Il mistero milionario

01 Feb 2012

LA MARGHERITA, un partito che non esiste più da cinque anni, dispone tuttora di un patrimonio superiore ai 20 milioni di euro. Questo partito-fantasma, cioè, da solo detiene una cifra di gran lunga superiore ai soldi che risparmieremo in un anno con la decurtazione sugli stipendi dei parlamentari approvata lunedì scorso. Il suo tesoriere, senatore Luigi Lusi, si è assunto davanti ai giudici la colpa di un’appropriazione indebita per 13 milioni.

Tredici milioni distolti attraverso 90 bonifici in soli due anni e mezzo dai conti bancari di cui era cointestatario insieme a Francesco Rutelli. Confidiamo di sapere al più presto se davvero si tratti solo di un clamoroso episodio di disonestà personale, come affermano gli ex dirigenti della Margherita, o se invece Lusi stia sacrificandosi anche nell’interesse di altri. Ma nel frattempo dobbiamo chiederci: cosa se ne fa la defunta Margherita, dopo la confluenza nel Partito Democratico, di tutti questi soldi? Nella reticente dichiarazione attraverso la quale i rappresentanti legali della Margherita (Francesco Rutelli, Enzo Bianco e Gianpiero Bocci) si dissociano dall’operato di Lusi, stupisce il compiacimento con cui rivendicano di avere sempre goduto di “bilanci sani e in attivo”. Quasi che il risparmio e la valorizzazione patrimoniale rientrassero tra le finalità di un partito politico, alla stregua di un’azienda profit. Grazie alla legge sui rimborsi elettorali (sovrabbondanti) con cui s’è aggirato il referendum che nel 1993 abrogò il finanziamento pubblico dei partiti, ci sono forze politiche che incassano molto più di quanto spendono, dedicandosi a investimenti speculativi di cui non sono tenute a rendere conto. La Margherita, per esempio, è riuscita a “risparmiare” oltre 20 milioni in un decennio. Usufruendo peraltro di rimborsi elettorali ben oltre la data del suo scioglimento. La verità è desolante: fra le ricchezze nascoste che penalizzano l’economia nazionale, rientrano pure i tesoretti occultati dalle forze politiche che ne predicano il risanamento. Partiti viventi e scomparsi gestiscono patrimoni mobiliari e immobiliari grazie ai quali i loro notabili intestatari perpetuano il proprio potere, talvolta traslocando perfino da uno schieramento all’altro. Non paghi di una legge elettorale che riserva loro l’esclusiva sulla scelta dei candidati, profittano ulteriormente di questo potere di firma per ostacolare la contendibilità democratica delle cariche dirigenti.

È capitato (di rado) che i “residui attivi” venissero investiti in operazioni politiche trasparenti: l’estate scorsa i Democratici dell’Asinello – dieci anni dopo il loro scioglimento! – li hanno devoluti per la raccolta di firme del referendum abrogativo della legge porcellum. Ma il più delle volte i capipartito e i capicorrente investono i nostri soldi nella loro autoperpetuazione. Basti pensare ai derivati speculativi acquisiti in Tanzania, a Cipro e in Norvegia dalla Lega Nord. E agli appartamenti comprati da Di Pietro e Mastella. Distinguere fra il lecito e l’illecito, in questa corsa all’accaparramento di risorse pubbliche, risulta difficoltoso. Perché i gruppi dirigenti tendono a diffidare anche al loro interno, come dimostra l’insolita “separazione dei beni” stabilita fra ex Ds e ex Margherita al momento del matrimonio nel Partito Democratico. Mentre i notabili che non dispongono di accesso diretto alla mangiatoia dei rimborsi elettorali, ricorrono alle Fondazioni per attingere finanziamenti sia pubblici che privati.

Stupisce la cautela di Bersani, cui non bastano le ammissioni di colpa già rese ai giudici dal senatore Lusi per deferirlo ai probiviri del partito, e resta in attesa che vengano “accertate responsabilità individuali”. Forse perché Lusi è depositario di troppe informazioni riservate, come già Filippo Penati? A vent’anni da Mani Pulite intorno ai partiti ruota un eccesso di denaro pubblico sottratto al dovere del rendiconto perché mascherato sotto forma di rimborsi elettorali, un eccesso scandaloso quanto il ritorno in auge delle tangenti, ancorché legalizzato.

Né può essere addotto come giustificazione il fatto che il principale partito della destra goda del sostegno di uno degli uomini più ricchi del paese.

L’autoriforma del Pd promessa da Bersani non potrà dunque limitarsi alla selezione delle candidature attraverso le primarie, su cui si è impegnato alla recente Assemblea nazionale. Deve contemplare un censimento veritiero delle risorse patrimoniali ereditate dal passato e un sistema di controlli rigoroso sul loro utilizzo no profit condiviso. Come direbbe lui, “non siamo mica qua a scimmiottare l’investment banking…”.

Desta invece curiosità Francesco Rutelli, trasmigrato con Casini e Fini nel Terzo Polo centrista, quando rilascia dichiarazioni a nome della fu Margherita intenzionataa “recuperare tutto il maltolto”.

D’accordo, ma per farne poi che cosa? Basterà la sua firma sul conto in banca depredato, sottoscritta con delega congressuale al tempo in cui Rutelli credeva ancora nel bipolarismo e nel progetto democratico, per riconoscerlo comproprietario di quei 13 milioni? Per oltrepassare la stagione della politica sottomessa alla tecnocrazia, urge liquidare questi partiti ridottia consorterie private, in palese violazione dell’articolo 49 della Costituzione della Repubblica: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Con metodo democratico, appunto.

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