Fiat, adesso includere e non emarginare

17 Gen 2011

Quel che è accaduto è conseguenza della globalizzazione che, lasciata a se stessa, produce l’impoverimento del nostro mondo industrializzato e l’arricchimento di quei paesi che una volta erano “terzo mondo”. Bisognava governarla, ma chi avrebbe dovuto farlo ha mancato l’obiettivo

Eugenio Scalfari lo ha detto benissimo nell’editoriale pubblicato domenica scorsa da Repubblica: quel che è accaduto alla Fiat è la conseguenza della globalizzazione che, lasciata a se stessa, produce l’impoverimento del nostro mondo industrializzato e l’arricchimento di quei paesi che una volta erano “terzo mondo”. Ciò non significa che la globalizzazione sia cattiva in sé: come l’immigrazione, è un grande fenomeno socioeconomico che non si fermerà solo perché non ci piace. L’unica strada sarebbe stata quella di governarla, di inventare nuovi modelli sociali in armonia con l’evoluzione planetaria. Ma chi avrebbe dovuto farlo ha clamorosamente mancato l’obiettivo.

La politica in primo luogo: sono anni che si discute di globalizzazione in termini ideologici, come se si trattasse di un nuovo catechismo e senza produrre uno straccio di strategia per affrontare il futuro. Poi il sindacato, e la Cgil in particolare: fino a un certo punto ha saputo elaborare cultura, progetti, visioni ampie della società. Poi ha smesso, congelandosi nella difesa delle proprie conquiste, senza riuscire a interpretare i tempi.

Naturalmente, qualche responsabilità ce l’ha anche il mondo imprenditoriale, che vedrà ridursi progressivamente la capacità del mercato interno di assorbire prodotti che pochi potranno permettersi e assisterà di conseguenza ad una selezione darwiniana delle imprese nazionali. Ma questo, è una constatazione, poco interessa al nuovo manager globale, che si sposterà verso lidi più accoglienti senza rimorso alcuno. È il suo mestiere, e non c’è da scandalizzarsi se lo farà fino in fondo. Certo a Confindustria non piacerà, ma il ruolo delle associazioni imprenditoriali nazionali appare già un residuato storico destinato all’estinzione.

Questo è il quadro generale, ma non si può dimenticare che i protagonisti sono persone in carne ed ossa, e toccherà a loro, incolpevoli, pagare il salatissimo conto. Gli operai Fiat sono i primi, altri seguiranno. Inutile discutere adesso se è bene che abbia vinto il sì o se sarebbe stata preferibile la vittoria del no. Ora bisogna fare in modo che il referendum non abbia conseguenze negative. Marchionne deve fare la sua parte, mantenendo le promesse. Cisl e Uil devono stare all’erta. E il governo dovrebbe vigilare su tutti. La prima delle sue preoccupazioni (ma anche quella dell’azienda e dei sindacati firmatari dell’accordo) dovrebbe essere quella di non escludere la Fiom. Perché la percentuale dei no è stata molto più alta delle aspettative, ma anche perché includere è molto più conveniente che emarginare.

Purtroppo le premesse non sono buone. Nel governo finora ha prevalso la linea del ministro Sacconi, basata su un cieco spirito di rivincita nei confronti dell’odiata Cgil. Gli altri lo hanno seguito. Ora Cisl e Uil potrebbero essere tentate di andare avanti, nella speranza di sottrarre alla Cgil l’egemonia. Ma il rischio è altissimo: se anche riuscissero a erodere consensi al sindacato maggiore, finirebbero comunque per incattivire il dissenso operaio. Le stelle a cinque punte sono già ricomparse sui muri di Torino. Sarebbe bene non contribuire e creare il brodo di coltura per una nuova stagione di piombo, che affonderebbe definitivamente l’economia italiana.

Infine, la politica tutta dovrebbe finalmente elaborare una strategia economica e sociale all’altezza dei tempi: non basta rimasticare le vecchie ricette, bisogna inventarne di nuove. Ma la sinistra, che pure avverte il pericolo, non riesce a uscire dalla lotta intestina che la paralizza, mentre il terzo polo appare immaturo. Eppure è su di loro che grava la massima responsabilità, visto che Berlusconi, tra Ruby e la nuova fidanzata, ha altro per la testa. Speriamo che si sveglino prima che sia troppo tardi.

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