Le mezze misure non bastano

17 Dic 2010

L’economia italiana delude, dice la Confindustria. Purtroppo però non sorprende, è necessario aggiungere. Quella pur bassa crescita che è tornata a farsi vedere in Europa ci sfugge tra le mani come sabbia e deposita solo minuscoli granelli in un Paese in cui la classe politica si occupa prima di tutto di se stessa, con un presidente del Consiglio impegnato, fino a poco tempo fa, a negare la gravità e persino l’esistenza stessa della crisi.

L’Italia detiene poco invidiabili primati come quello della disoccupazione giovanile più alta di tutti i Paesi ricchi, è stata, in questo primo, tormentato decennio del XXI secolo, il fanalino di coda dell’Europa e tornerà solo nel 2015 – come dice il Centro studi della stessa Confindustria – ai livelli economici precedenti la crisi.

L’economia italiana delude chi aveva pensato che, per sostenere il futuro produttivo del Paese, bastassero le aziendine del made in Italy e che il patrimonio tecnologico delle grandi imprese potesse esser tranquillamente lasciato deperire oppure altrettanto tranquillamente venduto all’estero, come è accaduto per elettronica, chimica, farmaceutica e tanti altri settori. Che le ricerche di mercato potessero sostituire la ricerca scientifica. Che un elevato livello di buon gusto potesse prevalere su un mediocre livello tecnologico. Che il Paese potesse avere un futuro trasformandosi in una gigantesca boutique.

L’economia italiana delude chi aveva pensato che tutto potesse aggiustarsi da sé, che la presenza di migliaia di imprese in buona salute, nonostante tutto, fosse una garanzia sufficiente della buona salute dell’intero Paese. Non è così, purtroppo: le imprese in buona salute operano generalmente in settori a bassa produttività e costituiscono una parte complessivamente piccola del totale, mentre i settori a elevata produttività sono assai poco presenti nella Penisola. Per questo, quando si tirano le somme, l’Italia tende ormai a essere superata da quasi tutti i Paesi dell’Ocse.

In quest’Italia che delude tutti sono responsabili di una fetta, grande o piccola, della delusione collettiva. Se la maggiore responsabilità tocca alla classe politica nel suo complesso – opposizioni comprese, quindi – per il suo colpevole estraniarsi dalle vicende di tutti i giorni del Paese, non possono chiamarsi fuori le forze sindacali, gli stessi imprenditori, e più in generale un mondo culturale che si guarda troppo poco attorno. Se ciascuno facesse l’esame di coscienza si accorgerebbe di aver agito con orizzonti miopi, di aver trascurato le esigenze dei giovani, di aver sopportato troppo a lungo ritardi e inefficienze – a cominciare dalle proprie -, di non aver premuto abbastanza fortemente il pulsante dell’allarme.

Purtroppo l’Italia rischia di deludere ancora di più guardando al futuro. L’analisi del Centro studi Confindustria non fa sconti e dice chiaramente che l’attività produttiva rimarrà debole a lungo e che l’orizzonte dell’occupazione è privo di facili speranze di un riassetto rapido. Queste debolezze dovrebbero essere poste sul tavolo del governo: il recupero di tassi accettabili di crescita e il ritorno a tassi accettabili di disoccupazione dovrebbero diventare il requisito essenziale di qualsiasi discorso politico, L’accordo su queste priorità economiche e sui cambiamenti necessari per metterle in pratica dovrebbero costituire una premessa alle intese su maggioranze di governo soltanto aritmetiche, l’inizio e non la fine, spesso distratta e svogliata, dei discorsi programmatici.

Le cose da fare sono molte e tutte piuttosto scomode. Hanno in comune la necessità di mettere sul piatto la rinuncia a posizioni consolidate, alla pretesa di nuove spese pubbliche. Agricoltori e liberi professionisti dovrebbero essere consci di godere di normative fiscali generose (i primi) e di limitazioni alla competitività a proprio vantaggio (i secondi) che si traducono in oneri maggiori per il Paese; il mondo del lavoro dovrebbe percorrere con più coraggio il cammino verso una maggiore flessibilità in cambio di maggiori investimenti; quello delle imprese dovrebbe mostrare maggiore lungimiranza e rischiare di più con capitali propri. Occorre inoltre esigere dal mondo della politica una riduzione consistenti dei suoi costi di funzionamento.

È necessaria una generale «conversione» del Paese, tanto più urgente in quanto le tempeste finanziarie mondiali continuano: per ora ci troviamo in un’area di relativa calma ma potremmo essere chiamati a contribuire finanziariamente alla salvezza del sistema, in maniera proporzionale alle nostre considerevoli dimensioni economiche, a cominciare dall’aumento di capitale della Banca Centrale Europea, reso noto ieri. La solidità di fondo del Paese, dovuta alla presenza di forti risparmi familiari, che compensano un debito pubblico consolidato assai grande ma in crescita lenta, potrebbe non essere sufficiente.

Su queste linee, dal voto di sfiducia mancato di tre giorni fa occorrerebbe passare a un voto di fiducia su un programma che contrasti alla radice i mali strutturali dell’economia italiana. Il problema della maggioranza di governo potrebbe risultare secondario. L’importante è rendersi conto che i piccoli aggiustamenti e le mezze misure non bastano più.

LaStampa.it

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