Fiat, la partita comincia ora

17 Gen 2011

Esaminato in una prospettiva di lungo periodo, il referendum di Mirafiori costituisce la presa d’atto da parte dei lavoratori del mutamento radicale nei modi di produzione provocato dalla globalizzazione.

Il mercato globale pone le tute blu di Mirafiori in concorrenza diretta, e senza paraurti, con le tute blu di Shanghai, della Corea, del Brasile; e i dirigenti del Lingotto in concorrenza diretta – giocata sul filo delle quotazioni di Borsa e dei dati di bilancio – con quelli degli altri quartier generali dell’industria automobilistica mondiale. Sono quindi in gran parte saltati gli stretti legami con i quali gli Stati «proteggevano» le loro grandi imprese e ne influenzavano, spesso in maniera determinante, le decisioni. Sopravvivono le fabbriche in grado di produrre a prezzo minore a parità di qualità e quantità, sopravvivono le imprese che fanno percentualmente gli utili maggiori.

Le conquiste dei lavoratori, come, ancora prima, i profitti relativamente stabili degli azionisti, ottenuti in un precedente regime di concorrenza controllata e limitata – che trovava negli Stati nazionali una «sponda» alla quale appoggiarsi per attutire avversità e insuccessi – devono essere ridefiniti. Il mondo sta crescendo senza l’Europa e senza l’Italia e l’idea di imporre agli altri il modello europeo di produzione o i diritti acquisiti italiani è una peregrina fantasia.

Il referendum ha rappresentato il momento del riconoscimento di questa situazione nuova: i lavoratori di Mirafiori hanno complessivamente accettato di mettersi in gioco in questa sfida globale, sia pur con comprensibili esitazioni. Mirafiori è uno stabilimento relativamente «anziano» e la prospettiva di imparare a lavorare in maniera diversa e di lavorare con turni più pesanti, magari il sabato notte, è molto meno accettabile per chi si trova a pochi anni dalla pensione – magari raggiungibile con l’«accompagnamento» di qualche anno di cassa integrazione ordinaria e speciale – che non per chi è all’inizio dell’attività lavorativa. Hanno inoltre maggior interesse alla continuazione dell’attività gli impiegati, il cui voto favorevole è stato determinante per l’esito del referendum, i quali, avendo «investito» nella propria istruzione, devono recuperare il costo e la fatica di questo investimento.

Per usare una metafora calcistica, Mirafiori ha accettato, con molta riluttanza, la sfida dei campionati mondiali ma questo non dà certo la garanzia di entrare in finale. Il «sì» al referendum è pertanto una condizione necessaria per continuare a «giocare» nell’economia globale, per evitare che l’Italia esca da un altro settore importante ma purtroppo non una condizione sufficiente, né a livello di impresa, né a livello dell’area torinese e neppure a livello nazionale per realizzare una crescita stabile e sicura.

Per quanto riguarda l’impresa, secondo l’intervista di Marchionne a «Automotive News» del dicembre 2008 – l’esposizione più chiara delle grandi strategie del gruppo -, Fiat-Chrysler avrebbe bisogno di un ulteriore acquisto importante, che Marchionne tentò invano di realizzare con la Opel, per raggiungere in pieno la «massa critica» necessaria ad affrontare il futuro in maniera ottimale. Ci si deve attendere, quindi, che Fiat-Chrysler non solo realizzi a Mirafiori, come è del tutto ragionevole, gli investimenti che si è impegnata a realizzare, ma anche che continui una strategia di accordi e acquisizioni a livello mondiale.

Per quanto riguarda l’area torinese, l’accordo concede qualche anno per ripensare il futuro economico senza i traumi che sarebbero derivati da una chiusura o da un ulteriore ridimensionamento di Mirafiori. Così come la Fiat ha ampiamente dimostrato la sua volontà di diversificare, anche per Torino, secondo un noto proverbio inglese, non sembra saggio mettere tutte le uova in un solo paniere; il prossimo sindaco, di chiunque si tratti, non avrà soltanto il compito difficile di gestire un’area urbana alle prese con un mutamento epocale ma anche quello di orientare quest’area, nei limiti del possibile, verso una struttura produttiva più diversificata nella quale il settore automobilistico è destinato a rimanere di importanza fondamentale ma non più tale da assorbire una parte necessariamente preponderante delle energie e della forza di lavoro.

Il riorientamento della struttura produttiva non riguarda solo Torino ma tutta l’Italia. Basti pensare che nel 2006-07, la più recente, e purtroppo debole e breve, fase espansiva dell’economia italiana, il 20-30 per cento della crescita totale dell’economia italiana fu dovuto all’«effetto Fiat», ossia all’aumento di valore aggiunto del gruppo torinese, dei suoi fornitori e alle attività successive alla vendita degli autoveicoli, quali il finanziamento e l’assicurazione. L’Italia non può restare indifferente a ciò che fa la sua maggiore impresa, anche se, nel clima della globalizzazione, non è più in grado di condizionarne le politiche aziendali; ma soprattutto dovrà ripensare a una strategia industriale che, dopo gli errori che hanno portato il Paese a indebolire gravemente la sua posizione nell’elettronica, nella chimica e nella farmaceutica, dovrebbe ora puntare su qualcosa che non sia soltanto l’auto e che consenta quel recupero di produttività senza il quale, nei prossimi anni, con o senza Fiat, il Paese tenderà a perdere ulteriori posizioni nel contesto internazionale.

I «vincitori» del referendum di Mirafiori non hanno quindi una vera vittoria alla quale brindare, né gli sconfitti debbono stracciarsi le vesti. Entrambi si trovano di fronte a una situazione complessa, largamente inedita, da affrontare con senso di responsabilità; un’analoga gestione responsabile tocca naturalmente alla controparte imprenditoriale.

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