In un magnifico libro di qualche anno fa Cormac McCarthy immagina un uomo e un bambino, padre e figlio, che spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. Dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse senza nome che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita.
Non c’è storia e non c’è futuro. C’è un obiettivo: il sud, il mare. Luoghi mitici, ma del tutto imprecisati, di una possibile salvezza. Il padre è sempre più vecchio e stanco. Ma ha quel bambino con sé. E quell’obiettivo. Portarlo verso il mare, verso il sud. Verso un futuro ancora possibile.
L’economia occidentale, e più specificamente italiana, è oggi quel mondo sconvolto da un’Apocalisse? E noi siamo dietro a quel carrello, con le nostre poche cose, a spingere verso un mitico mare di cui non conosciamo né i tratti né i confini?
Rileggendo quel libro ho avuto davvero la tentazione di pensarlo. Di pensare che quelle pagine, scritte nel 2006, avessero un valore profetico per quello che oggi stiamo vivendo. Mai, dal ’29, il mondo occidentale aveva vissuto una distruzione di ricchezza paragonabile a quella stiamo vivendo. Mai un intero paradigma produttivo, il nostro, era stato così fortemente messo in discussione.
La mia convinzione, non da oggi, è che la grande crisi finanziaria di questi anni sia la cartina di tornasole di una crisi più profonda, che ha a che fare con le tendenze secolari e planetarie degli assetti economici.
E’ l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i Paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dei nostri Paesi e dei nostri sistemi economici.
Dirò di più: la virtuale creazione di ricchezza ottenuta nell’ultimo ventennio attraverso la moltiplicazione degli strumenti derivati della finanza è stata una sorta di oppio che ci veniva somministrato per non vedere quello che stava accadendo. Ha ritardato, come dire, una presa d’atto. Ci ha illuso che Londra, New York, Berlino, Parigi, Milano continuassero ad essere il cuore dell’economia mondiale, il centro dei destini del mondo.
Non era già più così. E questo terremoto che stiamo vivendo, da quando i proprietari di case americani hanno cominciato a non rimborsare più i propri mutui, altro non è che il campanello della finita ricreazione.
La ricreazione è davvero finita. Il tempo della gioventù irresponsabile è definitivamente alle spalle. Quel mondo che due secoli fa ci appariva come la palestra per una infinita crescita della nostra capacità di produrre ricchezza è solo un ricordo. Ora siamo lì, sulla strada, con il nostro carrello malandato. E dobbiamo spingere. Dobbiamo farlo per quel figlio che abbiamo al nostro fianco e che dobbiamo portare verso il mare.
Il problema è che, proprio come quel padre immaginato da McCarthy, non conosciamo né la strada né i contorni e le caratteristiche di quel mare. Nessuno di noi sa davvero quale sarà il nostro destino produttivo, nessuno ha la ricetta per il futuro, nessuno ha modelli da proporre chiavi in mano pronti per l’uso.
Nessuno, e tanto meno io. Quello che so per certo, però, è che non è tempo né per il pessimismo rinunciatario dei declinisti né per l’inerzia degli illusionisti che in questi anni ci hanno raccontato che tutto andava bene.
Due secoli fa i luddisti, fieri avversari della rivoluzione industriale, assaltavano le prime fabbriche distruggendo le macchine che erano il simbolo della fine del sistema produttivo agricolo-mercantile e dell’inizio dell’era industriale. Non era una folle avversione alla modernità, ma l´incapacità di comprendere le opportunità del nuovo tempo che stava irrompendo. Quegli uomini vedevano con timore la fine di un mondo cui erano abituati e difendevano quello che per loro era l´unico modello di produzione possibile.
Oggi, a distanza di due secoli, nessuno va in giro a rompere macchinari ma, di sicuro, come quei luddisti, ci troviamo smarriti e incapaci di leggere i segni del futuro davanti alla rivoluzione avvenuta in questi anni nella divisione internazionale del lavoro, davanti all’ascesa impetuosa dei Paesi emergenti, davanti alla crisi della finanza e dei debiti sovrani, davanti alla impreparazione delle nostre economie a reagire e difendere le proprie posizioni.
