Le due rivoluzioni dei moderni

17 Set 2011

Nel castello dei conti Guidi che ospitò Dante, filosofi della politica, storici, antropologi e costituzionalisti fanno il punto sulla storia del pensiero politico e sulla tradizione democratica che considera libertà e uguaglianza elementi fondativi della più moderna forma di Stato. Dal 16 al 18 settembre con Marco Revelli e Franco Sbarberi, Nadia Urbinati e Alessandro Ferrara, Gustavo Zagrebelsky, Amalia Signorelli e Salavatore Veca, per la scuola di LeG. Le foto // IL PROGRAMMA

La scuola di Poppi

Pubblichiamo uno stralcio della lezione della professor Magrin per laScuola di formazione politica di LeG a Poppi, nell’aretino. Libertà e uguaglianza nel pensiero moderno e contemporaneo è il titolo del seminario che comprende anche questa lezione.

Fin dall’antichità l’idea dell’aequa libertas è strettamente connessa a quella di democrazia. Tanto in Platone, tanto in Aristotele l’uguale libertà dei cittadini si presenta come l’elemento distintivo della forma di governo democratica.

Nella Repubblica, interrogandosi su quale sia il bene proprio della democrazia, Platone risponde: “ è la  libertà. In uno stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che soltanto colà dovrebbe abitare ogni spirito naturalmente libero” (p. 280). La libertà dei democratici non è però uno stato o una condizione che possa essere contenuta entro limiti definiti. Essa finisce, dice Platone per “allargarsi a tutto”, per spezzare ogni gerarchia, per incrinare l’ordine naturale di subordinazione dell’inferiore al superiore. Non è difficile vedere che questo impetuoso e irresistibile movimento della libertà è il movimento dell’uguaglianza, descritto da Platone con celebri parole di condanna che ben esprimono la sua radicale avversione alla democrazia: “Il padre si abitua a rendersi simile al figlio e a temere i figlioli (…) il meteco si parifica al cittadino (…) il maestro teme e adula gli scolari e gli scolari s’infischiano dei maestri e così pure dei pedagoghi (…) L’estremo della libertà cui la massa può giungere in un simile stato si ha quando uomini e donne comperati [gli schiavi] sono liberi tanto quanto gli acquirenti”  (pp. 281). L’estensione della libertà a tutti i rapporti sociali, e l’eguagliamento di ciò che è e deve restare ineguale, è ciò che Platone definisce e condanna con il nome di “licenza”. Ecco allora disegnato il destino che attende le democrazie: “l’eccessiva libertà non può trasformarsi che in eccessiva schiavitù, per un privato come per uno stato (…) dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce” (p. 282). La democrazia produce anarchia e questa non può che condurre alla tirannia.

È interessante osservare fin da ora che Platone non condanna la libertà in se stessa, assunta come principio-motore della vita politica, ma piuttosto il movimento irrefrenabile verso l’eguaglianza da esso generato. Possiamo dunque riscontrare in Platone la convinzione, che accompagnerà lo sviluppo storico delle teorie democratiche, secondo cui la libertas che è propria della democrazia non può che tendere all’aequa libertas.

Aristotele ebbe verso la democrazia un apprezzamento assai moderato e considerava una tale forma di governo come la migliore tra le forme di governo degenerate. Anche per lui la libertà è il fine di ogni democrazia:

“Base della costituzione democratica – scrive nella Politica – è la libertà (così si è soliti dire, quasi che in questa sola costituzione gli uomini partecipino di libertà, perché è questo, dicono, il fine di ogni democrazia)” (p. 203).

E anche per lui, come per Platone, la libertà politica di cui godono i cittadini in democrazia non può essere disgiunto da un certo tipo di uguaglianza. Più precisamente da quel tipo di uguaglianza il cui criterio di giustizia consiste nel considerare i cittadini secondo il numero, anziché secondo il merito (come accade esemplarmente nei governi aristocratici), o, detto in altri termini, nel contare i voti, anziché pesarli secondo criteri come la preminenza sociale o il ceto  di appartenenza.

