C’era una volta la politica

10 Nov 2010

La stabilità non è mai stata il forte del sistema politico italiano, ma una volta le grandi scelte venivano fatte. Oggi assistiamo a una politica timorosa, che non sa guardare oltre il tornaconto elettorale suggerito da questo o quel sondaggio, e rinvia ogni decisione per non scontentare nessuno.

Come è difficile per chi è cresciuto nella mia generazione adattarsi a questa politica. A due anni dalle elezioni, dopo un biennio di totale immobilismo, con una recessione economica che non dà tregua, siamo di nuovo alla vigilia di una crisi di governo.
La stabilità non è mai stata il forte del sistema politico italiano, ma una volta le grandi scelte venivano fatte. Oggi assistiamo a una politica timorosa, che non sa guardare oltre il tornaconto elettorale suggerito da questo o quel sondaggio, e rinvia ogni decisione per non scontentare nessuno.

La politica al contrario dovrebbe essere l’arte di fare scelte, individuare delle priorità e perseguirle, anche se nel breve si scontenta qualcuno. Perché il bene ultimo, quello che conta, è la crescita della comunità tutta, è il bene dell’Italia.
È stato detto che oggi sono i numeri a fare la politica. Niente di più sbagliato. I numeri fanno la politica se la politica è così debole da non saper prendersi le proprie responsabilità. Una politica forte agisce e crea le condizioni perché i numeri cambino.
Con un gioco di parole forse un po’ facile, viene da dire che una politica debole “dà” i numeri, mentre una politica con la P maiuscola “fa” i numeri.
Al ministro Tremonti ho più volte riconosciuto il merito di aver saputo tenere ferma la barra del rigore in un governo che altrimenti avrebbe portato allegramente il paese verso il default. Ma non ci si può nascondere dietro una presunta dittatura dei numeri per giustificare la rinuncia a una qualsivoglia iniziativa per superare la crisi. Per poi subire, fra l’altro, come è avvenuto nei giorni scorsi, per ragioni di puro tatticismo politico, l’inserimento in Finanziaria di misure fino a ieri respinte in nome proprio del rigore.

La cartina al tornasole dell’immobilismo di questo governo è stata la riforma fiscale. Nelle scorse settimane, dopo mesi di annunci, è partito il tavolo per quella che viene presentata come la “grande riforma”. Ma ormai è tardi. La nave del governo affonda sotto i colpi di Gianfranco Fini e quei tecnici convocati al tavolo del fisco somigliano davvero all’orchestrina che suona sul ponte del Titanic.

Eppure è passato oltre un anno da quando, dietro la sollecitazione di alcuni miei interlocutori che mi avevano invitato a rendere pubbliche le idee che andavo loro esponendo privatamente, ho lanciato su queste pagine (si veda Il Sole 24 Ore del 12 settembre 2009) la proposta di una draconiana riduzione delle imposte sul lavoro e sulle imprese. Indicavo anche la copertura ovviamente: lo spostamento del peso fiscale verso i grandi patrimoni, una lotta finalmente efficace all’evasione fiscale (non senza proposte concrete su come effettuarla), il taglio degli sprechi della pubblica amministrazione.
Si era in piena crisi, il governo era da poco in carica, e c’era un’intera legislatura davanti. Ma niente, dal governo silenzio assoluto. La dittatura dei numeri? Altrove, si diceva, i numeri li fanno.
Si guardi all’esempio di David Cameron nel Regno Unito. Appena insediato, il suo governo conservatore non ha perso tempo e ha operato un colossale taglio della spesa pubblica e un incremento delle imposte per i più abbienti dal 18 al 28 per cento.
Cameron non ha avuto paura delle reazioni del suo elettorato e ha scelto, perché quello che contava era portare il suo paese fuori dalla crisi. Da noi quel coraggio è mancato e, davanti alla recessione, si è parlato d’altro. Anche dall’opposizione.
Oggi finalmente vedo quelle mie idee riproposte in piani presentati dal Pd, dai sindacati, da autorevoli esponenti del mondo delle imprese. Ma il quadro politico è ormai troppo deteriorato. È chiaro a tutti che non sarà questo governo a fare la riforma. E la crisi continuerà a mordere.
Sarebbe bene, tuttavia, che chiunque abbia l’ambizione di subentrare alla guida del paese non sia reticente su questo punto: per rilanciare davvero l’economia quale progetto fiscale intende proporre? È su questo, infatti, che si giocherà il futuro dell’Italia. Tutto il resto sono aspirine. Solo uno shock fiscale è oggi in grado di scuotere l’economia del paese.
A Palazzo Chigi, al Tesoro, non serve un nuovo registratore di cassa. Se ancora c’è da qualche parte in Italia una buona politica dia un segnale: il suo compito è cambiare la realtà e i destini dei popoli, non sottostare alla presunta, ineluttabile, dittatura dei numeri.

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