Quando le dimissioni (degli altri) erano necessarie

03 Giu 2011

Nel 2000, subito dopo il risultato delle regionali, D’Alema che era presidente del Consiglio, lasciò l’incarico. Quella volta tutto il Pdl era convinto fosse un atto dovuto, dopo la sonora sconfitta del centrosinistra. E ora? Dopo la batosta elettorale per il Pdl, perché Berlusconi non lascia Palazzo Chigi?

Correva l’anno 2000. Presidente del consiglio era Massimo D’Alema. Domenica 16 aprile il paese andò alle urne per le elezioni regionali: per il centrosinistra fu una batosta (simile a quella subìta alle recenti amministrative dal centrodestra di Berlusconi e Bossi). “Tutto il Nord a Polo e Lega” (‘Repubblica’) e “Il Polo conquista tutto il Nord” (‘Il Giornale’). D’Alema, dopo poche ore di riflessione, appena proclamati i risultati, salì al Quirinale (presidente Ciampi) e si dimise, la sera di lunedì. Poi si presentò al Senato, senza fare capriole dialettiche, senza nascondersi dietro la banale giustificazione del voto amministrativo e non politico per il Parlamento, ammise la sconfitta e riconobbe l’insufficienza dell’azione di governo: “Ancora una volta è la politica ad essere in ritardo nei confronti della società….la cultura di chi governa, anzitutto, deve ricostruire una base ed un consenso sociali per la propria iniziativa”.
Fine dell’avventura governativa di D’Alema che, lasciando palazzo Chigi, si proclamava “al servizio di quel centrosinistra che ha consentito all’Italia di salvarsi dopo anni difficili e bui”.
Intanto, in quegli stessi momenti, poco prima del ritiro di D’Alema, Berlusconi e ilcentrodestra martellavano il governo (e il Capo dello Stato): “Penso che non si possa continuare a ignorare la volontà popolare” diceva il leader del Polo nelle interviste. “Gli italiani non si sentono più rappresentati dalla maggioranza in Parlamento, tutta da verificare, e soprattutto dal governo. Che è abusivo, esporrebbe l’Italia a figuracce internazionali. Agli italiani il diritto di scegliere”. Quindi “basta con il solito teatrino romano! Conoscendo la sinistra, so che farebbe di tutto per rimanere abbarbicata al potere”.
Altre reazioni sui quotidiani di lunedi 17 aprile: “Forza Italia esulta: D’Alema dovrebbe andarsene questa notte”. E poi il giorno dopo, a dimissioni presentate: “Bossi: ‘Ciampi deve farci votare’ “. Roberto Formigoni, allora riconfermato alla guida della Lombardia: “Massimo D’Alema si è impegnato personalmente nella campagna elettorale, che ha perso. Adesso il capo dell’esecutivo ne deve sopportare le conseguenze”. Testuale. Appare superfluo raffrontare le dichiarazioni del 2000 a quelle di oggi, alla posizione del premier in carica, che “ci ha messo la faccia” in ogni istante della campagna elettorale per le amministrative, primo e secondo turno. Ma tant’è, non c’è limite alla improntitudine. Dice Berlusconi, il 14 maggio scorso alla vigilia del voto: “Non è un voto ordinario. È un voto su di me e sul mio governo, è in gioco il futuro mio e della legislatura”. Appunto.
Torniamo ad aprile 2000: il presidente Ciampi affidò a Giuliano Amato, ministro del Tesoro, l’incarico di formare il nuovo governo, per portare il paese alla scadenza naturale della legislatura, nel 2001. Ira e rabbia di Berlusconi: “Sia chiaro al signor Amato che lo chiameremo tutti i giorni ‘utile idiota’ che siede abusivamentea palazzo Chigi, contro la volontà dei cittadini. Questa è una violazione della democrazia!” (20 aprile). Fin da allora, naturalmente, il Polo era il ‘partito dell’amore’, rappresentato da politici che non insultano mai nessuno: “Noi liberali non ne siamo capaci”.
Occorre appena precisare che nel 2000 non era neppure in vigore la famigerata legge ‘porcellum’ di Calderoli (per modificarla è ripartita la campagna web di LeG: “Ridateci la democrazia, basta con il Parlamento dei nominati”). Quindi, il Capo dello Stato aveva incaricato Amato, dopo le dimissioni di D’Alema, in modo assolutamente libero e corretto in base alla Costituzione. Nè aveva l’obbligo, essendoci una maggioranza, di sciogliere le Camere. Si badi bene: anche oggi è così sostanzialmente, perché il ‘porcellum’ non ha modificato i poteri del presidente della Repubblica, che “nomina il presidente del consiglio dei ministri”. Lo ammette anche la Calderoli (” Restano ferme le prerogative spettanti al Presidente della Repubblica previste dall’articolo 92, secondo comma, della Costituzione”). Tuttavia il ‘porcellum’ , con l’indicazione nella scheda elettorale del nome del capo della coalizione, crea un vincolo politico a favore del vincitore, di cui si tiene conto, ovviamente. Ma c’è anche un altro obbligo politico in quella legge, che oggi dovrebbe far riflettere: l’alleanza elettorale vincente e il premier, godono di un premio di maggioranza smisurato, com’è noto. Se elezioni amministrative, a metà legislatura, chiamano alle urne circa 15 milioni di elettori, e si concludono con una sonora sconfitta per il governo e la maggioranza (mostrando quindi un orientamento politico nel paese diverso da quello rappresentato alle Camere), sarebbe democraticamente corretto (pur non essendo un dovere giuridico) per il capo dell’esecutivo sconfitto, Berlusconi, presentare le dimissioni, per rispettare la volontà del popolo (come egli pretese nel 2000 da D’Alema, e con una legge elettorale diversa). Invece – quantum mutatus ab illo! – dice oggi, con arroganza : “Non mi arrendo…il mio funerale è rinviato, non ho tempo….problemi, zero virgola zero…”. Insomma, per adesso non se ne va.

I referendum del 12-13 giugno sono un’altra occasione per abbattere il fortino di palazzo Chigi dentro il quale si è barricato il cavaliere.
E per ottenere finalmente quel risultato che da mesi urla nella home page del nostro sito: “Dimettiti. Per un’Italia libera e giusta“.

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