E’ tuttavia possibile e doveroso cercare una missione nuova, un nostro modo specifico di stare nel mondo. Qualche anno fa ne scrissi con Giuliano Amato, uno dei pochi nostri politici capaci di sguardo lungo. Provammo ad avviare un dibattito su questo.
Ma la politica italiana di questa stagione non è sembrata interessata al problema. Che il presidente del Consiglio uscente avesse altre passioni e priorità lo abbiamo per la verità capito presto. Ma abbiamo anche dovuto prendere atto che il ministro dell’Economia, che pure ci ha spiegato di aver previsto per primo lo spostamento dell’asse mondiale dall’Europa alla Cina, andava sostenendo che per la crescita economica i governi non possono nulla, che al massimo al Tesoro si possono tenere i conti in ordine, ma per lo sviluppo tocca ad altri, tocca alle imprese, ai destini individuali, alle fortune o alle sfortune dei singoli.
Mai idea è stata tanto sbagliata. Gli Stati, i governi, possono fare molto, moltissimo per il rilancio dell’economia, per evitare l’avvitarsi dei paesi in un declino senza uscita.
Da dove cominciare? Da un fattore che può sembrare avere poco a che fare nell’immediato con il rilancio produttivo, ma che è un prodromo essenziale. Parlo dell’Europa. Perché questa è la prima cosa che va detta: se un futuro ci sarà, non riguarderà la sola Italia o la sola Francia. E neppure la sola Germania. Riguarderà tutti i paesi del Continente insieme.
Solo portandoci al livello, anche dimensionale, dei problemi che abbiamo di fronte saremo capaci di reagire. In un mondo che torna ad essere terreno di pascolo per i grandi dinosauri, la forza dei piccoli mammiferi è quella di organizzarsi in gruppo, altrimenti non hanno futuro.
Questo vale anche per i mammiferi un po’ più grandi, quelli che potrebbero avere la tentazione di credere di poter fare da soli. Non è così. E i nostri partner tedeschi farebbero bene a capirlo presto.
Non si può far politica nella più grande nazione d’Europa dando ascolto solo agli umori delle birrerie. L’economia tedesca sta traendo vantaggi enormi dalla moneta unica. E’ stata capace di fare le riforme che erano necessarie, certo. Ma ora proprio grazie all’euro sta vivendo un momento straordinario di tassi bassi e di capacità di export. Ne prenda atto. E contribuisca in modo responsabile al rilancio della moneta unica.
L’Europa non può più rinviare ancora la costruzione di una politica finanziaria e di bilancio comune, la trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul modello della Fed, il ricorso a strumenti di debito come gli eurobond, sia in funzione salvastati sia per finanziare le grandi opere infrastrutturali.
In questi giorni siamo tornati a sederci con maggiore credibilità al tavolo dei grandi d’Europa. Dobbiamo certo superare i nostri esami. Ma è giusto portare a quei tavoli anche queste istanze. Perché il futuro produttivo dei paesi europei passa anche da qui.
Difendere i campioni nazionali, poi, non ha più senso. Bisogna promuovere il più possibile l’integrazione europea anche nei gruppi industriali. Servono campioni europei, non nazionali. Soprattutto in quei settori dove più intenso è lo sforzo in ricerca e sviluppo e dove più rilevanti sono le economie di scala. In un mercato integrato e con una moneta unica, d´altra parte, sarebbe contraddittorio non cogliere questa opportunità.
C’è poi, per il rilancio produttivo, il tanto che si può fare nella politica interna. Sono due anni che mi prodigo in ogni occasione a sostenere le ragioni di una grande riforma fiscale: è venuto il tempo per spostare in modo draconiano il prelievo fiscale dalle imprese e dal lavoro verso la ricchezza ferma, quella improduttiva, i patrimoni.
Vedo finalmente che questo obiettivo è entrato tra i punti programmatici del governo Monti. Purtroppo il precedente esecutivo su questo ha prodotto solo parole e carte, senza spostare di un euro il prelievo fiscale, ma solo aumentandolo nel suo complesso.
