi comuni del Nord potrebbero andare alla sinistra. E, se le condizioni non mutano, la sconfitta potrebbe avere effetti ben più devastanti alle elezioni politiche dell’anno prossimo.

Ecco perché, in questa fase, Berlusconi dice tutto e il contrario di tutto. Una tattica, la sua, che mette in campo mosse contraddittorie,  ma che rispondono comunque all’obiettivo di conservare un ruolo sullo scenario politico, come soggetto col quale un po’ tutti debbono ancora fare i conti. Un piano che prevede come carta finale la possibilità di annegare la prevista sconfitta elettorale dell’anno prossimo in una sorta di Grande coalizione, un esecutivo di salute pubblica, fondato sulle larghe intese, dove non si capirebbe più chi ha vinto e chi ha perso.

Qui il discorso riguarda il centrosinistra. Al quale spetta rimandare la proposta al mittente. E rilanciare una prospettiva politica che sia una scommessa per il futuro e non una ricerca di convenienze di potere. E’ questa la strada  se si vuole recuperare la normalità democratica, ritornando  alle ragioni di una democrazia competitiva, con progetti e leadership alternativi. E’ vero che la confusione delle lingue ha ormai raggiunto il livello massimo. Tuttavia, ci possono anche essere valutazioni differenti su come si realizza, nella pratica quotidiana, una politica riformista. Ma nessun riformismo può pensare di continuare a governare, anche dopo le elezioni del 2013, con Gasparri e Cicchitto.

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