“Una prova della libertà – scrive Aristotele – consiste nell’essere governati e nel governare a turno: in realtà, il giusto in senso democratico consiste nell’avere uguaglianza in rapporto al numero e non al merito, ed essendo questo il concetto di giusto, di necessità la massa è sovrana e quel che i più decidono ha valore di fine ed è questo il giusto: in effetti dicono che ogni cittadino deve avere parti uguali” (p. 203).

Aristotele, come si è visto, non si limita a prendere atto che in democrazia ogni cittadino ha nella vita politica lo stesso valore degli altri cittadini (secondo il principio “una testa, un voto”), ma trae anche la conclusione che dal criterio di giustizia “numerico” discende un’uguaglianza tale per cui “ogni cittadino deve avere parti uguali”. Nata con il fine di distribuire egualmente la libertà politica tra i cittadini, la democrazia finisce dunque per ambire alla distribuzione in parti uguali di altri beni, come la proprietà o la ricchezza. Uguali in qualche cosa (la libertà politica), i cittadini democratici vogliono essere uguali sotto ogni rispetto. In Aristotele ciò che caratterizza la democrazia, e che consente di considerarla una forma di governo degenerata, è proprio questa inevitabile progressione che conduce i molti-poveri a esercitare il governo contro i pochi-ricchi.

L’importanza che Platone e Aristotele attribuiscono all’intreccio insolubile di libertà e uguaglianza in democrazia è ricca di importanti implicazioni teoriche, che non hanno perso nulla della loro attualità, e sulle quali dovremo ritornare.

Una volta ammesso che in democrazia non è possibile godere di libertà politica senza qualche tipo di uguaglianza, si pongono allora almeno tre questioni rilevanti, che come vedremo riaffioreranno, all’inizio dell’età contemporanea, nella riflessione settecentesca sulla democrazia.

–        Prima questione, o questione dei fini. L’aequa libertas propria della democrazia ha come fine esclusivo l’eguaglianza nell’esercizio della libertà politica? O, in altri termini, l’eguaglianza può e deve essere limitata alla sfera della libertà politica?

–        Seconda questione, o questione dei confini. Se, come già Platone e Aristotele sostenevano, non è possibile essere uguali nella libertà politica senza che l’eguaglianza si estenda ad altre sfere (eguaglianza nella dignità sociale, una certa uguaglianza dei possessi, uguaglianza nell’istruzione), quali confini devono o possono esser posti al movimento verso l’eguaglianza generato dalla democrazia? Domanda che ci conduce alla terza questione, sollevata con vigore dai filosofi classici,  in particolare da Platone, e, non senza fondamento storico, dai conservatori di ogni tempo.

–        Terza questione, o questione dei mezzi. Con quali mezzi è possibile evitare che una eguaglianza male intesa o un cattivo esercizio della libertà politica conducano infine alla soppressione della libertà, alla morte della democrazia, e al trionfo di un regime demagogico, autoritario, o peggio tirannico?

Come si può vedere, le grandi questioni relative all’aequa libertas consustanziale alla democrazia sono state poste con chiarezza già dalla filosofia antica. Sarebbe sbagliato però istituire su queste basi frettolose equivalenze tra mondo antico e mondo moderno. Oltre due millenni separano l’esperienza della democrazia ateniese dal riapparire dell’ideale democratico durante le rivoluzioni politiche del XVIII secolo. È un immenso fossato, caratterizzato da radicali mutamenti storici e dall’emergere di paradigmi culturali sconosciuti all’antichità, che hanno trasformato in modo determinante il lessico della libertà eguale, rendendolo per molti versi irriconoscibile.