Eppure è la ricetta che è stata alla base del successo dell’economia americana: non una fissazione da comunisti, dunque, ma una concezione pienamente liberale per cui la ricchezza da premiare è quella che genera altra ricchezza, che produce lavoro e occupazione, non quella che si fissa in immobili o in banche estere.
Alzare l’età pensionabile in modo da liberare risorse per un sistema generalizzato di protezione sul lavoro dovrebbe essere poi un altro tassello essenziale di una politica economica proiettata verso il futuro. E che dire dell’assistenza alle imprese nell’internazionalizzazione: in un mondo dove la competizione si vince proprio sulla capacità di produrre e vendere all’estero, questa dovrebbe essere la priorità delle priorità, e invece in Italia siamo riusciti nel capolavoro di smantellare l’Ice, l’Istituto per il commercio estero, senza prevedere alternative ad esso.
Eppure nonostante questo, nonostante tutto questo che la politica non fa, c’è ancora una parte del sistema produttivo italiano che sa difendersi sul mercato. Che sa resistere. E’ una parte certamente minoritaria, ma è qui che possiamo vedere le tracce di quel Sud, di quel mare che stiamo cercando.
L’ultimo rapporto dell’Istat ci dice che la crisi ha colpito in modo preminente i comparti industriali, in particolar modo quello manifatturiero tradizionale, il Made in Italy per intenderci.
Il saldo tra imprese nate e cessate è risultato negativo per 23mila unità nel 2008 e per 40mila nell’anno successivo. Soprattutto, le imprese non nascono e non crescono, perpetuando uno dei limiti più antichi del nostro sistema produttivo.
C’è però un numero significativo, per quanto limitato, di medi gruppi in grado di essere leader mondiali nei settori specifici in cui operano. Veri campioni dell’imprenditoria italiana, che hanno saputo ristrutturarsi per tempo ed innovare sui prodotti e sui marchi. La Banca d’Italia stima che questi gruppi siano circa 5mila sul totale delle 65mila aziende con più di venti addetti. Ancora pochi certo, ma tali da dare lavoro a circa un milione di addetti e da costituire un modello possibile di impresa che guarda all’export.
E’ a questi esempi che dobbiamo guardare se vogliamo immaginare un futuro per il nostro manifatturiero. Questo vuol dire adottare politiche per la crescita dimensionale delle imprese, favorire la creazione di reti e filiere, accompagnare queste aziende sui mercati di tutto il mondo.
C’è quindi una responsabilità che deve assumersi la politica, ma cui non può sottrarsi neppure il settore privato. Continuare a frammentare le proprie imprese per vantaggi fiscali, respingere l’apporto di risorse manageriali per mantenere in famiglia il controllo dell’azienda, chiudersi in settori domestici protetti, è forse un modo per sopravvivere qualche anno, ma alla lunga significa mettersi su una strada senza futuro.
Non perdiamo di vista che la globalizzazione, con tutte le difficoltà che ci ha portato in termini di concorrenza, ha messo al centro del consumo mondiale i brand di qualità, i marchi. Secondo un´analisi di Morgan Stanley l´attitudine dei cinesi verso i marchi di qualità sta crescendo esponenzialmente. Il Made in Italy di per sé è un brand di successo. Perciò io credo che l´Italia, prima ancora dell’Europa, abbia una grande opportunità che riguarda il manifatturiero ma che va ben oltre il solo manifatturiero: è la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare un´enorme chance per il nostro Paese.
Per cogliere l´occasione, però, dobbiamo scommettere con coraggio sulla strada dell’innovazione, senza attardarci nel passato di produzioni ad alta intensità di lavoro su cui non saremo mai più competitivi.
L’imprenditore – riscopriamo questo assioma essenziale – è colui che innova. Che rifiuta la logica della rendita e si mette su strade nuove. Ce lo ha insegnato il grande Schumpeter: “L’imprenditore è colui che mette in atto l’azione creatrice, che aggiunge qualcosa alla realtà, che pone i dati – cito dalla Teoria dello sviluppo economico – in nuovi contesti come fa il grande artista creatore con gli elementi artistici che ha a disposizione”.
