Saper perdere

19 Mag 2011

Nadia Urbinati Consiglio di Presidenza Libertà e Giustizia

Uno degli obiettivi messi a segno dalle democrazie costituzionali moderne è stato quello di consentire di perdere. Perdere è stato per secoli un problema maledettamente serio, anche perché si traduceva quasi sempre con la soppressione del perdente o il suo assoggettamento servile al volere del vincitore.

Uno degli obiettivi messi a segno dalle democrazie costituzionali moderne è stato quello di consentire di perdere. Perdere è stato per secoli un problema maledettamente serio, anche perché si traduceva quasi sempre con la soppressione del perdente o il suo assoggettamento servile al volere del vincitore. Le città e gli Stati erano turbolenti proprio perché il potere non si adattava alla mortalità, non solo per l´ovvia ed eterna regola per cui chi ce l´aveva non lo voleva cedere, ma anche perché perderlo era decisamente molto pericoloso. Nelle repubbliche classiche, per esempio quella romana, le cariche circolavano tra una ristretta élite di senatori ed erano annuali così da consentire a tutti loro di coprirle prima o poi. La rotazione è stata una strategia molto lungimirante ma poté funzionare fino a quando la classe politica era molto ristretta per numero.
L´inclusione di un più largo popolo nelle repubbliche umanistiche è stato un fattore tragico di conflitti violenti anche perché il “volgo” veniva usato dai potenti per distruggersi l´un l´altro fino a quando non si ergeva un signorotto più arrogante o potente degli altri che si teneva tutto il potere per sé, interrompendo la competizione.
Questa storia si è conclusa, felicemente, con l´uso delle elezioni a periodicità regolare per la selezione di chi doveva ricoprire funzioni di potere, in primo luogo quella di fare le leggi, il potere più importante proprio per le conseguenze che poteva avere su chi perde. Le elezioni si adattavano bene a stati territorialmente larghi ma soprattutto riuscivano a mettere il potere politico in accordo con la temporalità. Perdere non era piú un problema poiché chi perdeva sapeva in anticipo che il gioco restava aperto, che la sua libertà non era toccata, che aveva quindi sempre la possibilità di riprovare a vincere. A queste condizioni, pensando cioè a un riscatto futuro, il potere riuscì a circolare senza mai fermarsi in un punto; e con la circolazione si ruppe l´incantesimo negativo associato alla sconfitta. Quelli che a ragione sono stati chiamati “i geni” della democrazia moderna, i padri della costituzione americana, hanno non soltanto colto la novità della rappresentanza elettorale ma inoltre teorizzato che senza di essa non si dava libertà proprio perché non si poteva risolvere il problema della vittoria e della sconfitta nella politica.
Questa spiegazione non sembri scolastica, poiché nel nostro Paese, nel ventunesimo secolo, succede che chi ha acquistato il potere, pur sapendo che è temporale proprio perché l´ha acquistato per via elettorale, pensa che non sia possibile pensare a un´altra leadership; che il cavallo che ha vinto debba sempre vincere. Che sia quasi condannato a vincere come se perfino l´immaginare un altro cavallo in dirittura d´arrivo sembri blasfemo. Non l´alternanza, ma la permanenza al potere. Prima della sconfitta al primo turno della candidata Letizia Moratti, il presidente del Consiglio ha dichiarato che sarebbe stato: «impensabile una città non governata da noi». L´ammissione va presa come un atto di sincerità. E forse mai frase è stata più sincera in questa campagna elettorale milanese condotta con “entrate a gamba tesa” che in una partita calcistica sarebbero costate espulsioni e rigori. È sincera perché rivela la convinzione antica che si annida nell´animo del nostro leader di governo: la politica come potere che non si deve perdere, che non permette di perdere.
Eppure, la grandezza della democrazia moderna sta proprio nella capacità di mandare a casa con un voto chi non vorrebbe mai lasciare, e inoltre, di farlo senza la presunzione di aver fatto giustizia. Poiché vincere e perdere non è una questione che decide chi sia più o meno giusto, o più o meno vicino al vero. Vincere e perdere un´elezione significa molto più semplicemente e umanamente aver fatto o no una buona campagna elettorale; aver fatto o no una buona politica da mettere sul piatto dell´opinione popolare. L´esito non piace mai a chi perde, ma perdere in questo modo, per la conta dei voti, è perdere nella libertà. Sapendo oltretutto che non è mai una perdita per sempre, ma temporanea, proprio come la propria vittoria di ieri, anche quando e se si tratta di un “ieri” lungo più di un decennio.
Quindi, certo che è immaginabile una città non governata dalla maggioranza che l´ha fin qui governata. Altrettanto lo è per il paese: chi lo governa non ha acquistato nessuna patente di validità permanente, e chi sta all´opposizione non è meno adatto a governare solo perché ha perso ieri. Poiché, vale ripeterlo, vincere e perdere non è una questione che mette in gioco la giustizia o la verità, se le regole sono rispettate, se il gioco è leale, combatterlo e vincerlo sono da soli una patente di legittimità sufficiente. Ecco perché la democrazia costituzionale è il miglior governo: perché fa immaginare vittorie e sconfitte come fatti possibili e normali, senza nessuna conseguenza per la libertà di chi perde perché senza attribuzioni di insostituibilità in chi vince.

Politologa. Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L’Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left.

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