Spettacolo al di sotto della decenza

31 Mar 2011

Faceva impressione, ieri sera su tutti gli schermi delle tv italiane, vedere il ministro della Difesa urlare in aula e insultare il presidente della Camera per le contestazioni sul «processo breve».

Faceva impressione, ieri sera su tutti gli schermi delle tv italiane, vedere il ministro della Difesa urlare in aula e insultare il presidente della Camera per le contestazioni sul «processo breve».

Un ministro del Paese più coinvolto nelle conseguenze delle rivoluzioni che sconvolgono l’altra sponda del nostro Mediterraneo. Una questione lontanissima dalle gravi preoccupazioni che assillano gli italiani in questo momento e che, tra l’altro, dovrebbero assillare anche i suoi pensieri e le sue azioni. Lo spettacolo si completava con il collega ministro degli Esteri che lo affiancava sul banco del governo, sbalordito e imbarazzato testimone di una scena impensabile e inaudita in qualsiasi Parlamento di una democrazia occidentale. Uno Stato che sta partecipando, in questi giorni, a una operazione militare di guerra, anche se vogliamo chiamarla in altro modo, e che deve affrontare un’emergenza umanitaria drammatica.

Così come faceva impressione vedere il presidente del Consiglio offrire agli abitanti di Lampedusa, comprensibilmente esasperati da una situazione sconvolgente, una escalation di promesse strabilianti, culminate con la candidatura al Nobel della pace e garantite da un impegno che, preso da Berlusconi, ha un valore assoluto: l’acquisto di una villa sull’isola. Perché, in quelle stesse ore, a Roma, i suoi deputati e il suo ministro della Giustizia preparavano un blitz procedurale per assicurare un cammino parlamentare, appunto, brevissimo a quel «processo breve». Una legge che, se fosse approvata in tempi rapidi, lo salverebbe da un’eventuale condanna al processo Mills.

Faceva pure impressione, sempre ieri sera, l’evidente difficoltà dell’altro partner di governo, quello determinante in questa fase della vita politica, la Lega. Da una parte, costretta a dimostrare di saper gestire, in prima persona col suo ministro Maroni, una situazione molto intricata e difficile, quella dell’immigrazione dai Paesi mediterranei, dove non bastano le sbrigative battute in dialetto di Bossi a risolvere problemi di portata epocale. Dall’altra, obbligata a sostenere Berlusconi nelle sue vicende processuali, con provvedimenti di legge che rischiano di incidere gravemente sui consensi di elettori molto sensibili al rischio di generalizzate clemenze giudiziarie. Due fronti che, con una coincidenza simbolica, vanno a colpire proprio un motivo fondante di quel partito, la tutela della sicurezza, scudo delle paure più profonde degli italiani.

Per completare lo scenario ieri spalancato davanti all’opinione pubblica nazionale, e ancor più internazionale, la visione di un Parlamento assediato da una contestazione accesissima, a cui, inspiegabilmente e singolarmente, è stato permesso di arrivare sulla soglia del portone. Testimonianza di un clima esasperato e di una spaccatura emotiva tra i cittadini italiani rischiosa, soprattutto in un momento in cui il nostro Paese deve superare prove molto ardue.

È vero, infatti, che l’Europa, sul problema degli immigrati maghrebini, pare sorda ai giustificati appelli alla solidarietà comunitaria che arrivano dalle nostre autorità di governo. Ed è anche vero che il modo con il quale i principali leader del mondo trattano i rappresentanti italiani ai vertici internazionali sembra oscillare tra la trascuratezza e il paternalismo. Proprio su una questione, quella della crisi libica, in cui il nostro Paese è il più coinvolto, sia per gli interessi economici e geopolitici, sia per i risvolti demografici, sia per le nostre antiche responsabilità storiche.

La forza negoziale dell’Italia, però, sarebbe ben diversa se la credibilità della nostra classe dirigente, in queste e in altre circostanze, non fosse molto indebolita da un costume politico così al di sotto dei minimi standard di decenza pubblica. Perché l’autorità nei confronti degli altri Paesi del mondo si conquista con l’autorevolezza raggiunta nel nostro.

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