Qualche settimana fa ho inaugurato alla Bocconi una cattedra intitolata a mio padre Rodolfo. E’ un luogo dove si insegnerà a fare impresa. Ed è proprio questo che ho detto ai tanti giovani che sono intervenuti: se vogliamo sfuggire al declino il primo passo è quello di riscoprire il gusto dell’imprenditore che innova.
Alimentare una nuova classe di imprenditori oggi in Italia significa contribuire in modo sostanziale a quel rilancio economico di cui abbiamo bisogno. Perché lo spirito imprenditoriale è volano di crescita e di competitività.
Di mio padre ricordo, in quegli anni difficili del dopoguerra, di due dopoguerra per la verità, la ferrea volontà di costruire e ricostruire, di fare impresa, di creare ricchezza, di migliorare le condizioni di vita proprie e della comunità in cui viveva. Ecco le prima risorse che oggi dobbiamo ritrovare.
Siamo di nuovo come in quei dopoguerra. Sono partito dalla metafora tragica del libro di McCarthy proprio per sottolineare la drammaticità della crisi che stiamo vivendo. Dobbiamo, per arrivare al nostro mare, riscoprire quelle virtù, quella fame di fare impresa.
La forza creatrice dei nuovi imprenditori dei Paesi emergenti ha dimostrato, in questo primo decennio del nuovo secolo, che le previsioni dell’ultimo Schumpeter di una crisi irreversibile delle risorse imprenditoriali erano errate. La spinta dell’impresa continua a produrre sviluppo in giro per il mondo, anche se la civiltà borghese dei tempi dei Buddenbrook è scomparsa da un bel po’.
E’ tempo che quella spinta torni ad essere vitale anche da noi.
Apprezzo l’intervento dell’Ing. de Benedetti. Ma mi sarei aspettata da chi ha rivestito un ruolo importante nell’imprenditoria italiana e che tiene oggi una Lectio magistralis, qualche parola di riconoscimento e franca autocritica sulla dismissione endemica della vocazione imprenditoriale e industriale nel nostro Paese, a favore della sfrenata finanziarizzazione che ha visto coinvolti industriali di spicco, con la tacita quando non connivente complicità della classe politica tutta.
Non ha nulla da eccepire (almeno ex post) l’ing. De Benedetti, sull’operazione “Capitani coraggiosi” in Telecom? sul disfacimento della sua Olivetti? sull’operazione Alitalia? su i tanti imprenditori che hanno preferito “fare finanza” più o meno spregiudicata, distruggendo il patrimonio industriale che – come egli ricorda giustamente – dovrebbe investire in produzione, innovazione,ricerca e lavoro? Non mi pare che , salvo rare eccezioni di cui fanno parte i 5 mila “campioni dell’imprenditoria italiana” da De Benedetti menzionati, la classe imprenditoriale italiana, alla quale De Benedetti appartiene, si sia distinta per aver investito nel “fare impresa” negli ultimi decenni. Nè che abbiano, in quanto imprenditori, contribuito al risanamento delle storture nazionali ,rinunciando a rendite di posizione protette e foraggiate dal pubblico denaro (una per tutte: FIAT), dandosi un codice di autoregolamentazione nella enorme commistione di conflitti di interesse, di lobby, di incroci e inciuci societari (istruttivo il famoso salotto buono di Mediobanca per fare solo un esempio) reclamando anche dalla politica norme trasparenti, regole chiare in Consob e Antitrust, un codice etico, una ferrea legge anti corruzione(già vigente e sottoscritta in Europa!): pur sapendo benissimo essi, tutti , quale incidenza enorme sul debito pubblico abbiano i costi della corruzione e delle tangenti di cui Finmeccanica è solo l’ultimo esemplare. Non crede De Benedetti che tutto questo abbia pesantemente contribuito a fare dell’Italia un paese arretrato ed asfittico, oltre a cronicizzare i guasti delle finanze pubbliche ? E che Confindustria , storicamente prona e a rimorchio dei governi di turno, abbia qualche responsabilità nello stato dell’arte? Compresa quella di tacere sulle mafie, sul riciclaggio di denaro sporco, sulle società off shore?E che tutto questo potesse almeno essere richiamato nella sua lectio magistralis? E che sia ora di riconoscere e distinguere le responsabilità, chiamando le cose con il loro nome?
