Le disparità malattia d’Occidente

28 Set 2011

Già anni fa Paul Kennedy coglieva nell’accentuarsi delle diseguaglianze uno dei possibili segnali del declino della potenza americana. Lo storico è stato tra i primi a leggere lo spostamento dell’asse del mondo dall’Occidente ai Paesi emergenti, dalla Cina al Brasile.

Già anni fa Paul Kennedy coglieva nell’accentuarsi delle diseguaglianze uno dei possibili segnali del declino della potenza americana. Lo storico è stato tra i primi a leggere lo spostamento dell’asse del mondo dall’Occidente ai Paesi emergenti, dalla Cina al Brasile. E lo ha fatto attraverso i dati sociali, ancor prima che quelli economici o politici.

Quella sua intuizione oggi sta trovando una conferma che va al di là delle sue stesse previsioni. Ci deve atterrire il gap crescente che si sta affermando nelle nostre società tra chi ha moltissimo e chi ha molto poco. Un differenziale che si tocca con mano nel viaggiare tra Europa e Stati Uniti. E che trova un riscontro drammatico nei numeri. Mai, negli ultimi 50 anni, così tanti americani hanno vissuto in povertà come oggi.

Nel 2010 oltre 46 milioni di cittadini Usa sono finiti sotto la soglia di povertà. Il tasso di povertà è così cresciuto al 15,1%, il più alto dal 1993, un punto in più rispetto all’anno precedente. Nello stesso tempo le famiglie che guadagnano più di 100mila dollari sono cresciute. Il Financial Times ha parlato di un effetto a due velocità della crisi, con i più ricchi che mantengono la loro capacità di spesa mentre un numero crescente di cittadini cade in povertà.

Sempre negli Stati Uniti oggi l’1% della popolazione americana detiene il 40% della ricchezza dell’intera nazione. Il numero di americani senza assicurazione sanitaria è cresciuto nell’ultimo anno di circa un milione a 49,9 milioni. E il dato più impressionante è che circa un quarto dei bambini americani oggi vivono in povertà.

Sono proprio le nazioni appartenenti al G-8, secondo un rapporto pubblicato quest’anno dell’Ocse, quelle dove le diseguaglianze sono aumentate di più. In testa alla classifica troviamo gli Stati Uniti seguiti a ruota dall’Italia, il Regno Unito, la Spagna e il Canada, a metà strada ci sono la Francia e la Germania, mentre i Paesi “virtuosi” sono Svezia e Danimarca.

In Italia sempre, nel 2011, il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza complessiva. Negli ultimi dieci anni, mentre il reddito pro capite italiano scendeva dal 117% del reddito medio europeo al 100%, l’indice di diseguaglianza è salito dal 4,8 al 5,5: cioè il 20% di italiani più ricchi dispone di un reddito 5,5 volte più elevato di quello del 20% di italiani più poveri.

Sono cifre che non possono lasciare indifferenti. Qui c’è davvero qualcosa che si è rotto nelle nostre società. Si pone drammaticamente, innanzitutto, una questione di giustizia sociale. E mi chiedo dov’è la politica su questo. Dov’è la sinistra innanzitutto, che è nata e cresciuta all’inizio del secolo scorso proprio sulla questione sociale. Ma non è un problema che può riguardare solo la sinistra, e tanto meno un problema che rimanda solo al valore di una società più giusta.
Alexis de Tocqueville partì proprio da qui per celebrare la vitalità della società americana. “Fra le cose nuove che attirarono la mia attenzione – esordisce nella sua Democrazia in America – una soprattutto mi colpì assai profondamente e cioè l’uguaglianza delle condizioni. Facilmente potei constatare che essa esercita un’influenza straordinaria sul cammino delle società, dà un certo indirizzo allo spirito pubblico e una certa linea alle leggi, suggerisce nuove massime ai governanti e particolari abitudini ai governati”.

Siamo alle radici stesse delle nostre società liberali e della continua ascesa, nel benessere, che esse ci hanno garantito. Perciò quei dati sulle nuove differenze devono preoccupare noi tutti, destra e sinistra, ricchi e poveri. È in gioco, in quelle cifre, il futuro stesso delle nostre società occidentali. Comunità dove va aumentando il differenziale tra i tanti che hanno poco e i pochi che hanno molto sono realtà declinanti, economicamente e socialmente malate.

