Eco: così ho rivisto “Il nome della rosa” ma salvatemi dai critici militanti

31 Gen 2012

A trent’anni dalla pubblicazione, è appena uscita la nuova edizione riveduta e corretta de “Il nome della rosa”. Il grande scrittore, tra i garanti di LeG, racconta il suo rapporto con la scrittura e la critica letteraria

«Ancora un’intervista sul Nome della rosa! Oh mamma mia…». D’accordo, professore, in trent’anni ne avrà fatte tante, di interviste, ma è appena uscita la nuova edizione riveduta e corretta, avrà visto che… «Su Internet continuano a parlare della “riscrittura” del Nome della rosa, anche se non è una riscrittura, per cui se alla fine ci saranno degli ingenui che la comperano credendola diversa, peggio per loro. Sono stati avvertiti in tutti i modi».
L’ampio salone di casa Eco guarda sul Castello Sforzesco in una giornata freddissima. Gli ottant’anni appena compiuti passerebbero pressoché inosservati se in un angolo non ci fosse, a testimoniare i disagi dell’età, la collezione di bastoni di cui Umberto Eco sembra molto fiero. È meno fiero della sciatica, che non lo lascia in pace da tempo.
Dunque, se parlare di riscrittura è un po’ esagerato, parliamo di revisione?
«Sono cose che fa chiunque. Sugli altri miei libri, di ristampa in ristampa, man mano che arrivavano segnalazioni di lettori e traduttori, cambiavo e correggevo, ma non se n’è accorto nessuno».
Che bisogno c’era di rivedere un romanzo che ha avuto tanto successo?
«In massima parte l’ho fatto per fastidio mio. Mi davano noia certe espressioni o ripetizioni. Per il lettore ho fatto piccoli aggiustamenti alleggerendo le citazioni latine, anche se avrei potuto fregarmene del lettore visto che il libro ha venduto trenta milioni di copie (ormai dicono, ma forse è la metà). Insomma, a trent’anni di distanza, non avendolo mai toccato mi sono preso il divertimento di fare le pulizie di Pasqua».
Perché «dicono» e «forse»? Non conosce la tiratura?
«No, né io né l’editore italiano, perché all’epoca non esistevano ancora le convenzioni con tutto l’Est europeo, la Cina e qualche altro Paese orientale. Quindi traducevano senza dirtelo, e ovviamente senza pagare i diritti. Se non ti mandano rendiconti non sai quante copie hanno venduto, e ti devi basare su congetture».
L’ha irritata quel che ha scritto il critico Pierre Assouline su «Le Monde»: che lei ha voluto semplificare la lingua del romanzo per avvicinarlo ai nativi digitali?
«Ma sì, era un caso di scarsa serietà: si sono messi a parlare senza aver visto il libro. Ma sa, “l’Espresso” mi ha appena mandato l’articolo di un giornale spagnolo online, dove si racconta che sono stato sorpreso in auto dalla polizia di Madrid con una prostituta, sono stato messo in carcere, mi sono ribellato… E già ci sono i commenti dei blogger alla notizia. Cosa devo fare? Andare per avvocati? Poi l’editore spagnolo mi ha informato che si tratta del sito di due ragazzi specializzati in falsi del genere, e che nessuno prende sul serio. Per fortuna».
Che effetto le fa rileggersi?
«Succede per i propri scritti quel che succede per i libri altrui. Ci sono testi di Pavese o di Calvino che ti hanno entusiasmato, ma leggendoli dieci anni dopo pensi: beh tutto qui… Poi passano ancora dieci anni, li riapri e dici: no no, sono molto belli. Dipende dall’umore, dal clima, dall’umidità che c’è nell’aria, come le sciatiche. Così, leggi una tua pagina e ti dici: guarda che roba schifosa che ho fatto, la rileggi un anno dopo e pensi: mica male. Ho riletto Il fu Mattia Pascal pochi mesi fa e mi sono detto: mah, niente di speciale. Per questo bisognerebbe impedire l’esistenza della critica militante».
Perché?