Mi fa piacere che anche de Benedetti benedica il governo Monti, e richiami la necessità di Europa: ma – come Draghi ha già ripetuto – c’è un’ ineludibile necessità che l’Italia faccia la propria parte. E fare la propria parte, anche in termini complessivamente autocritici, dovrebbe riguardare – se non ora…quando???- non solo la politica ma anche quel ceto imprenditoriale che, in grandissima parte, ha dato dagli anni 80 in poi ben altra prova di sè da quello che l’Ing. richiama nella figura di suo padre Rodolfo e ai giovani della Bocconi.
Non può esserci cambiamento autentico e durevole senza verità oltre che senza quella che Zagrebelsky chiama “buona politica” da parte di tutti noi. Ricucire o ri- costruire l’Italia passa da qui. Non dobbiamo dimenticare nè prescindere dall’ assunzione delle responsabilità, se veramente si vuole contribuire a cambiare il nostro futuro ed essere credibili!
Infine una domanda: non crede l’Ing. de Benedetti che – a maggiore ragione oggi, dove tutti siamo chiamati ai sacrifici – il suo gruppo Editoriale potrebbe dare il buon esempio rinunciando ai contributi pubblici per l’editoria, che sono un costo pagato dalla intera collettività?
Se lo ha fatto un “piccolo” giornale come il Fatto Quotidiano, potrebbe farlo anche il grande gruppo Repubblica-Espresso (di cui peraltro sono fedele lettrice, per sempre grata per la battaglia indefettibile contro Berlusconi e il berlusconismo)……
Interessante, solo due osservazioni:
1) l’ing. De Benedetti sostiene che questa crisi ci abbia fatti, in sostanza, cadere dalle nuvole. Non per recriminare (ormai siamo tutti sulla stessa barca), ma questo è falso: lo sbilanciamento dell’economia verso la finanza, la crescente disuguaglianza economica interna alle società, nel caso italiano lo sbilanciamento tra export e import e la tendenza delle grandi aziende a fare ristrutturazioni e smantellamenti più che investimenti in capitale fisico, umano ed intellettuale erano elementi osservabili da tempo, e osservati da molti, economisti (sempre comunque relativamente pochi, troppo pochi) e cittadini “comuni”. Per non parlare di altri elementi, altrettanto gravi ma a cui obiettivamente non possiamo imputare la crisi, come il divario tra tenore di vita tra chi produce molti nostri beni e noi che li consumiamo e la devastazione ambientale.
2) giusta l’attenzione alle aziende che producono per l’export, l’innovazione di qualità, il made in Italy che è, neanche a dirlo, ciò che sul piano commerciale rende l’Italia unica. Ma a quale percentuale del paniere tipico della famiglia italiana potrebbe puntare il made in Italy? Di norma, una piccola percentuale; di questi tempi, con l’impoverimento delle classi più basse, una piccolissima percentuale.
Bisognerebbe fare qualche calcolo, ma scommetto che anche se l’Italia avesse il monopolio mondiale di moda e auto di lusso, la bilancia commerciale risulterebbe in passivo se i generi di consumo “comuni” continuassero ad essere sempre più di importazione.
Questo può essere un discorso ozioso sul piano degli incentivi all’imprenditoria intelligente – che fanno bene sia ai produttori di lusso che ai produttori di generi base – ma è rilevante per quel che riguarda gli accordi di commercio internazionali, campo in cui continuare a guardare solo al celebre “made in Italy” può essere estremamente pericoloso.
