L’Italia delle lobby (da smontare)

20 Ott 2011

Michele Ainis

L’Italia è il Paese delle corporazioni, e ogni corporazione difende i propri privilegi e nessun governo è mai riuscito a scalfirne il potere.

L’Italia è il Paese delle corporazioni, e ogni corporazione difende i propri privilegi e nessun governo è mai riuscito a scalfirne il potere. Eppure è un’impresa della massima urgenza, ed è esattamente questo l’orizzonte nel quale si situa il decreto sulla crescita annunciato dal governo. Non sarà facile, come mostra l’esperienza della manovra d’agosto. Da qui il primo paradosso nazionale: per sbloccare il Paese servirebbe una riforma, ma il potere delle corporazioni blocca ogni riforma. Una situazione che ci impoverisce: nel portafoglio, oltre che nell’anima. A Bologna, per i dirigenti regionali un anno d’abbonamento al bus costa 50 euro invece di 300. I loro colleghi di Palermo hanno diritto alla colonia estiva per i figli, quelli di Trieste ottengono mutui a tasso zero. I bancari lasciano il posto in eredità alla prole (ultimo, o forse penultimo caso della serie: l’accordo fra Unicredit e i sindacati dell’ottobre 2010). Se poi è la Banca d’Italia a pagarti lo stipendio, lavorando almeno 241 giorni l’anno ti metti in tasca un premio Stakanov. Ai diplomatici toccano vari privilegi tributari. Gli insegnanti di religione godono d’un trattamento retributivo di favore rispetto a chi insegna matematica o latino. I giornalisti entrano nei musei senza pagare, come i dipendenti del ministero. I ferrovieri hanno il treno gratis: per loro, per il coniuge, per i figli fino a 25 anni. Chi è impiegato all’Enel ha uno sconto sulla bolletta della luce. I sindacalisti, grazie a due leggi del 1974 e del 1996, sono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso, al pari dei farmacisti, dei dentisti, dei notai (che oltretutto sono 4.723, quando la loro pianta organica ne prevedrebbe 6.152).
È l’Italia delle corporazioni, e ogni corporazione inalbera i propri privilegi. Un blocco sociale esteso quanto la penisola italiana, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia. E infatti nessun governo, di destra o di sinistra, è mai riuscito a scalfirne il potere. Eppure è questa l’impresa cui dovremmo dedicarci con la massima urgenza, ed è esattamente questo l’orizzonte nel quale si situa il decreto sulla crescita annunciato dal governo. Non sarà facile, come mostra l’esperienza della manovra d’agosto: quando per esempio gli avvocati (che nel Parlamento attuale sono 134) riuscirono a dimezzare il taglio dell’indennità parlamentare per i professionisti. Quando i tassisti ottennero d’essere esentati rispetto alla pur timida liberalizzazione dell’accesso a talune attività economiche. Quando i farmacisti imposero l’aumento della distanza obbligatoria tra una farmacia e l’altra. Quando la Chiesa cattolica respinse con successo gli emendamenti sull’Ici per le sue attività commerciali. Del resto in Italia le chiese sono tante, ciascuna col suo santo in Paradiso.
Da qui il primo paradosso nazionale: per sbloccare il Paese servirebbe una riforma, ma il potere delle corporazioni blocca ogni riforma. Da qui la disgregazione del nostro tessuto connettivo, che in ultimo ci fa vivere da separati in casa. E che ci impoverisce, certo: nel portafoglio, oltre che nell’anima. Se le categorie fanno cartello, è chiaro che paghi i loro servizi più salati. Se per esempio i petrolieri dettano un vincolo di fornitura in esclusiva sui carburanti, non c’è affatto da sorprendersi quando in Italia la benzina costa il 4% in più della media europea. Se gli aiuti di Stato per questa o quella lobby non sono l’eccezione bensì la regola cogente, le tasse poi si gonfiano come un panettone.
Ma dopotutto non si tratta solo di quattrini. C’è in questione la libertà, e c’è in questione l’eguaglianza fra tutti gli italiani. La prima è ormai un fantasma, tanto che il Wall Street Journal ci situa al 74º posto quanto alla libertà economica, peggio del Madagascar. Colpa d’un passato che non passa, rendendo sempiterna la Camera dei fasci e delle corporazioni battezzata nel lontano 1939. D’altronde anche gli ordini professionali rappresentano un lascito culturale del fascismo: la legge fondamentale risale al 1938, l’anno delle leggi razziali. E l’eguaglianza? E le opportunità di vita? E il merito? Il 53% degli italiani rimane intrappolato nel suo ceto d’origine (Banca d’Italia 2008), dato che quaggiù la mobilità intergenerazionale è tre volte più bassa rispetto agli Stati Uniti. Di conseguenza in Italia la disuguaglianza tra le classi sociali è cresciuta del 33% dopo gli anni Ottanta, contro una media generale del 12% (Rapporto Ocse Growing Unequal? 2008).
No, non ci serve un decreto sulla crescita, se servirà a far crescere ancora il peso delle corporazioni. Ci serve casomai una legge che abroghi le mille leggi di favore dispensate dallo Stato. Dopo, forse, torneremo a essere un popolo, un’unica nazione.
michele.ainis@uniroma3.it

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