Razzismo: il fallimento della politica

20 Dic 2011

E’ ora di dire che un partito secessionista, razzista, xenofobo, rozzo, becero, ridicolo, minaccioso e grottesco come la Lega, che con la sua presenza in Parlamento, prima ancora che nel governo, ha fortemente contribuito in questi anni alla degenerazione del tessuto civile, non può avere diritto di concorrere, come vorrebbe l’art. 49 della Costituzione, alla vita democratica del paese

Nell’articolo pubblicato su La Repubblica del 12 dicembre Gustavo Zagrebelsky ricorda l’ammonimento per cui “non tutti gli ottimisti sono stupidi, ma tutti gli stupidi sono ottimisti”.
E oggi in effetti è difficile sfuggire al pessimismo della ragione osservando i fatti della politica e della società italiana.
L’incendio del campo rom di Torino e il massacro fascista dei senegalesi a Firenze sono pugni nello stomaco.
Adriano Prosperi ha scritto che “è sotto esame il tasso di civiltà del paese che deve prendere coscienza di qualcosa che è accaduto quasi sotto pelle, riempiendo gli interstizi sociali della convivenza, le maniere di pensare, i comportamenti, le pratiche istituzionali (…) i segnali di questi giorni hanno portato allo scoperto il fondo melmoso e fetido dove si è iscritto il razzismo come vincolo sociale”.  Un recente rapporto sul razzismo, ricorda Prosperi, ha denunciato tendenze razziste nel 51 %della popolazione italiana.
Torna ancora una volta in mente Pasolini e il suo articolo sulla scomparsa delle lucciole: “Gli italiani sono diventati in poco tempo un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale”.  Lo scriveva nel febbraio 1975.  Quali aggettivi aggiungerebbe oggi?
Se l’Italia oggi è anche questo la politica ne porta una enorme responsabilità.
Non tutti i partiti nella stessa misura, certo. E’ ora di dire che un partito secessionista, razzista, xenofobo, rozzo, becero, ridicolo, minaccioso e grottesco come la Lega, che con la sua presenza in Parlamento, prima ancora che nel governo, ha fortemente contribuito in questi anni alla degenerazione del tessuto civile, non può avere diritto di concorrere, come vorrebbe l’art. 49 della Costituzione, alla vita democratica del paese. Altro che “costola della sinistra”.
Ma è il fallimento della intera classe politica, che pure ha goduto di privilegi, garanzie, immunità e finanziamenti pubblici che avrebbero dovuto renderle più facile l’azione nell’interesse pubblico, ad avere portato alla bancarotta civile del paese e a quella economica.
E’ fallito miseramente il berlusconismo, certo, ma le responsabilità dei partiti di opposizione sono comunque gravi. E’ stata la loro mancanza di credibilità sul piano della analisi politica, sul piano etico e dei principi e soprattutto sul piano del rapporto con il paese che ha consentito al centrodestra di fare dell’Italia di questi anni, e non solo del Parlamento, un bivacco di manipoli. La debolezza politica, l’impotenza culturale di fronte al berlusconismo e al leghismo di questi anni è una colpa, non un fatto ineluttabile.
Il fallimento della politica ha condotto ad un serio rischio di default del paese. Ne deriverebbero spaventose conseguenze non solo per le condizioni economiche dei cittadini, specie quelli più deboli, ma per l’intero tessuto civile e sociale del paese. Non è difficile immaginare che le spoglie del sistema economico sarebbero aggredite da capitali  di origine criminale. Le mafie dispongono di riserve finanziarie illimitate, al riparo all’esterno del sistema paese ufficiale e il loro “soccorso” potrebbe gradito a molti. Anche le potenze economiche straniere dei paesi emergenti potrebbero colonizzare il sistema Italia.
Di fronte a questo pericolo il presidente della Repubblica ha compreso che “la politica” non era in grado di farcela ed ha voluto il governo Monti.
E’ stato un commissariamento della politica, come spesso si è scritto in queste settimane? Forse no. Politica è cura della polis, tutela degli interessi dei cittadini, ricerca delle soluzioni tramite accordi da raggiungere con le forze parlamentari. E’ quello che Mario Monti sta cercando di fare. Nel pieno rispetto delle regole costituzionali, con l’appoggio di una maggioranza parlamentare, in base ad un mandato del Capo dello stato che della Costituzione in questi anni  ha saputo essere attento custode. L’art. 49 della Costituzione  prevede che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” non che i partiti debbano necessariamente dirigere e controllare la politica occupando i vertici delle istituzioni.  Siamo nello stato di eccezione solo nel senso che la maggioranza è parlamentare ma non politica, e ciò è accaduto per la semplice ragione che il nostro sistema politico  determinatosi in questi anni nelle forme e secondo i principi attuali – non esclusa una legge elettorale malsana -per esclusiva responsabilità dei partiti, ha condotto ad una situazione che impediva qualsiasi altra soluzione utile al paese.
Monti, la cui unica forza è il sostegno del Presidente della Repubblica, deve muoversi come un equilibrista sul filo. La sua posizione è politicamente debolissima per i veti contrapposti dei partiti, dei quali deve tenere conto. Berlusconi purtroppo ha ancora la “golden share” del governo e alterna  la carota dei comportamenti parlamentari al bastone degli attacchi beceri da parte dei suoi giornali al governo al quale ricorda ogni giorno che potrà cadere non appena il PDL (cioè il suo capo) lo vorrà.
Di Pietro, che si è messo sulla scia della Lega quanto a populismo e cinismo politico e che non riesce a parlare di politica senza attaccare l’avversario (che in questo caso però è Mario Monti)  sul piano morale, dipinge il governo come prono ad interessi corporativi e finge di non capire che non sono le lobbies a frenare le liberalizzazioni ma le loro rappresentanze parlamentari nei vari partiti, e che dunque Monti, il cui curriculum a favore della concorrenza non è in discussione, è impotente salvo mettere a rischio il governo e la salvezza del paese.
Piuttosto è desolante, come ha scritto Alberto Bisin, che i potentati economici
in Italia siano ancora tanto forti e organizzati da risultare inattaccabili anche da un governo tecnico, meno dipendente dal consenso elettorale. Ma questo non è imputabile al governo in carica che deve fare i conti con la ricerca di consenso elettorale  da parte delle forze politiche che lo sostengono.

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