Dopo la crisi: quale ruolo per l’Italia nella futura economia globale

24 Nov 2011

Pubblichiamo il testo integrale della Lectio magistralis tenuta il 23 novembre dall’ing. Carlo De Benedetti presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino in occasione del “Premio Chiave a Stella” 2011

In un magnifico libro di qualche anno fa Cormac McCarthy immagina un uomo e un bambino, padre e figlio, che spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. Dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse senza nome che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita.

Non c’è storia e non c’è futuro. C’è un obiettivo: il sud, il mare. Luoghi mitici, ma del tutto imprecisati, di una possibile salvezza. Il padre è sempre più vecchio e stanco. Ma ha quel bambino con sé. E quell’obiettivo. Portarlo verso il mare, verso il sud. Verso un futuro ancora possibile.

L’economia occidentale, e più specificamente italiana, è oggi quel mondo sconvolto da un’Apocalisse? E noi siamo dietro a quel carrello, con le nostre poche cose, a spingere verso un mitico mare di cui non conosciamo né i tratti né i confini?

Rileggendo quel libro ho avuto davvero la tentazione di pensarlo. Di pensare che quelle pagine, scritte nel 2006, avessero un valore profetico per quello che oggi stiamo vivendo. Mai, dal ’29, il mondo occidentale aveva vissuto una distruzione di ricchezza paragonabile a quella stiamo vivendo. Mai un intero paradigma produttivo, il nostro, era stato così fortemente messo in discussione.

La mia convinzione, non da oggi, è che la grande crisi finanziaria di questi anni sia la cartina di tornasole di una crisi più profonda, che ha a che fare con le tendenze secolari e planetarie degli assetti economici.

E’ l’epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i Paesi nuovi, che rischia di implicare una marginalizzazione dei nostri Paesi e dei nostri sistemi economici.

Dirò di più: la virtuale creazione di ricchezza ottenuta nell’ultimo ventennio attraverso la moltiplicazione degli strumenti derivati della finanza è stata una sorta di oppio che ci veniva somministrato per non vedere quello che stava accadendo. Ha ritardato, come dire, una presa d’atto. Ci ha illuso che Londra, New York, Berlino, Parigi, Milano continuassero ad essere il cuore dell’economia mondiale, il centro dei destini del mondo.

Non era già più così. E questo terremoto che stiamo vivendo, da quando i proprietari di case americani hanno cominciato a non rimborsare più i propri mutui, altro non è che il campanello della finita ricreazione.
La ricreazione è davvero finita. Il tempo della gioventù irresponsabile è definitivamente alle spalle. Quel mondo che due secoli fa ci appariva come la palestra per una infinita crescita della nostra capacità di produrre ricchezza è solo un ricordo. Ora siamo lì, sulla strada, con il nostro carrello malandato. E dobbiamo spingere. Dobbiamo farlo per quel figlio che abbiamo al nostro fianco e che dobbiamo portare verso il mare.

Il problema è che, proprio come quel padre immaginato da McCarthy, non conosciamo né la strada né i contorni e le caratteristiche di quel mare. Nessuno di noi sa davvero quale sarà il nostro destino produttivo, nessuno ha la ricetta per il futuro, nessuno ha modelli da proporre chiavi in mano pronti per l’uso.

Nessuno, e tanto meno io. Quello che so per certo, però, è che non è tempo né per il pessimismo rinunciatario dei declinisti né per l’inerzia degli illusionisti che in questi anni ci hanno raccontato che tutto andava bene.
Due secoli fa i luddisti, fieri avversari della rivoluzione industriale, assaltavano le prime fabbriche distruggendo le macchine che erano il simbolo della fine del sistema produttivo agricolo-mercantile e dell’inizio dell’era industriale. Non era una folle avversione alla modernità, ma l´incapacità di comprendere le opportunità del nuovo tempo che stava irrompendo. Quegli uomini vedevano con timore la fine di un mondo cui erano abituati e difendevano quello che per loro era l´unico modello di produzione possibile.
Oggi, a distanza di due secoli, nessuno va in giro a rompere macchinari ma, di sicuro, come quei luddisti, ci troviamo smarriti e incapaci di leggere i segni del futuro davanti alla rivoluzione avvenuta in questi anni nella divisione internazionale del lavoro, davanti all’ascesa impetuosa dei Paesi emergenti, davanti alla crisi della finanza e dei debiti sovrani, davanti alla impreparazione delle nostre economie a reagire e difendere le proprie posizioni.
E’ tuttavia possibile e doveroso cercare una missione nuova, un nostro modo specifico di stare nel mondo. Qualche anno fa ne scrissi con Giuliano Amato, uno dei pochi nostri politici capaci di sguardo lungo. Provammo ad avviare un dibattito su questo.
Ma la politica italiana di questa stagione non è sembrata interessata al problema. Che il presidente del Consiglio uscente avesse altre passioni e priorità lo abbiamo per la verità capito presto. Ma abbiamo anche dovuto prendere atto che il ministro dell’Economia, che pure ci ha spiegato di aver previsto per primo lo spostamento dell’asse mondiale dall’Europa alla Cina, andava sostenendo che per la crescita economica i governi non possono nulla, che al massimo al Tesoro si possono tenere i conti in ordine, ma per lo sviluppo tocca ad altri, tocca alle imprese, ai destini individuali, alle fortune o alle sfortune dei singoli.

