Quali sono le “brutte notizie”? Quelle distorte? O, forse, sono anche quelle non date? Quale è oggi lo stato dell’informazione nel nostro paese? Se ne è parlato a Perugia, nel corso della presentazione del libro di Maria Luisa Busi, pubblicato per Rizzoli. Il titolo – “Brutte notizie” – la dice lunga, ma ancora più esplicito è il sottotitolo, “Come l’Italia vera è scomparsa dalla Tv”. Giornalista, conduttrice, inviata (con i suoi reportage ha vinto tra gli altri il premio Saint Vincent, il Premiolino e il Premio Borsellino), Maria Luisa Busi è stata, per venti anni, il familiarissimo volto di punta del TG1 delle 20,00. Fino alle dimissioni, nel maggio 2010. Una scelta, dolorosa ma inevitabile, motivata dalla non condivisione della linea editoriale del telegiornale voluta dal Direttore Augusto Minzolini, ma «non è questione di coraggio, l’ho fatto per dovere», ci tiene a spiegare. L’iniziativa – patrocinata dell’assessorato alla Cultura del Comune di Perugia e organizzata in collaborazione con la libreria “l’Altra” – nasce dalla sinergia locale tra due notissime associazioni nazionali: Libertà e Giustizia, da sempre impegnata nella promozione della cultura politica, e Articolo 21, attiva sul fronte della difesa della libertà di informazione. «Il libro di Maria Luisa è un vibrante racconto del clima che stiamo vivendo – spiega, ad aprire l’incontro, Paolo Mirti, per Articolo 21 – e svela gli inganni della ricostruzione artificiale della realtà».
«Sono una giornalista di parte», scandisce Maria Luisa Busi appena prende la parola, con quel timbro di voce che tante volte ha risuonato nelle nostre case, questa volta non mediato dallo schermo. «Sono di parte, sì: dalla vostra parte». Dalla parte di coloro le cui vite reali hanno il diritto di essere raccontate. Dalla parte dei cittadini che hanno il diritto di sapere. In fin dei conti, spiega, è una questione di rispetto: bisogna recuperare il rispetto delle voci e delle opinioni diverse dalle proprie. Nel nostro paese, invece, sono in tanti a non accettare il punto di vista degli altri. Fino a cancellarlo. «E, ebbene sì, sono anche moralista», afferma, con una punta di ironia rispetto ad un termine oggi abusato. «Un giornalista della Rai – spiega l’autrice – ha dei doveri in più, quello di non vendersi all’esterno, di non censurare, di non legarsi a soggetti economici. Non deve manipolare le notizie. Non può non darle». E se questo avviene, è ancora più grave se pensiamo che l’83% degli italiani si informa attraverso il piccolo schermo e i telegiornali. In “Brutte notizie” ci sono l’Aquila, l’Alitalia, gli imprenditori del Nord Est, le donne funambole che coniugano lavoro e famiglia, orari e affetti, spesa e figli. E ancora c’è Loredana, ex-hostess della compagnia di bandiera, Sergio e Angela. Persone comuni. C’è tanto, proprio tanto in questo libro. E – soprattutto – c’è tutto quello che non c’è più nel principale telegiornale del Paese. Già, il Tg1, da sempre “il telegiornale”, per eccellenza, per definizione, per vocazione. Quello di tutti, magari un po’ istituzionale, a volte ingessato. Ma di tutti e per tutti. Che è stato fatto da veri professionisti. Che ha raccontato i grandi momenti della storia, così come le vite dei singoli, sconosciuti ma non per questo meno importanti. Prima. Oggi, invece, è il Tg1 appiattito sul volere del potere, è il telegiornale delle notizie di alleggerimento, quasi ad inseguire e imporre un intrattenimento consolatorio e confortante, per celare le brutte notizie – proprio quelle – la crisi economica, la disoccupazione, l’assenza di futuro dei giovani.