«Perché è troppo metereopatica. La critica accademica supera l’occasionalità: leggi un libro anni dopo, ci lavori, ci torni sopra, lo studi… La critica militante invece dipende dal tempo che fa e dall’umido che arriva. Una volta usciva un libro di Moravia, il direttore del “Corriere” lo dava a Emilio Cecchi per la recensione, ma non da fare subito: così Cecchi poteva passare anche due, tre mesi su un libro, aveva il tempo di ruminarlo. Oggi invece la recensione te la chiedono per domani, anzi ancora prima».
Veniamo alla revisione. Ha lavorato soprattutto sulle ripetizioni?
«Ho visto un curioso articolo di Giuseppe Antonelli che diceva: Eco ha tolto settatore per mettere seguace e poi però due pagine dopo ha lasciato settatore… Ma è per quello che l’ho fatto, per evitare la ripetizione! È normale, se hai due volte la stessa parola non è che la sostituisci due volte».
Ma le ripetizioni sono sempre un difetto da correggere?
«Nella mia traduzione di Nerval ho rispettato tutte le ripetizioni dell’originale. Avrà avuto qualche ragione, l’autore, se le ha lasciate: io avrei potuto migliorarlo, ma andando a orecchio mi sono accorto che lui non voleva. Vabbé che era matto, ma non così stupido da ripetere tante volte lo stesso termine senza volerlo».
Con il computer le pulizie di Pasqua sono anche troppo facili.
«Il primo romanzo che ho lavorato al computer è stato Il pendolo, ma con un sistema di scrittura che non consentiva il controllo. L’isola del giorno prima invece l’ho scritto in Word e sia pure capitolo per capitolo potevo andare a cercare le ripetizioni. Chissà cosa avrebbe fatto Manzoni se avesse avuto Word: il suo lessico era poverissimo e con le concordanze si è scoperto che bene e buono vengono ripetuti un numero impressionante di volte… Ma era la scelta stilistica di un linguaggio popolare e affabile o un accidente precomputer?».
Le piace che venga definito un lavoro di cosmesi?
«Mah, non ci trovo niente di male, se cosmesi non è caricarsi di fard, ma pettinarsi e dare una spuntatina ai baffi… Certo, quando Manzoni comincia a passare dalla Ventisettana alla Quarantana, più che di cosmesi bisogna parlare di un ripensamento. Però se si riprende in mano un libro per dare una sforbiciata qua e là, io parlerei, come tutti, di revisione».
Però i ritratti di Guglielmo e del bibliotecario Malachia hanno subìto più che un lavoro cosmetico: cambiano nell’aspetto fisico, più lieve e meno grottesco.
«Il fatto è che quando scrivevo Il nome della rosa mi compiacevo di un certo gusto citazionistico, poi diventato il segno del postmoderno, che non era ancora così diffuso. Dopo trent’anni uno dice: diamoci una regolata… Nel ritratto del bibliotecario c’era una citazione dal Confessionale dei penitenti neri. A distanza di tempo non mi sembrava indispensabile e l’ho tolta. A Guglielmo ho tagliato i ciuffi di peli giallastri alle orecchie, ma non c’entra il fatto che volevo farlo somigliare a Sean Connery, come è stato detto».
E allora perché questo lavoro di forbici?
«Colpa di Sherlock Holmes. Mi sono pentito infinitamente di avere insistito troppo agli occhi del lettore sul richiamo a Sherlock Holmes con il cognome di Guglielmo da Baskerville. Non ne avevo bisogno, mi ci stavo divertendo ma provocava troppe analogie, dunque gli ho tagliato i peli delle orecchie. Ecco, se questa è cosmesi, va bene. Sono gli unici ritratti che ho cambiato. Li ho resi più indipendenti da altre fonti non indispensabili. In fondo, perché dovevo fare questi ritratti neogotici avvalendomi della trascrizione dell’abate Vallet? Ora sono più medievali».
Ha ridotto anche gli elenchi: sta venendo meno la sua passione per le liste?
«L’elenco deve avere le sue dimensioni giuste. Il libro del telefono è troppo lungo, non lo metterei nell’Ulisse. Ho alleggerito l’elenco della Coena Cypriani: nell’80 avevo il gusto di scoprire questo testo incredibile, cogliendo tutti i riferimenti, ma per il lettore normale era uno scoglio un po’ difficile da superare. Non volevo finire come Mozart a cui Giuseppe II rimproverò: troppe note».
