Il processo democratico

09 Mar 2012

Michele Ainis

L’Italia brontola, protesta, rumoreggia. Contro i privilegi della Casta, quella dei politici. Contro le altre caste che divorano gli avanzi del nostro patrimonio pubblico, a partire dai grand commis di Stato. Contro la legge elettorale, chiedendo la macellazione del Porcellum. Contro Equitalia, e più in generale contro l’eccessivo carico fiscale. Contro l’abolizione dell’articolo 18, in nome del diritto al lavoro. È un Paese contro, questo di cui siamo inquilini. Trasuda livore, odio politico e sociale. E una faglia sotterranea divide ormai le istituzioni e i cittadini

L’Italia brontola, protesta, rumoreggia. Contro i privilegi della Casta, quella dei politici. Contro le altre caste che divorano gli avanzi del nostro patrimonio pubblico, a partire dai grand commis di Stato. Contro la legge elettorale, chiedendo la macellazione del Porcellum. Contro Equitalia, e più in generale contro l’eccessivo carico fiscale. Contro l’abolizione dell’articolo 18, in nome del diritto al lavoro. È un Paese contro, questo di cui siamo inquilini. Trasuda livore, odio politico e sociale. E una faglia sotterranea divide ormai le istituzioni e i cittadini.

Per ricucire il nostro tessuto connettivo serve un’opera di pacificazione nazionale. Ma è un’impresa impossibile, se non vengono al più presto riattivati i canali di comunicazione fra società politica e società civile. Perché ogni protesta incattivisce, quando non ha spazi per diventare una proposta. Un tempo questa cinghia di trasmissione era rappresentata dai partiti, che restano comunque necessari. La politica si fa con i partiti. Ma oggi sono colpiti dal discredito, e in più non sanno mai che pesci prendere: sulle questioni controverse ognuno tira fuori almeno due soluzioni opposte. È insomma il pessimo rendimento del nostro processo democratico, che ci fa vivere da separati in casa. È la crisi di legittimazione che dai partiti si estende al Parlamento, ossia al domicilio elettivo dei partiti. È il vuoto d’alternative alla democrazia parlamentare, dato che la democrazia referendaria in Italia è sempre stata malaticcia.

Un processo democratico inceppato diventa un gioco a somma zero: ci rimettono tutti i giocatori. Questa regola vale anche ai piani alti del Palazzo, nelle stanze dell’esecutivo. Come governa Monti? Come prima di lui Prodi e Berlusconi: decreti, fiducie, maxiemendamenti. Nel solo mese di febbraio il Parlamento ha convertito 4 decreti legge del governo, che a sua volta ne ha sfornati altri 4. E in ciascuna occasione via con il maxiemendamento, anche a costo di trasformare i singoli provvedimenti normativi in altrettanti scioglilingua, incomprensibili per i comuni mortali. Via con la questione di fiducia, e pazienza se questa doppia procedura in ultimo sequestra le assemblee legislative. Tanto le Camere non sono buone a nulla, nemmeno a scrivere le leggi. Ma delegittimando il Parlamento ogni governo sega il ramo sul quale sta seduto. Delegittima se stesso, perché i suoi poteri sono derivati, dipendono da un’investitura espressa proprio da quell’Aula. Specie quando l’esecutivo ha un timbro tecnico, quando è orfano di mandati elettorali.

Per ricucire questo filo spezzato occorre che l’ago sia in mano ai cittadini. Se non si riflettono più nel Parlamento, se nemmeno il governo vi si specchia, allora è il Parlamento che d’ora in poi dovrà riflettersi in una diretta decisione popolare. Servono più referendum, ecco la terapia. Servono consultazioni popolari, come quelle che il governo Monti ha già messo in cantiere sul valore legale della laurea. Ne otterremmo, se non altro, un po’ di pace: se perdi il referendum, non puoi più prendertela con il governo di Roma. E d’altronde c’è un solo modo per riabilitare il nostro Stato: a questo punto i cittadini devono farsi Stato.

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