A dialogare con l’autrice, Federico Fioravanti e Santo della Volpe che, anch’essi giornalisti, non censurano i problemi, i limiti e le distorsioni del nostro sistema d’informazione. «La televisione è strumento delicato – spiega Fioravanti – e parla ad un pubblico vastissimo». Forum (con la sua finta terremotata) arriva a due milioni e mezzo di persone, il Corriere della sera ad appena mezzo milione. «È un mezzo parziale, la Tv. È “visione da lontano” dove il vedere prevale sul significato: prima arriva l’immagine, poi il suono. Solo al terzo posto la parola. Conta la ripresa, conta la gerarchia della notizia». Altrimenti – e basta davvero poco – la realtà rischia di trasformarsi in fantasia. «Se è vero che esiste la libertà di scegliere “come dare la notizia”, l’etica della professione deve però intervenire – secondo della Volpe – ad evitare la distorsione dei fatti». Ecco perché occorre partire dai dati (incontrovertibili) e riferirsi rigorosamente alle fonti, con professionalità e nel pieno rispetto del pubblico. Allora servono, eccome, libri come questo di Maria Luisa Busi. Libri per un giornalismo serio ed appassionato e contro “l’assassinio di una professione”. Un volume di denuncia, quello della giornalista, che – con un registro incalzante ed incisivo – racconta il nostro paese con passione, precisione e attenzione. E Maria Luisa Busi continua a guardarsi intorno. Proprio come le diceva, era ancora bambina, il padre: «quando cammini, guardati a destra e a sinistra. C’è sempre qualcosa di interessante da vedere. C’è sempre qualcosa che accade». C’è sempre qualcosa o qualcuno da raccontare. Un “vecchio gioco”, lo definisce con affetto nel libro. Ma che funziona perfettamente ancora oggi.
Mi scuso con l’autrice dell’articolo, sig.ra Diletta Paoletti, se mi rivolgo direttamente alla sig.ra Maria Luisa Busi.
Gent.ma sig.ra Maria Luisa,
giorno per giorno abbiamo letto nei suoi occhi e nel suo sguardo e vissuto anche nella sua voce la sofferenza di un modo di lavorare non condiviso perchè poco corrispondente alla realtà, a quella realtà che si accorgeva a poco a poco insabbiata e scomparsa.
Ce ne siamo accorti in molti e con Lei abbiamo compreso il disagio fisico e morale per quel modo disonesto che Le veniva imposto e che svolgeva a malincuore. Ho perfino pensato che prima o poi avesse fatto un URLO con le seguenti parole:-NON ce la faccio PIU’!
Siamo stati in molti “dalla sua parte”, mi creda; a Lei va tutta la mia solidariatà per la scelta inevitabile che ha dovuto fare.
Mi piace che abbia riportato quel suggerimento/consiglio del suo papà che , in situazione diversa, ma sempre efficace, ho messo in atto anch’io nella mia opera d’insegnamento per la scoperta del territorio e della sua storia; le mie uscite scolastiche sono sempre motivate e volte alla scoperta delle cose che ci circondano , all’individuazione di quei segni che mirano a “debanalizzare la realtà”, a scoprire che anche le pietre “parlano”, ci trasmettono i segni del tempo e della vita vissuta da chi ci ha preceduto: esse ci raccontano la storia del passato.
E questo modo di apprendere resta per sempre come un segno indelebile.
Grazie per avercene dato testimonianza.
maria rosa
no, evitiamo di dire “sono moralista”. Trasmissioni come “Presa diretta”, come “Report” sono “moraliste”? Non tutti hanno una spanna di pelo sullo stomaco come Santoro e riescono a cinguettare con Belpietro!!! ma io sento che certi stili e contenuti sono venuti meno: l’onestà, la coerenza, il senso del servizio pubblico, il disinteresse personale, la sobrietà e tanti altri in via di estinzione (se non definitivamente estinti nel mondo della politica politicante). Purtroppo anche nella gerarchia cattolica.
Non è dunque questione di essere “moralisti”: è che la situazione in cui ci rotoliamo è a-morale.
Saluti.
Silvana
La più brutta delle brutte notizie: l’editoria è tutta impura
Fra le brutte notizie, a quelle distorte e non date vanno aggiungete quelle “pigre”, cioè le notizie di politica ed economia impostate sui detti dei diretti interessati, senza alcun rapporto di causa ed effetto. Infine si nasconde sempre la notizia principale del giornalismo italiano: che non esistono giornali o tv di editori puri; oggi ci prova Il Fatto ed essere editoria pura, ma il sarcasmo e il dileggio hanno sostituito l’analisi. In Italia la più brutta delle “Brutte notizie” è che l’editoria è tutta impura, manca il giornalismo che non sia funzionale ad altri interessi economici, quelli degli sedicenti editori, cioè libero.