Un romanzo nato in piena temperie postmoderna e diventato simbolo di quella cultura: come va letto oggi che il postmoderno è al tramonto?
«Prima obiezione: è proprio vero che non è più nell’aria? Solo dopo il romanzo, scrivendo le Postille, sono andato a leggermi John Barth, Donald Barthelme, i teorici del postmoderno, e mi sono reso conto che evidentemente era quello lo Zeitgeist. Ora mi pare difficile dire che sia stata superata quella fase: l’hanno superata forse tanti narratori commerciali, tornati al racconto dei sentimenti, ma Freedom di Franzen non è forse postmodern? Bisognerebbe pensarci su. Seconda obiezione: ammettiamo pure che gli elementi del postmoderno, il citazionismo, il lavoro meta- meta- eccetera, non corrispondano più ai tempi, però un’altra delle condizioni del postmoderno — e su questo ha scritto su di me, per esempio, Linda Hutcheon — è il doublecoding, una forma di scrittura che a un livello strizza l’occhio a un lettore colto, a un altro livello si rivolge a un lettore più ingenuo che non coglie la strizzata d’occhi».
Facciamo un esempio.
«Una scena che si può definire tipicamente postmoderna è la scopata di Adso in cucina. Si tratta di un collage di brani di mistici medievali che parlavano di visioni di Dio, ma messo lì in quel contesto sembra che alludessero al sesso, il che peraltro era vero. Infiniti lettori l’hanno presa come una bellissima descrizione di un amplesso e basta, compreso Jean-Jacques Annaud che ne ha fatto un orgasmo senza teologia. Insomma, c’è un gioco di doppia codifica. Anche un quadro di Max Ernst si può guardarlo come fosse un’opera surrealista alla Dalì, senza rendersi conto, con un brivido in più, che si tratta di un collage di pezzi preesistenti».
Del resto, postmoderno o no, lo sanno tutti che la letteratura si fa anche sulla letteratura…
«C’è una famosa battuta degli anni 60: Pasolini sa che il romanzo è morto ma non va a dirlo in giro per non far dispiacere alla mamma. Il lettore si spaventa se vai a dirgli che Omero citava degli aedi precedenti. Ci sono cose su cui la gente si impaurisce. Ricordo che una volta da Maurizio Costanzo c’era Vanni, il nipote, molto simpatico, di Leopardi: parlava di quando il prozio Giacomo andava al casino. A sentirlo in tv la gente si è scandalizzata, non poteva accettare un’ovvietà così offensiva. Ma certo che Leopardi andava al casino! Siccome poveretto non era bellissimo, se la cavava così. Allo stesso modo non si può accettare che Ariosto non facesse altro che citare i poeti precedenti, ma la letteratura si parla addosso molto più di quel che si pensa».
Come reagirono i suoi colleghi universitari al successo del «Nome della rosa»? Invidia?
«Intanto vorrei precisare che è solo dopo il romanzo che ho ricevuto 38 lauree ad honorem e quindi pare che i colleghi universitari l’abbiano presa bene. Caso mai sono i non universitari. In Italia, per ovvie ragioni qualcuno ha detto: ma questo faceva il cameriere in un bar e ora ha messo su un happy hour! Non era invidia, era non accettazione del vicino di casa. Anche perché in casa si conosce un’infinità di mie attività zuzzurellone, come il Diario minimo e quelle cose lì, mentre all’estero appaio solo come autore di libri seri. C’è poi un’altra caratteristica italiana. Se negli Stati Uniti Philip Roth vende molti libri, questo non ne diminuisce l’immagine che la critica se ne fa. Potrei mostrarle — ma bisognerebbe tirare giù dei faldoni — almeno due signori molto noti che appena uscito Il nome della rosa ne hanno scritto un peana, e quando il libro è arrivato alle 200 mila copie hanno scritto tutto il contrario. Se fosse rimasto entro le 5.000 copie sarebbe stato un capolavoro».
Davvero nessuna invidia?
«No, sarà odio culturale, non invidia. Sono alieno dall’attribuire all’invidia ogni forma di dissenso, altrimenti sarei peggio degli invidiosi».
È vero che lei temeva che «Il nome della rosa» diventasse «Il nome della resa», cioè che fosse una débâcle editoriale?
