Claudio Magris, … e anche la logica non si sente troppo bene

27 Ott 2011

Esce in questi giorni da Garzanti Ambiguità italiane. Note civili, un volume che raccoglie una serie di riflessioni di Claudio Magris scritte sulla spinta della crisi della logica che accompagna la perdita di memoria e di tutti i punti fermi che stanno alla base di uno stato civile.

Claudio Magris

Esce in questi giorni da Garzanti Ambiguità italiane. Note civili, un volume che raccoglie una serie di riflessioni di Claudio Magris scritte sulla spinta della crisi della logica che accompagna la perdita di memoria e di tutti i punti fermi che stanno alla base di uno stato civile. La convivenza sociale e i suoi equilibri sono messi in discussione da una politica incapace di rigore intellettuale e carente di visione progettuale di fronte ai cambiamenti che questo tempo impone. Claudio Magris prende spunto dall’attualità per darle il respiro del tempo storico. L’abbiamo incontrato nella sua città.

Kafka diceva che un libro o ci colpisce con un pugno o non è niente. Come può ancora colpirci la letteratura, senza sovrapporsi al sistema di comunicazione aggressivo e strutturato che oggi ci circonda?
«Ognuno ha le proprie forme predilette di genere letterario e di genere narrativo, a me interessa più la letteratura di tipo epico faulkneriano che non la grande letteratura sull’industria, ad esempio, o altre. Però lo shock può venire da ogni parte. Ad esempio, per me la letteratura conta più della pittura, senza che per questo io creda che la pittura valga di meno, ovviamente.
«Credo che ci sia una difficoltà enorme data dalla tirannia dell’offerta sulla domanda. Quando io ho pubblicato il mio primo libro, non mi sognavo che il Corriere della Sera ne parlasse e, pur essendo totalmente sconosciuto e quindi pur avendone più bisogno di adesso, non me lo aspettavo. C’erano sì le riviste letterarie, ma i grandi mezzi di comunicazione non avevano ancora le pagine letterarie, e quando Tecchi ha scritto del mio libro sul Corriere ne fui molto molto contento, fu per me motivo di gioia e grande sorpresa, ma non sarei rimasto male se non l’avesse scritta.
«Una volta si parlava di pochi libri, adesso si parla di molti di più, e questo è un grande progresso, però una volta si sapeva che esistevano libri di cui non si parlava e che erano importanti, come sappiamo che esistono libri di letteratura cèca che né io né lei abbiamo letto. Adesso il libro che per mille ragioni resta fuori si nega il predicato di esistenza».

La letteratura contemporanea sembra aver sostituito la figura del giovane con quella dell’anziano quale interprete inedito nel rapporto tra vita e morte. La fragilità dell’anziano è in grado di raccontare meglio la contemporaneità rispetto alla forza un po’ apatica dei giovani?
«È Svevo che scopre la senilità come modello di avventura. Nel senso che se l’uomo è inetto a vivere, se è escluso dalla vita vera, ecco che la vecchiaia, inetta e debole per eccellenza, diventa un’inettitudine autorizzata e perciò meno dolorosa. Ed è proprio perché escluso dal gioco (come il kiebiz, così si dice in dialetto triestino, e anche in yiddish, quello che guarda gli altri giocare e capisce il gioco meglio degli altri), che il vecchio ha questa vertiginosa libertà avventurosa che manca agli altri, sempre desiderosi e bisognosi solo di vincere e terrorizzati all’idea di perdere. Oggi la vecchiaia diventa un nuovo problema. E così anche questa vertiginosa avventura sui limiti della vita: prolungarla o meno, difenderla fino all’ultimo, quando è il termine? In questo senso la vecchiaia diventa il territorio in cui si giocano le grandi domande di oggi».

Le nuove tecnologie aprono nuove possibilità non solo per la scrittura, ma anche per la lettura. Come vede questi cambiamenti?
«Da questo punto di vista sono, nella pratica, assolutamente tradizionale. Scrivo a mano, ma senza nessunissima civetteria. Credo però che ognuno di noi identifichi la naturalezza con quel livello di tecnica che ha trovato nell’infanzia e che è cresciuto insieme a lui. Si scrivono frasi e digitando io so scrivere solo parole; la frase, il ritmo io li l’ho nella mano. Per la lettura vedo che anche persone completamente e giustamente inserite nel mondo digitale leggono ancora sul libro stampato: anche questo può darsi che cambierà essendo un atteggiamento legato al nostro sistema nervoso, e la specie cambia, oggi più rapidamente, ma certamente non così rapidamente come credono tanti che pensano che diventeremo subito dei cyborg».

Cambierà il modo di concentrarsi?
«Tra paranoidi e schizoidi, io sono più del tipo paranoide: quando mi concentro su qualche cosa sono però abbastanza aperto nel ricevere le suggestioni del mondo, anche se la mia concentrazione si carica di ritualità maniacali. In Alla cieca ho appunto inserito l’uso del computer e delle email e ho provato a immaginare questa sorta di Omero digitale, ma certamente il mio tipo di fruizione rimane di tipo classico».

Non trova che oggi la perdita del rigore abbia in qualche modo esaurito la forza della trasgressione e la capacità di scandalizzarsi?
«Improvvisamente è successo qualche cosa di indecente. Ora si può dire, come disse il nostro presidente del Consiglio, che si possono non pagare le tasse (che è come se un questore dicesse che si può rubare). E che certe cose siano possibili spiazza le regole, ha avuto un pendant nella crisi della logica: nessuno quasi più ragiona con una logica che a noi sembrava elementare. Ora non ci si può non porre il problema di cosa è successo nella testa delle persone, perché poi ogni ragionamento logico elementare non funziona, non fa presa, non ha alcun potere di convinzione».

Non è spaventato dalla crisi della logica?
«Certamente, mi spaventa moltissimo, perché tutto diventa possibile. Il problema della sintassi del nominativo e dell’accusativo non è un problema di filologia e se uno uccide un altro bisogna sapere chi è soggetto o oggetto per sapere quale è l’assassino da mettere in galera, se no mettiamo in galera la vittima. Oppure il fatto avvenuto qualche tempo fa: un mio collega, ex brigatista rosso, dichiara che, avendo avuto una figlia, aveva capito che non si può uccidere un papà. Ora, ho bisogno di avere figli per capire che la perdita di un figlio o di un padre può essere un dolore? Non sarebbe proprio una grande prova di capacità di fantasia»

Una versione più ampia dell’intervista che pubblichiamo in questa pagina si può leggere sul sito www.doppiozero.com

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