Obiettivo di questo intervento sarà di riflettere sul modo nel quale tali questioni si ripropongono agli albori del teoria moderna della democrazia, nelle teorie politiche di due grandi autori del settecento francese, Rousseau e Condorcet, ai quali possono essere ricondotte in modo emblematico due diverse modalità di porre il problema della libertà uguale nella democrazia moderna, inaugurata sul piano storico dalle rivoluzioni politiche del XVIII secolo che hanno il loro compimento nella Rivoluzione francese. Il primo giungendo a formulare nel Contratto sociale, pubblicato nel 17562, una delle più influenti teorie moderne della democrazia, che rappresenta sotto ogni aspetto il baricentro intorno al quale la Rivoluzione francese sviluppò l’idea dell’uguaglianza democratica; il secondo, trasferendo nel pensiero politico rivoluzionario e nella sua riflessione costituzionale, l’eredità dell’Illuminismo e fornendo alla rivoluzione una teoria politico-costituzionale che con necessario anacronismo possiamo oggi definire al tempo stesso liberale e compiutamente democratica.

In che modo le grandi questioni poste dai classici sull’equilibrio di libertà e uguaglianza in democrazia si ripresentano nelle prime riflessioni sulla democrazia moderna sviluppate da Rousseau e Condorcet?

Per tentare di rispondere a questa domanda, propongo di dimenticare per un momento tutto ciò che sappiamo circa il lento radicarsi delle trasformazioni storiche e dei mutamenti culturali che separano il mondo antico da quello moderno e di concentrare la nostra attenzione esclusivamente su tre processi, che svolgono un ruolo decisivo nel porre insuperabili differenze qualitative tra il discorso svolto dagli antichi e quello svolto dai moderni sulla libertà eguale.

Il primo è il processo squisitamente storico che dalle piccole città-stato conduce alla formazione degli Stati moderni di grande estensione territoriale. A differenza della democrazia ateniese, alla quale fanno riferimento obbligato Platone e Aristotele, quella teorizzata nella seconda metà del settecento dai filosofi che ebbero maggiore influenza sulla Rivoluzione può ora avere come ambito di applicazione gli stati di grande estensione territoriale e abitati da una popolazione numerosa. Ho detto “può”, e non “deve”, perché nel tardo settecento era ancora viva l’esperienza delle piccole repubbliche come Venezia o Ginevra, e perché in modo del tutto sorprendente, proprio il ginevrino Rousseau, uno dei filosofi più influenti sul pensiero democratico del mondo contemporaneo, revoca in dubbio la possibilità di una autentica democrazia in una nazione estesa. In uno stato di grandi dimensioni, infatti, il “potere del popolo” non può che esercitarsi in forma rappresentativa e, come tutti sanno, per lui la sovranità non si rappresenta, ma si esercita in forma diretta. Soltanto con la formazione degli Stati moderni, dunque, poté nascere la discussione sulla democrazia rappresentativa, sulla legittimità e i limiti del potere dei rappresentanti: temi cha hanno un immediato riflesso sul lessico della libertà eguale.

Se questo primo processo fu il frutto di una lenta evoluzione storica, il secondo e il terzo processo che tracciano un solco incolmabile tra la democrazia moderna da quella antica furono invece profondamente debitori della riflessione filosofica, fino a precipitare, ciascuno di essi, in una delle due grandi rivoluzioni costitutive della modernità politica. Mi riferisco a quelle che chiamerò nel seguito “rivoluzione della sovranità” e “rivoluzione dei diritti”: due trasformazioni nel modo di concepire il rapporto tra gli individui e lo Stato che tracciano una distinzione indelebile tra il mondo antico e quello moderno e che hanno il loro precipitato storico più significativo nella Rivoluzione francese.

