Democratici non moderati

14 Feb 2012

A me sembra che le cose stanno confermando la scelta fondamentale del Pd di sostenere il governo Monti. Essa non fu dettata da calcoli di convenienza o di parte (tanto più che se si andava alle elezioni noi le avremmo vinte).

A me sembra che le cose stanno confermando la scelta fondamentale del Pd di sostenere il governo Monti. Essa non fu dettata da calcoli di convenienza o di parte (tanto più che se si andava alle elezioni noi le avremmo vinte). Ciò che ha guidato il Pd è l’idea che la sua leadership guidata da Bersani ha della crisi italiana. Ritengo necessario ricordarlo.
Si trattava di una cosa molto diversa dalla disputa sulla «foto di Vasto». La scelta era quella di affrontare problemi e interrogativi sulla tenuta dello Stato e del tessuto stesso della nazione. C’era in noi (o in una parte di noi?) la consapevolezza che finiva una lunga fase storico-politica non solo in Italia ma nel mondo e che, di conseguenza, se il grande blocco di destra berlusconiano non teneva più, ciò era per tante ragioni (anche la nostra lotta) ma essenzialmente perché era diventato anacronistico. Ma questo significava (è chiaro?) che anacronistico diventava anche tutto il vecchio sistema politico. Per tante ragioni, ma al fondo per il fatto che la politica interna e la politica estera diventavano la stessa cosa. Il destino dell’Italia non era più separabile da quello dell’Europa. Il solo modo per «salvare l’Italia» era spingerla a muoversi su un terreno più vasto, quello dove si prendono le grandi decisioni e dove le forze del progresso e della democrazia possono almeno sperare di misurarsi con l’enorme potere delle oligarchie dominanti.
Parlo dell’Europa. Una Europa che oggi, purtroppo, nella realtà non c’è ancora, ma che potrebbe esserci se l’insieme dei suoi movimenti progressisti, socialdemocratici compresi (o no?) rialzassero la testa e rimettessero in gioco non solo la potenza economica del vecchio Continente ma il suo potenziale di civiltà: che poi è la civiltà del lavoro, dei diritti e delle libertà umane. La sua enorme creatività intellettuale. C’era quindi bisogno non di rifare un vecchio partito di sinistra, ma una forza più ampia dove si potevano raccogliere le storie non solo del riformismo socialista ma anche cattoliche e liberali. E tutto questo per riaprire un dialogo con le forze profonde del Paese. L’idea in fondo era questa: superare la tormentata vicenda di una sinistra da sempre divisa, per mettere in campo finalmente una grande prospettiva politica: democratica e di civiltà.
Che cos’è il successo di Monti se non la prova che il Paese nella sua intelligenza istintiva chiede di muoversi in una direzione nuova e costruttiva? È il Paese che ricomincia a interrogarsi su se stesso e sul suo futuro. Esso chiede che, finalmente, chi «governa» (la politica) si occupi dei suoi problemi e dei suoi drammi che sono al limite di possibili rotture sociali. Il problema non è la nostra libertà di dire che non tutte le decisioni di Monti vanno bene. Diciamolo. È quello di non suicidarci continuando a dividerci come a Genova e a battibeccare su formule dietro le quali non c’è nulla. C’è solo lo dico con molta amarezza una grande distanza dai problemi veri. Del resto, da quanto tempo non aggiorniamo la nostra analisi della società italiana? Non sono sicuro che abbiamo coscienza per fare solo un esempio che nel Mezzogiorno siamo di fronte non più solo alla vecchia distanza dal Nord in termini di reddito ma a un inedito processo di degradazione. Ai poteri criminali si deve ormai aggiungere il crollo della natalità, il maggiore invecchiamento in Italia della popolazione, lo spopolamento di intere zone e soprattutto il ritorno alla grande dell’emigrazione, soprattutto giovanile. Centinaia di migliaia di persone all’anno.
