Il termometro e la febbre dell’elettore di sinistra

14 Feb 2012

Le primarie sono un termometro, non serve farle sparire per eliminare la febbre. Non serve nemmeno cambiare le regole, inventarsi un termometro che segni sempre 36: se la febbre è a 40 bisogna curarla. Leggi l’intervista di Curzio Maltese

Le primarie sono un termometro, non serve farle sparire per eliminare la febbre. Non serve nemmeno cambiare le regole, inventarsi un termometro che segni sempre 36: se la febbre è a 40 bisogna curarla, diffidare di chi non la vede o la considera un complotto.
Bisogna pretendere un altro medico, uno che abbia i farmaci e conosca i dosaggi. Le primarie non si perdono mai, che siano di partito o di coalizione, perché sono fatte per misurare il polso dell´elettorato, capire il suo stato d´animo e dare voce ai cittadini: che siano loro a dire da chi vorrebbero essere governati, e la gara cominci. La gara, va da sé, è quella che viene dopo: è la competizione con l´avversario politico. Le primarie sono fatte per trovare la persona giusta per vincere le elezioni. Sono la restituzione temporanea di una delega: scelto, insieme ai cittadini, il candidato ecco che il sistema dei partiti può attrezzarsi alla contesa, affrontare la campagna elettorale, risultare convincente e coeso, se ne è capace, ed eventualmente vincere. In via del tutto teorica si può dare il caso che la prospettiva strategica sia al contrario quella di perdere le elezioni: in questa eventualità è senz´altro opportuno che un partito proponga per le primarie un candidato debole e poco amato e che provi ad imporlo sugli altri candidati di coalizione. Solo in questo caso se il suo candidato fosse sconfitto alle primarie e l´antagonista di altra matrice politica vincesse le elezioni il partito in questione potrebbe dire di aver perso. Avrebbe perso la chance di perdere. Sarebbe come se il Pd, dopo aver proposto Morcone come candidato a Napoli, si fosse sentito sconfitto dalla vittoria di De Magistris. Come se, in via teorica.
Ma veniamo alla febbre, e parliamo di Genova.
Bisogna farsi alcune domande semplici. La prima è come proceda il Partito democratico nella scelta dei candidati. Quali sono i criteri? La fedeltà al leader, l´appartenenza a una corrente, la capacità di interdizione della corrente interna contraria, l´altezza, il sesso, la religione, il caso? Marta Vincenzi è sindaco in carica. Il partito romano e regionale, ramificazioni locali comprese, non l´ha mai sostenuta: imprevedibile, poco duttile, cattivo carattere. Unica voce in suo soccorso da Roma, nelle ultime settimane, quella di Ignazio Marino. Se il Pd avesse detto «ha mal governato» avrebbe avuto senso schierare un altro candidato, ma non l´ha fatto. Ha messo in campo Roberta Pinotti per sbarrarle il passo. Cattolica, parlamentare, sostenuta dall´establishment: Pinotti è rapidamente diventata “l´altra”, come tale è stata vissuta da un elettorato stufo oltre il limite di guerre intestine, incertezze, ipocrisie, manovre sotterranee. Pochi giorni fa a Genova un alto dirigente democratico mi ha detto che si sarebbe trattato di una battaglia tra le due candidate, che Doria non aveva nessuna chance, «Doria prenderà il voto dei grillini». Anche di questa miopia bisognerebbe parlare finalmente chiaro: la stessa miopia che faceva prevedere anni fa ai dirigenti romani la vittoria di Boccia su Vendola in Puglia, la loro avversione a De Magistris e a Pisapia, la completa sottovalutazione di Zedda nel suk delle diatribe di partito sarde e, per parlare del futuro prossimo venturo, la ridicolizzazione del candidato Bachelet nelle primarie del Pd Lazio, la contrapposizione fra Borsellino e Faraone a Palermo. Anche a Palermo, il 4 marzo, ci saranno due candidati del Pd. A Monza, qualche settimana fa, ce n´erano quattro. Ma il punto non è neppure questo, come sembra credere Bersani, per quanto trovarsi di fronte a quattro candidati dello stesso partito possa far pensare gli elettori ad una scarsa coesione del medesimo, diciamo pure ad una certa ostilità interna.
Il punto è la distanza fra chi prende queste decisioni e il suo elettorato. L´incapacità di leggere la realtà e di capirla. La difesa della ditta non può essere fatta a dispetto di chi quella ditta la deve sostenere. Uno su tre degli elettori del Pd votarono Pisapia a Milano, e sono gli elettori del Pd (ex elettori, elettori delusi, attuali elettori) ad aver votato Doria ieri. Non c´è nulla di antipolitico e di demagogico in questo, è il modo più chiaro che i cittadini hanno per parlare ai partiti (ai loro partiti) e dire che non è la politica che non vogliono, ma questa politica. Non i partiti, ma questi partiti. Di più chiaro ancora potrebbe esserci solo un disegno: cambi la classe dirigente, si faccia spazio ad una generazione nuova, si azzerino le guerre intestine di corrente, le rendite di posizione e di apparato. Ci si prepari a tornare alla politica, anche a livello nazionale, affidandosi alle competenze, alle passioni, ai talenti: l´Italia ne è colma, i partiti ne dispongono per quanto si ostinino a ignorarli, a trattarli da guastatori quando si fanno presenti. Diversamente, le accuse di antipolitica suoneranno sempre e solo come autodifesa del proprio posto da occuparsi a vita. Diversamente qualunque outsider forte della dote dell´essere “contro”, dell´essere “altro” rispetto al sistema vincerà sempre più nettamente. Diversamente il Pd, che ha le primarie nel suo Dna – e non è un caso che di dna si torni a parlare oggi – farà la bestia da soma che offre alla coalizione gli spazi, le strutture, la logistica, il sostegno per far emergere candidati altrui. Che per l´Italia sarà anche un bene, per il partito moltissimo di meno. Dice oggi Giovanni Bachelet: «Un po´ dei nostri dirigenti vengono da partiti nei quali contavano solo le tessere e questa storia delle primarie non l´hanno digerita fino in fondo. Questi dirigenti sentono che con le primarie stanno mollando ai cittadini un pezzo importante di sovranità e di potere, non vorrebbero mai averle inventate, se le vorrebbero rimangiare. A loro piacerebbero primarie di incoronazione in cui prima i dirigenti decidono chi vince e poi si vota. Non piacciono, invece, primarie nelle quali prima si vota e poi si sa chi ha vinto». È così, e rompere tutti i termometri del regno non servirà a nasconderlo. A un certo punto, immaginiamo, verrà il giorno in cui gli attuali dirigenti del Pd vorranno osservare la realtà anziché licenziarla come ostile: gli italiani hanno voglia di politica, e persino di farla dentro i partiti. È di questi partiti, di questa politica e delle sue usurate alchimie che diffidano. A dar loro ascolto la vera antipolitica, quella forcaiola e qualunquista, sarebbe sconfitta con la sola arma possibile: la passione per il bene comune, l´interesse di tutti sopra quello di pochi.

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