L’ascesa dei meno abbienti verso il ceto medio e il progressivo affermarsi di quest’ultimo a discapito delle estreme della gerarchia sociale è stato per decenni l’elemento più vitale delle nostre società. La nostra affermazione nel mondo è stata proprio legata a quest’ascensore sociale, che dava dinamismo, forza, proiezione verso il futuro.

È anche la storia d’Italia del Novecento. Del boom economico e delle conquiste sociali. Ricordo mio nonno. Faceva l’avvocato ad Asti. Fece sette figli, una ragazza e sei maschi. E a tutti i maschi riuscì a far prendere la laurea. Era una persona che si era fatta con i propri studi e il proprio lavoro. Era ceto medio. E sentiva il futuro nel proprio lavoro. Dov’è oggi il futuro del ceto medio? L’Istat, il Censis, ci dicono che quella classe intermedia vede il proprio destino scivolare verso il passato e affida ai propri figli anni incerti e declinanti.

Il ceto medio va sempre più schiacciandosi verso la parte bassa della società, l’ascensore sociale è di fatto bloccato, il merito è sempre meno un possibile fattore di ascesa e di rinnovamento tra i ceti. Carlo Carboni, che ha studiato questi fenomeni, ha scritto: “Il ceto medio è andato in crisi in tutto il vecchio mondo occidentale, trascinando con sé declino di fiducia e di stabilità; mentre la creazione del ceto medio tra i new competitors è fonte di nuovo consenso, di partecipazione al progetto di crescita. In breve, il sogno della società di ceto medio è evaporato negli Usa come in Italia e, ovunque, si segnala la ripresa delle disuguaglianze socioeconomiche”.

Ecco un buon tema da affrontare per la politica di oggi, debole e disorientata dalla mancanza di consenso. Un tema da cultura politica sinceramente liberaldemocratica. Perché è proprio contro la ricchezza diseguale, contro le disparità che si perpetuano e si allargano, che la cultura liberale lanciò oltre due secoli la sua sfida facendo da infrastruttura ideologica della borghesia, come classe media, in ascesa.

Come non vedere questa sfida anche nelle scelte che ci aspettano nelle prossime settimane in Italia. Eppure la nostra politica si contraddistingue per la paura di prendere solo in considerazione un’imposta sulla ricchezza fissa, sui patrimoni, che permetta di alleggerire le imposte sul lavoro e l’impresa; per la soggezione della maggioranza davanti alle corporazioni professionali che impediscono una vera liberalizzazione nel settore delle professioni. Finanche sulla questione dell’età pensionabile si cela la miope difesa di un vero e proprio privilegio generazionale ai danni dei più deboli, giovani e pensionati sociali.

Cronache italiane, queste ultime. Ma c’è un’agenda della politica dell’intera Europa da rivedere. Non è un caso se lo stesso Economist, bibbia del liberismo, sottolinea come sia venuto il momento di tassare ricchezze che “sono cresciute in modo sproporzionato in questi anni di globalizzazione”. Non si tratta di dare la caccia ai ricchi, come titola il settimanale in copertina. Ma almeno di “spostare il peso della tassazione dai redditi e dagli investimenti alla proprietà”, in modo da “raccogliere di più dai ricchi senza indebolire la predisposizione a rischiare e a investire”.

Solo così potremo uscire dalle secche della più difficile crisi economica dal ’29. Ma in questa capacità di ripristinare il dinamismo sociale, una possibilità di ascesa da parte di chi ha a meno, c’è una sfida anche più grande.

Per Tocqueville in quel dinamismo verso l’eguaglianza c’era il segno “della divina protezione” verso le società. Forse non è più il caso di guardare oltre i cieli, ma di certo le nostre società occidentali potranno reggere l’impatto della globalizzazione e dell’ascesa dei giganti asiatici solo se sapranno recuperare il gusto e l’ambizione del dinamismo e della giustizia sociale.

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