Discostandomi in parte dall’uso corrente, con l’espressione “rivoluzione della sovranità” non mi riferirò soltanto a quella svolta anti-assolutistica e anti teocratica, sviluppata tra Sei e Settecento, che trasferendo la summa potestas dal re, investito da dio, al popolo inaugura l’epoca della sovranità popolare (nella quale nulla potestas nisi a populo). Certo, la sovranità popolare è prima di tutto questo. Ma, una volta formulato e proclamato, il concetto di sovranità popolare è anche lo strumento attraverso il quale i grandi teorici democratici di epoca rivoluzionaria – da Rousseau a Condorcet, da Sieyès a Thomas Paine, fino a Robespierre e Saint-Just – riaprirono la discussione sull’uguaglianza politica, inaugurando una pagina nuova, e da allora sempre aperta, della riflessione sulla democrazia. Se la sovranità appartiene al popolo, e in uguale misura a tutti gli individui che lo compongono, quali individui devono essere considerati reciprocamente uguali nella loro porzione di sovranità, ovvero nella loro libertà politica? La questione, sconosciuta agli antichi, riscoperta dai teorici repubblicani dell’età di mezzo come Marsilio da Padova, ma formulata nei suoi termini più espliciti soltanto con le teorie della sovranità popolare, potrebbe essere riformulata così: quali individui costituiscono il popolo? O anche in questi termini: eguaglianza politica: tra chi? Nel rispondere a queste domande i padri della Repubblica francese come Rousseau e Condorcet cominciarono con il respingere ciò che agli antichi dovette sembrare assolutamente naturale (e che nella Repubblica americana dovette attendere diversi decenni prima di tradursi in realtà): la divisione del genere umano in uomini liberi e schiavi, padroni e servi. Mi riferisco a quel macroscopico confine esterno dell’aequa libertas, che nella democrazia ateniese aveva visto i primi – uguali nella libertà politica – interamente assorbiti dagli affari pubblici, i secondi, assai più numerosi dei primi e privati di ogni libertà civile e politica, destinati (insieme alle donne) alla cura dell’oikos, della casa, e dei beni privati dei padroni[1]. Ma è bene non dimenticare che, lungo la via tracciata dalla sovranità popolare, alla filosofia della Rivoluzione francese si deve anche quella eccezionale conquista storica che, rovesciando l’ordine gerarchico della società feudale fa valere il principio dell’eguaglianza politica dei cittadini considerati uti singuli, e cioè senza distinzione di ordine e di ceto sociale[2]. Nei secoli seguenti numerosi passi ulteriori sono stati compiuti in quel processo di estensione dell’uguaglianza politica che condurrà gli stati democratici, nel corso del Novecento, alla conquista del suffragio universale maschile e femminile. Chiusi in una concezione statica, o tutt’al più circolare dell’esistenza – alieni da quella concezione della storia malferma e secolarizzata propria dei moderni secondo la quale il genere umano è condannato a un progresso del quale ignora lo scopo e il significato – i filosofi antichi non seppero pensare che il futuro potesse riformulare in termini radicalmente nuovi il problema dell’eguaglianza politica e trovare nuove risposte, che sarebbero parse loro inaudite. Noi moderni abbiamo ereditato dalla stagione dei Lumi almeno questo vantaggio sugli antichi: la possibilità di porre domande e di cercare risposte che non hanno il fondamento in una tradizione o in un ordine degli elementi naturalmente giusto, ed eternamente uguale a se stesso. Ed è per questo che la domanda sollevata con l’affermazione della sovranità popolare – eguaglianza politica: di chi? –  non ha cessato di tormentare i sonni dei veri democratici e ha cominciato da qualche decennio ad assumere una forma nuova: siamo proprio sicuri che l’aequa libertas interamente edificata agli albori della contemporaneità intorno all’edificio dello stato-nazione sia ancora adeguata a un mondo attraversato da un flusso apparentemente inarrestabile di uomini e popoli? La storia sembra averci messo davanti a una sfida non più eludibile per l’eguaglianza politica: sarà un giorno possibile eliminare quella discriminazione divenuta ormai intollerabile, che consiste nel riconoscere la libertà politica ai cittadini nati entro i confini dello Stato e nel negarla agli stranieri, a quelle persone che vivono e lavorano nello stesso paese, la cui colpa consiste nell’essere nati in altri stati? Il futuro dell’aequa libertas è forse quello di una democrazia cosmopolitica della quale si stentano a vedere i segni premonitori? È forse quella di una cittadinanza multipla, articolata sulla base delle nostre molteplici appartenenze, sicché ciascuno possa essere al tempo stesso cittadino italiano, francese, europeo? La teoria democratica della Rivoluzione francese, d’altra parte, non fu incapace di mettere a fuoco il problema, e nell’articolo 4 della costituzione giacobina del giugno 1793 ci fornisce una possibile risposta, compatibile con la salvaguardia degli stati nazionali: “l’esercizio dei diritti politici è riconosciuto ad ogni cittadino straniero residente sul suolo nazionale da più di un anno, che viva del suo lavoro, o acquisti una proprietà, o sposi un autoctono, o adotti un bambino, o nutra un anziano”.