Mai idea è stata tanto sbagliata. Gli Stati, i governi, possono fare molto, moltissimo per il rilancio dell’economia, per evitare l’avvitarsi dei paesi in un declino senza uscita.

Da dove cominciare? Da un fattore che può sembrare avere poco a che fare nell’immediato con il rilancio produttivo, ma che è un prodromo essenziale. Parlo dell’Europa. Perché questa è la prima cosa che va detta: se un futuro ci sarà, non riguarderà la sola Italia o la sola Francia. E neppure la sola Germania. Riguarderà tutti i paesi del Continente insieme.
Solo portandoci al livello, anche dimensionale, dei problemi che abbiamo di fronte saremo capaci di reagire. In un mondo che torna ad essere terreno di pascolo per i grandi dinosauri, la forza dei piccoli mammiferi è quella di organizzarsi in gruppo, altrimenti non hanno futuro.

Questo vale anche per i mammiferi un po’ più grandi, quelli che potrebbero avere la tentazione di credere di poter fare da soli. Non è così. E i nostri partner tedeschi farebbero bene a capirlo presto.
Non si può far politica nella più grande nazione d’Europa dando ascolto solo agli umori delle birrerie. L’economia tedesca sta traendo vantaggi enormi dalla moneta unica. E’ stata capace di fare le riforme che erano necessarie, certo. Ma ora proprio grazie all’euro sta vivendo un momento straordinario di tassi bassi e di capacità di export. Ne prenda atto. E contribuisca in modo responsabile al rilancio della moneta unica.

L’Europa non può più rinviare ancora la costruzione di una politica finanziaria e di bilancio comune, la trasformazione della Bce in una vera banca centrale sul modello della Fed, il ricorso a strumenti di debito come gli eurobond, sia in funzione salvastati sia per finanziare le grandi opere infrastrutturali.

In questi giorni siamo tornati a sederci con maggiore credibilità al tavolo dei grandi d’Europa. Dobbiamo certo superare i nostri esami. Ma è giusto portare a quei tavoli anche queste istanze. Perché il futuro produttivo dei paesi europei passa anche da qui.
Difendere i campioni nazionali, poi, non ha più senso. Bisogna promuovere il più possibile l’integrazione europea anche nei gruppi industriali. Servono campioni europei, non nazionali. Soprattutto in quei settori dove più intenso è lo sforzo in ricerca e sviluppo e dove più rilevanti sono le economie di scala. In un mercato integrato e con una moneta unica, d´altra parte, sarebbe contraddittorio non cogliere questa opportunità.

C’è poi, per il rilancio produttivo, il tanto che si può fare nella politica interna. Sono due anni che mi prodigo in ogni occasione a sostenere le ragioni di una grande riforma fiscale: è venuto il tempo per spostare in modo draconiano il prelievo fiscale dalle imprese e dal lavoro verso la ricchezza ferma, quella improduttiva, i patrimoni.

Vedo finalmente che questo obiettivo è entrato tra i punti programmatici del governo Monti. Purtroppo il precedente esecutivo su questo ha prodotto solo parole e carte, senza spostare di un euro il prelievo fiscale, ma solo aumentandolo nel suo complesso.

Eppure è la ricetta che è stata alla base del successo dell’economia americana: non una fissazione da comunisti, dunque, ma una concezione pienamente liberale per cui la ricchezza da premiare è quella che genera altra ricchezza, che produce lavoro e occupazione, non quella che si fissa in immobili o in banche estere.

Alzare l’età pensionabile in modo da liberare risorse per un sistema generalizzato di protezione sul lavoro dovrebbe essere poi un altro tassello essenziale di una politica economica proiettata verso il futuro. E che dire dell’assistenza alle imprese nell’internazionalizzazione: in un mondo dove la competizione si vince proprio sulla capacità di produrre e vendere all’estero, questa dovrebbe essere la priorità delle priorità, e invece in Italia siamo riusciti nel capolavoro di smantellare l’Ice, l’Istituto per il commercio estero, senza prevedere alternative ad esso.
Eppure nonostante questo, nonostante tutto questo che la politica non fa, c’è ancora una parte del sistema produttivo italiano che sa difendersi sul mercato. Che sa resistere. E’ una parte certamente minoritaria, ma è qui che possiamo vedere le tracce di quel Sud, di quel mare che stiamo cercando.