Le prediche rivolte dai «professori» ai giovani sono non solo stupide ma disinformate e suscitano in me una certa indignazione. Ma di che parlano questi signori quando siamo al punto che ogni giovane meridionale che si laurea in una materia scientifica lo fa sapendo già che il lavoro lo troverà altrove? E perciò se ne va. È questo il più grande ostacolo allo sviluppo e all’occupazione, non l’articolo 18. Aggiungo però che è proprio a fronte di fenomeni come questo che io trovo non più sopportabile la rissa dei notabili e dei politicanti, il loro continuo combattersi sul chi comanda, con chi e contro chi faccio le alleanze, quale legge elettorale, ecc. Torniamo alla realtà. È la realtà delle cose che potrebbe restituire ai partiti e alla politica il loro ruolo insostituibile, che è quello di riformare la società italiana non solo dall’alto come i tecnocrati ma entrando nelle sue fibre e nelle coscienze delle persone. Il problema è questo, non è se diventeremo socialisti, non dimenticando però l’esempio di quelli che predicavano nelle osterie della Valle Padana.
Sommessamente, direi quindi che la risposta del Pd alla rottura dei vecchi equilibri politici e ai profondi mutamenti della realtà non mi sembra ancora adeguata. Vogliamo interrogarci sul «dopo Monti»? Benissimo. Io però comincerei col domandarmi fino a che punto il Pd è cosciente del suo ruolo oggi. Apriamo gli occhi. È cambiata una intera fase storico-politica. È un passaggio paragonabile agli anni ‘30 quando i vecchi assetti furono spazzati via, il che impose un cambiamento radicale dei sistemi politici. Da un lato si affermò, per impulso della socialdemocrazia e di Roosevelt, un nuovo riformismo basato su un compromesso tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Dall’altra parte ci fu l’avvento dei regimi autoritari e anti-parlamentari, favorito in Italia dalle classi dirigenti (Croce ed Einaudi compresi) e dai grandi giornali come il Corriere della Sera, il cui nemico era Giolitti, il riformista. Anche l’odierna marea di fango contro i partiti, tutti i partiti, tutti uguali, non mi sembra così innocente.
Stiamo attenti a non scherzare troppo col Pd che è pieno di difetti ma è la sola struttura capace di tenere insieme le forze progressiste. Non sono un pericoloso estremista e capisco benissimo la prudenza con cui dobbiamo gestire i guai dell’Italia, che in buona parte sono colpa nostra. Ma stiamo attenti. Sono i problemi che sono radicali. Molto radicali. E non sono affatto quelli di cui si chiacchiera nei corridoi della Camera. C’è gente anche in Italia che sta ricominciando a patire la fame. E allora voglio essere molto chiaro. A chi mi attacca perché non mi dichiaro socialista, do la stessa risposta che offro a chi si preoccupa perché crede che qualcuno voglia che socialista lo diventi il Partito democratico. La mia risposta è questa. Se da anni mi batto, scrivo e mi impegno per la formazione di un partito più largo rispetto alla visione del mondo della sinistra storica, più inclusivo, più aperto ai movimenti, più centrato, anche col nome, su quella che è la questione più grossa e più densa di pericoli del nostro tempo, cioè la crisi della democrazia moderna; se cerco lo strumento più adatto per un nuovo patto democratico e sociale senza il quale le società si disgregano e si imbarbariscono e le stesse economie di mercato alla lunga non reggono; se dunque ho fatto questa scelta è perché i problemi reali non sono più leggibili dentro il vecchio universo concettuale del marxismo e del classismo. È chiaro?
Ma questo non significa fare un partito moderato il cui orizzonte sta tutto nella politica corrente. Dove va l’Italia se non c’è una forza capace di tornare a rappresentare un popolo, una umanità, se non c’è un partito capace di lottare con esso e per esso? Chi pensa che per fare politica e difendere la democrazia basti una nuova legge elettorale, non è nemmeno un moderato, è un cretino. È vero che in un partito pluralista c’è posto anche per i cretini. Ma spero ci sia posto anche per uno come me. Il quale si pone la stessa domanda che ho letto in un recente articolo di Repubblica: «Che tipo di società sarà una società nella quale l’accumulazione del capitale è libera da ogni vincolo politico, da ogni problema di redistribuzione, da ogni considerazione di impiego che non sia il profitto, e quindi, da ogni responsabilità verso l’ambiente e la salute di chi lavora? Siamo certi di voler vivere in una società di questo tipo?».
È con problemi come questi che dovrebbe saperlo bene Scalfari si misurarono grandi liberali come Keynes, come lord Beveridge e perfino un aristocratico americano della élite bostoniana come Roosevelt. Ricordiamolo anche a Monti.

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