Crocifisso di Stato, un pamphlet

08 Apr 2011

Immaginate di essere il presidente di una squadra di serie A. Immaginate di andare in Federazione per una riunione, con i presidenti di altre squadre. Immaginate di entrare nella sala della riunione e trovare appeso al muro, sopra lo scranno del Presidente della Federazione, il gagliardetto di una delle squadre che partecipano al campionato, soltanto quello. Non rimarreste a dir poco perplessi?

Immaginate di essere il presidente di una squadra di serie A. Immaginate di andare in Federazione per una riunione, con i presidenti di altre squadre. Immaginate di entrare nella sala della riunione e trovare appeso al muro, sopra lo scranno del Presidente della Federazione, il gagliardetto di una delle squadre che partecipano al campionato, soltanto quello. Non rimarreste a dir poco perplessi? Non vi lamentereste del fatto che, forse, non è buona cosa che il simbolo di una squadra, di una soltanto, compaia sul muro di un’istituzione che dovrebbe essere neutrale? E non restereste a bocca aperta se il presidente della Federazione replicasse «è il gagliardetto della squadra con più tifosi»? Se questa situazione vi disturba, è probabile che vi disturbi anche la storia del «crocifisso di Stato» raccontata nell’informatissimo pamplhet (dal titolo omonimo) di Sergio Luzzatto (Einaudi). È la storia di bambini, ragazzi e adolescenti di diverse religioni o di nessuna religione che vanno a scuola ogni mattina, e ogni mattina dietro la cattedra vedono il simbolo di una religione, una soltanto. Perché dovremmo accettarlo? Fu Marcello Montagnana, professore di disegno e storia dell’arte all’Istituto magistrale di Cuneo, a sollevare per primo il problema nel 1994. Subì cinque processi, alla fine fu assolto dall’accusa di interruzione di pubblico servizio. A 7 anni dalla sua scomparsa, le risposte a quella domanda abbondano, ma sono tutte debolissime. È debole la risposta giuridica, del crocifisso imposto da due Regi decreti di epoca fascista, come se in mezzo non ci fosse stato un cambio di regime, una Costituzione, un Nuovo Concordato. Ma lo è anche quella identitaria, del crocifisso come simbolo nazionale, come se non fosse comico e anche irrispettoso secolarizzare un simbolo religioso e apporvi vestigia tricolori, e così pure quella maggioritaria, del crocifisso come simbolo della maggior parte degli italiani, come se la tirannia della maggioranza costituisca un buon argomento in faccende che riguardano i diritti delle persone (di credere, non credere, credere diversamente).
Secondo Luzzatto, la continua riproposizione di questi argomenti nel dibattito pubblico italiano, da parte non solo dei cattolici (veri o di facciata) ma anche di insospettabili maître à penser (veri o presunti), dice molto del nostro Paese e del suo rapporto ancillare con la religione e con chi la rappresenta: un Paese che ha dato vita (contro il papato) a uno Stato che è formalmente laico e che dovrebbe perciò assicurare la neutralità confessionale, ma che non riesce – forse non è mai riuscito – a realizzare il motto cavouriano della libera Chiesa in libero Stato e che alla fine sulla laicità gira a vuoto. Un Paese in cui l’impressione è però che, per rubare le parole all’autore, “la difesa a oltranza del Crocifisso nello spazio pubblico valga anche a mascherare la progressiva, inarrestabile sparizione del crocifisso dallo spazio privato. Forse l’uso (e l’abuso) del simbolo deve nascondere un disuso” (p. 81). In questi giorni in cui la Grande Camera ha avallato definitivamente l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane lasciando discrezionalità al legislatore nazionale, leggere il pamphlet di Luzzatto è un esercizio che merita di essere compiuto: per capire che cosa sia il crocifisso e come sia potuto arrivare a occupare i muri pubblici italiani (scuole, ospedali, tribunali, pubblici uffici), e per risvegliare la volontà di non cedere sulle questioni di principio.

* Questo articolo è stato pubblicato da Il Riformista, il 22 marzo

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