La potenza di Eros fra istinti e ragione

06 Mag 2011

Nel nuovo libro “Scuote l’anima mia Eros”, Eugenio Scalfari riflette su desiderio e condizione umana. La malinconia ha un posto d’onore e attraverso di essa si traccia il bilancio di una vita

SONO anni che Eugenio Scalfari intreccia la riflessione filosofica e letteraria con il proprio privato, o meglio con quella parte della memoria che evoca personaggi che hanno attraversato la sua lunga vita, e letture che hanno accompagnato la sua formazione. È un legame tra due mondi che rendono viva la materia trattata, alleggerendola da quei tratti specialistici che sovente affliggono la nostra saggistica.

Scuote l’anima mia Eros (il titolo del nuovo libro richiama un verso di Saffo) si apre con una significativa dedica a Italo Calvino, che è l’occasione per delineare due caratteri, due anime, due posture. Come se Calvino sia davvero l’alter ego che gli fa scrivere: “Io sono stato, a differenza di lui, un mercuriale che sognava di essere un saturnino”. E la malinconia – anche se non esibita – ha qui un posto d’onore, quasi a voler attraverso essa stilare un bilancio che non è solo intellettuale ma di vita. In fondo, non è forse Eros il dio (dalle incerte origini) che racchiude in sé la parte mentale e insieme istintiva? La psiche e il bios? La natura delle nostre pulsioni desideranti e la necessità di imbrigliarle, governarle, disciplinarle? Non è dalla fusione dei due momenti che si realizza quella conoscenza suprema alla quale fin dall’inizio di questa avventura ha pensato Platone? Dopo di lui, Eros ha assunto vari volti, ma è grazie a Freud che diventa il motore delle nostre pulsioni più segrete. In seguito, Bataille e Marcuse ne esaltano la funzione liberatoria dalla Civiltà. Quanto a Roland Barthes – che pratica una scrittura autobiografica – riconduce Eros al suo valore impolitico. Come si vede è il Novecento a imprimere al “discorso amoroso” (e andrebbero citati anche i nomi di Simone Weil e Hannah Arendt) una varietà di letture che Scalfari lascia sullo sfondo della propria riflessione.

Nella radicalità del suo sguardo egli privilegia le questioni che ruotano attorno al costituirsi dell’individuo o meglio, come egli usa ripetere, di quell’Io la cui complessità, nel nesso tra mente e psiche va indagata all’origine. Siamo come dei centauri – ci avverte – il cui equilibrio precario tra la parte animalesca (il dominio degli istinti) e quella più propriamente umana (sorretta dalla ragione) può sempre rompersi. Resterebbe da indagare se quegli “istinti” sono pura connotazione animale e appartengano a quel selvaggio irrazionale che è in noi o, viceversa, quell’area che ribolle – come anche la psicoanalisi ha suggerito – non sia già carica di simbolico, non sia già pregna di una lingua altra che è già un “voler dire”.

Nella visione antropologica di Scalfari, arricchita dai continui rimandi al mito, quale ruolo dunque svolge Eros, signore degli istinti? Il dio dell’amore è anche colui che infonde il desiderio di sopravvivenza. Quell’istinto, che nei momenti peggiori ci ha salvati dalla catastrofe definitiva, è l’amore per gli altri: una tensione che alberga in ciascuno di noi e che contende all’egoismo lo spazio psichico. In questa prospettiva si comprende l’attenzione dell’autore nei riguardi dei Vangeli e della predicazione di Gesù, come pure più trasparente e solida diventa, in alcune pagine, la presenza del Cardinal Martini. Non un puro confronto teologico, ma un’esperienza umanissima tra due figure che, pur partendo da versanti opposti, condividono nel dialogo la volontà di capirsi.

Rispetto a Per l’alto mare aperto (il libro che precede questo), dove la modernità era genealogicamente indagata nei quattro secoli in cui essa nasce, trionfa e declina, Scuote l’anima mia Eros si incammina su un percorso più dolente e intimo, quasi che il “discorso amoroso” dialoghi con la propria ombra, con la finitezza destinata alla morte. E questa ci appare essere il vero centro segreto del libro, la cifra che marca il viaggio, che lo spiega e lo ricomprende in una singolare tensione poetica. Tensione che Scalfari registra con il passar degli anni, quando più imperioso si fa il suo bisogno di poesia: “Non ho mai composto versi e non credo che mai ne scriverò, ma la poesia come tempo sospeso, come tempo perduto e ritrovato, come rapimento melanconico è diventata per me il solo modo di accarezzare me stesso. Di consolarmi di esistere”.

Il compito della poesia è anche quello di allontanarci dalla malattia del potere (dalle sue patologie) e di metterci in contatto con le forze dell’ignoto. Il tempo dei poeti è un tempo segreto e fragilissimo. Sembra questa l’implicita conclusione alla quale l’autore giunge. E vi approda attraverso i versi di García Lorca. Poeta facile, e sovraesposto, qui ribadito per la forza che vi riveste Eros, ma soprattutto per la trascinante malinconia che genera il presentimento della morte. Che in Lorca fu un’ossessione. E in Scalfari l’orizzonte che tutto ricomprende. È questa la sola certezza inscalfibile: la morte spiega la vita e non viceversa. Scalfari ammira Montaigne, si lascia attrarre da Nietzsche, e alle spiegazioni “sotterranee” di Freud e può dunque affermare, in linea con il loro pensiero, di non credere “alla verità definitiva e al senso ultimo delle cose”. Ci ritroviamo così nel cuore di una possibile disputa che, nel corso del Moderno, ha dato i frutti intellettualmente più tragici e interessanti. È a questa modernità, ormai esaurita, che le apprensioni di Scalfari si rivolgono, nella lacerante consapevolezza che ogni viaggio, per quanto lungo, volge sempre alla fine.

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