L’ultimo rapporto dell’Istat ci dice che la crisi ha colpito in modo preminente i comparti industriali, in particolar modo quello manifatturiero tradizionale, il Made in Italy per intenderci.
Il saldo tra imprese nate e cessate è risultato negativo per 23mila unità nel 2008 e per 40mila nell’anno successivo. Soprattutto, le imprese non nascono e non crescono, perpetuando uno dei limiti più antichi del nostro sistema produttivo.

C’è però un numero significativo, per quanto limitato, di medi gruppi in grado di essere leader mondiali nei settori specifici in cui operano. Veri campioni dell’imprenditoria italiana, che hanno saputo ristrutturarsi per tempo ed innovare sui prodotti e sui marchi. La Banca d’Italia stima che questi gruppi siano circa 5mila sul totale delle 65mila aziende con più di venti addetti. Ancora pochi certo, ma tali da dare lavoro a circa un milione di addetti e da costituire un modello possibile di impresa che guarda all’export.

E’ a questi esempi che dobbiamo guardare se vogliamo immaginare un futuro per il nostro manifatturiero. Questo vuol dire adottare politiche per la crescita dimensionale delle imprese, favorire la creazione di reti e filiere, accompagnare queste aziende sui mercati di tutto il mondo.

C’è quindi una responsabilità che deve assumersi la politica, ma cui non può sottrarsi neppure il settore privato. Continuare a frammentare le proprie imprese per vantaggi fiscali, respingere l’apporto di risorse manageriali per mantenere in famiglia il controllo dell’azienda, chiudersi in settori domestici protetti, è forse un modo per sopravvivere qualche anno, ma alla lunga significa mettersi su una strada senza futuro.

Non perdiamo di vista che la globalizzazione, con tutte le difficoltà che ci ha portato in termini di concorrenza, ha messo al centro del consumo mondiale i brand di qualità, i marchi. Secondo un´analisi di Morgan Stanley l´attitudine dei cinesi verso i marchi di qualità sta crescendo esponenzialmente. Il Made in Italy di per sé è un brand di successo. Perciò io credo che l´Italia, prima ancora dell’Europa, abbia una grande opportunità che riguarda il manifatturiero ma che va ben oltre il solo manifatturiero: è la forza delle sue produzioni e dei suoi servizi di alta qualità, il suo estro per l´estetica e il design, la sua capacità di arricchire i prodotti di valore simbolico, il potenziale non solo turistico del suo territorio, la sua cultura millenaria, il suo ambiente, la sua arte. In questo senso le grandi trasformazioni del mondo possono diventare un´enorme chance per il nostro Paese.
Per cogliere l´occasione, però, dobbiamo scommettere con coraggio sulla strada dell’innovazione, senza attardarci nel passato di produzioni ad alta intensità di lavoro su cui non saremo mai più competitivi.

L’imprenditore – riscopriamo questo assioma essenziale – è colui che innova. Che rifiuta la logica della rendita e si mette su strade nuove. Ce lo ha insegnato il grande Schumpeter: “L’imprenditore è colui che mette in atto l’azione creatrice, che aggiunge qualcosa alla realtà, che pone i dati – cito dalla Teoria dello sviluppo economico – in nuovi contesti come fa il grande artista creatore con gli elementi artistici che ha a disposizione”.

Qualche settimana fa ho inaugurato alla Bocconi una cattedra intitolata a mio padre Rodolfo. E’ un luogo dove si insegnerà a fare impresa. Ed è proprio questo che ho detto ai tanti giovani che sono intervenuti: se vogliamo sfuggire al declino il primo passo è quello di riscoprire il gusto dell’imprenditore che innova.

Alimentare una nuova classe di imprenditori oggi in Italia significa contribuire in modo sostanziale a quel rilancio economico di cui abbiamo bisogno. Perché lo spirito imprenditoriale è volano di crescita e di competitività.
Di mio padre ricordo, in quegli anni difficili del dopoguerra, di due dopoguerra per la verità, la ferrea volontà di costruire e ricostruire, di fare impresa, di creare ricchezza, di migliorare le condizioni di vita proprie e della comunità in cui viveva. Ecco le prima risorse che oggi dobbiamo ritrovare.

Siamo di nuovo come in quei dopoguerra. Sono partito dalla metafora tragica del libro di McCarthy proprio per sottolineare la drammaticità della crisi che stiamo vivendo. Dobbiamo, per arrivare al nostro mare, riscoprire quelle virtù, quella fame di fare impresa.
La forza creatrice dei nuovi imprenditori dei Paesi emergenti ha dimostrato, in questo primo decennio del nuovo secolo, che le previsioni dell’ultimo Schumpeter di una crisi irreversibile delle risorse imprenditoriali erano errate. La spinta dell’impresa continua a produrre sviluppo in giro per il mondo, anche se la civiltà borghese dei tempi dei Buddenbrook è scomparsa da un bel po’.
E’ tempo che quella spinta torni ad essere vitale anche da noi.

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