Allora mettiamo le cose in chiaro… Nessuno ha paura della legge elettorale, perchè la “casta” politica sa benissimo di essere protetta dal signoraggio bancario primario e secondario… informatevi… IL DEBITO PUBBLICO E’ UNA TRUFFA NON SI DEVE PAGARE come anche le varie tasse. Addirittura adesso ci sarà la tassa sugli animali domestici… cosa che porterà ad una moria di animali senza precedenti per abbandono da chi non può permettersi la spesa della tassa. E casomai bisognerebbe indire un referendum sul signoraggio bancario. Non finirò mai di ripeterlo come fece il prof. Auriti morto in uno strano incidente. Meditiamo… signori
queste parole mi mettono tanta carica , in un momento in cui si vede veramente nero all’orizzonte
Ci sarà, nel futuro, un ruolo per l’economia Italiana, Europea? Sono le mozioni degli affetti o l’ostinazione dei morenti? Il dollaro, per il momento, si riprenderà la sua egemonia, un po’ acciaccata ma sempre “verdone”.
CF
Condivido in pieno quanto sostenuto da Cristina e vorrei aggiungere che spero che questa situazione non venga sfruttata solo per togliere il diritto alla pensione di anzianità, cambiando magari le carte in tavola dopo che un lavoratore ha pagato trent’anni di contributi e facendo in modo che le prossime siano pensioni di povertà! La guerra tra generazioni nella quale hanno cercato di coinvolgerci mettendo padri contro figli mi è sembrata di un cinismo unico, degna del vampirismo di questa classe imprenditoriale, finanziaria e politica. Sono anni che riformano il sistema pensionistico e che beneficio ne è derivato? Coloro che potevano e che magari sarebbero rimasti al lavoro se ne sono andati per paura di perdere, a ragione, i diritti acquisiti, e le assunzioni? La disoccupazione giovanile è schizzata al 30% e la media è del 10%. Con l’ultima provocazione del senato unanime, che vuole modificare le regole per le sue di pensioni e vitalizi dalla prossima legislatura in poi, non smentendo l’atteggiamento di chi sosteneva che gli italiani sono come bambini di 11 anni che non siedono nemmeno nei primi banchi di scuola, non mi sembra che emergano volontà serie e ricette diverse dal passato! Ai comuni mortali sacrifici immediati ai soliti privilegiati da dopodomani in poi!
Tutte le aziende, e credo ce ne siano tante, che hanno goduto di cassa integrazione senza averne bisogno perché floride perché non restituiscono allo Stato quello che hanno avuto? La Fiat che ha avuto tanti finanziamenti dallo Stato perché ora che il Paese ha bisogno non viene obbligata, visto che da sola non sente questo obbligo morale a investire in Italia? Deve andare a prendere i finanziamenti pubblici di Stati come Serbia o USA? Non è anche questo un modo irresponsabile di essere cittadini da parte di miliardari che devono tanto a questo Paese? Come quelli che evadono le tasse, tra i quali anche personaggi di spettacolo o dello sport ai quali andrebbero date sanzioni esemplari: in America finiscono in galera! Certo è bello ascoltare la classe dirigente fare analisi che ci aiutano a capire come stanno andando le cose ma vorrei vedere che oltre al dire, ci fosse anche il fare senza in mezzo il solito mare…è il momento di dimostrarlo : politici di centro sinistra e di centro destra, leghisti e neo-borbonici, che dovrebbero sentirsi italiani e dimostrare che credono in questa identità non per innalzare barriere e divisioni, grazie alle quali fare i propri comodi per mantenere il potere, ma per costruire un Paese che possa riprendersi la credibilità sia in Europa sia in Italia convincendo noi cittadini che esiste una classe dirigente, pubblica e privata, con un senso di responsabilità, che solo i lavoratori dipendenti hanno sempre dimostrato fino ad oggi ma ora siamo stufi, e un senso di dignità e di rispetto dello Stato e della comunità a cui appartiene che non si appalesi solo nel comprare poltrone o nell’accumulare soldi magari anche nei paradisi fiscali! In Italia c’è tanto da fare incominciamo da loro!