«È stata una bellissima battuta, credo, di Luciano Mauri, che in quanto distributore era interessato alla tiratura. O forse, guardi, è anche possibile che l’abbia inventata io: viene così facile che può averla fatta chiunque. È vero che a tavola con amici dissi che potevo dare il mio romanzo a Franco Maria Ricci per la sua Biblioteca Blu, un’ottima e dignitosissima sede. In effetti il libro, dal momento in cui l’ho finito ed ero pronto a darlo a Ricci, mi ha preso la mano. Sono successi alcuni episodi. Primo: nella presentazione annuale i librai ne prenotarono 80 mila copie sulla fiducia o per curiosità. Secondo: io dicevo che non volevo darlo alla Bompiani, perché essendo il mio editore mi sembrava troppo facile, e volevo sottometterlo al giudizio di altri editori. Tre giorni dopo mi chiama Giulio Einaudi: mi hanno detto che scrivi un romanzo, te lo prendo subito. Poi mi telefona (se ben ricordo) Paolini da Mondadori: è vero che hai scritto un romanzo? Lo prendiamo. A quel punto era inutile fare la mammoletta, non c’era più gusto né a farlo vedere ad altri né a farlo con Ricci. Allora l’ho dato da leggere a Vittorio Di Giuro, direttore di Bompiani. Fu lui il primo a pronunciare le parole magiche: ne faccio trentamila copie. Terzo: era la prima volta che scrivevo un romanzo e volevo il parere degli amici. Ho speso 500 mila lire, che allora erano tantissime, per fare le fotocopie. Neanche sotto tortura farò i nomi di persone non ignote che mi dicevano: sì, ma è troppo lungo e pesante, così non può funzionare, devi ridurlo della metà. François Wahl, del Seuil, che era allora il mio editore francese, mi scrisse: Cher Umberto, la baleine est trop grande, elle ne peut pas nager. La balena è troppo grande, non può stare a galla… (Ride di gusto, Eco). Ero in buona compagnia, Vittorini ha respinto Il Gattopardo, Bompiani Via col vento e Lolita…».
E, dopo averlo stampato, ha gettato al macero «Il tamburo di latta»… Lei era alla Bompiani: ricorda come andarono le cose?
«Ero voltato dall’altra parte. Essendo all’epoca condirettore editoriale, sono tenuto alla riservatezza».
Si dice che il suo romanzo abbia cambiato la letteratura italiana. È d’accordo?
«Sono l’ultima persona a poter rispondere. Ma sa, trent’anni sono pochi. Bisogna aspettare almeno 150 anni per avere una visione esatta. Poi, scusi, ci sono libri che possono apparire provocatori, ma che non cambiano la letteratura. Prenda Gli indifferenti: casca come un sasso in mezzo allo stagno, ma possiamo dire che nei dieci-vent’anni dopo i narratori italiani hanno cominciato a scrivere come Moravia? No. Continuavano a scrivere come Virgilio Brocchi. Forse Il nome della rosa ha incoraggiato alcuni romanzi storici. Prima c’era qualcosa di Malerba, un Chiusano… dopo ne sono usciti a decine: evidentemente ha dato l’impressione che quel filone poteva essere perseguito. In fondo in Italia, diversamente che nel mondo anglosassone o in Francia, non c’era una tradizione di romanzo storico, ci si era fermati all’Ottocento. Ai tempi di Manzoni sono uscite cose illeggibili, come si fa a leggere oggi Margherita Pusterla o L’assedio di Firenze? I pochi buoni romanzi storici, l’Alfiere di Alianello o i Viceré, prima che uscisse Il Gattopardo era come se non esistessero».
È vero che il titolo del romanzo è saltato fuori all’ultimo?
«Avevo tirato giù una decina di titoli, tra cui il primo era Delitti all’abbazia e il meno ovvio era Blitiri, un termine usato dai logici medievali per indicare una parola senza senso. Il nome della rosa è venuto fuori all’ultimo, proprio pensando all’esametro finale: e come facevo vedere la lista agli amici, tutti mi indicavano quello. In fondo piaceva anche a me perché non c’entrava niente col libro, benché poi tutti abbiano cercato di darne interpretazioni sottili».

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