Basti l’accenno a queste capitali questioni di giustizia a offrirci una prima, provvisoria, rappresentazione della rivoluzione operata attraverso il concetto così discusso di sovranità popolare.

Il terzo grande processo storico sul quale intendo richiamare l’attenzione è quello che, come ci ha insegnato Norberto Bobbio in opere di eccezionale profondità teorica[3], conduce dall’età dei doveri all’età dei diritti: è il processo che ha la sua origine nella teoria del contratto elaborata da Thomas Hobbes, che sarà condotto a una successiva fase di elaborazione dai teorici dello jus naturale come John Locke e che culmina, a partire dalle rivoluzioni politiche del XVIII secolo, nel riconoscimento ad ogni individuo di diritti fondamentali, inviolabili da parte del potere politico e fissati nelle Dichiarazioni dei diritti dell’uomo: da quella del 1789 fino a quella del 1948. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento nel modo di osservare il rapporto tra gli individui e lo Stato e per questa ragione non è eccesivo parlare di “rivoluzione dei diritti”. Il cuore di questo profondo mutamento di paradigma può essere individuato nel passaggio da una cultura politica olistica ad una individualistica: nell’abbandono di quella concezione della politica, che per secoli – da Aristotele a teorici dello stato assoluto come Bodin – aveva proclamato la precedenza storica e il primato assiologico del tutto sulle parti, dello Stato sugli individui, e quindi dei doveri sui diritti. E nell’affermazione in sua vece di una concezione della politica secondo la quale l’individuo, e non lo Stato, è l’origine della politica e dunque il bene supremo da tutelare, e dalla quale discende il primato indiscusso dei diritti sui doveri[4]. La concezione olistica, nata con la filosofia antica e dominante in tutto l’evo di mezzo, ricondotta a nuova vita dalle teorie dello stato assoluto aveva affermato per secoli che l’uomo è fatto dalla società e per la società; la concezione individualistica affermerà ora che la società è fatta dagli individui e per gli individui.

(…)


[1] Si deve ad Aristotele la celebre e lapidaria constatazione secondo cui la schiavitù è un dato naturale: “è evidente che taluni son per natura liberi, altri, schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi” (Politica, p. 12). Quale fosse la natura dello schiavo, risulta poi evidente da questa sua constatazione: “un essere che per sua natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo” (Politica p. 10).

[2] Come afferma l’art. 3 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, che avrebbe messo d’accordo un teorico della democrazia diretta come Rousseau e un teorico della democrazia rappresentativa come Condorcet: “Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che non emani espressamente da essa”.

[3] Cfr. N. Bobbio, Norberto e M. Bovero, Società e stato nella filosofia politica moderna. Modello giusnaturalistico e modello hegelo-marxiano, il Saggiatore, Milano, 1979 e N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990.

[4] Una delle prime e più celebri espressioni di una concezione al tempo stesso olistica e organicistica della politica si ritrova nel primo Libro della Politica di Aristotele: “il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte: infatti soppresso il tutto non ci sarà né più né piede né mano (…). È evidente dunque sia che la polis esiste per natura, sia che è anteriore a ciascun individuo” (p. 7) .

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