Giustizia, le cose che il governo non fa

29 Ott 2010

Che la giustizia in Italia sia a volte imprevedibile ma soprattutto lenta è un dato innegabile. Ma i tempi dei processi penali e delle cause civili non dipendono dall’ordinamento della giurisdizione stabilito dalla Costituzione.

Che la giustizia in Italia sia a volte imprevedibile ma soprattutto lenta è un dato innegabile. Ma i tempi dei processi penali e delle cause civili non dipendono dall’ordinamento della giurisdizione stabilito dalla Costituzione. Dopo avere ragionato sul perché, che cosa e come punire (da quanto tempo non lo si fa?) occorrerebbe anzitutto riformare le procedure. Il codice di procedura penale, a suo modo razionale al suo varo nel 1989, è stato enormemente appesantito da riforme normative e sentenze della Corte Costituzionale che ne hanno fatto una sorta di gioco dell’oca in cui arrivare in fondo è già un successo. Occorrerebbe eliminare formalismi che non aggiungono effettive garanzie per nessuna delle parti in causa e che, complice il gran carico di lavoro degli uffici giudiziari, producono ritardi enormi.
Ma la procedura si è imposta come valore condiviso illudendo i giuristi, compresi quelli che pensano le leggi, sulla sua capacità di rendere tutto obiettivo, misurabile e corretto, quindi giusto: il “giusto processo”. La procedura è diventata un porto rassicurante. Sostituisce egregiamente la mancanza dei valori condivisi che il processo dovrebbe tutelare. E’ questo l’equivoco che suggerisce le inutili complessità che tutti lamentano. Occorrerebbe anche ridurre il numero dei fatti da punire con sanzioni penali, affidando ad una pubblica amministrazione finalmente efficiente il contrasto di violazioni di poco conto.
Di tutto questo il governo Berlusconi non si occupa. La sua “riforma della giustizia”, che stravolgerebbe la Costituzione, prende a pretesto le innegabili disfunzioni ma punta in realtà a confinare l’intervento giudiziario entro limiti più controllabili dal potere politico.
L’ultimo progetto reso noto lascia formalmente intatto il principio della obbligatorietà dell’azione penale introdotto dai Costituenti quale garanzia (almeno potenziale) di uguaglianza di fronte alla legge: nessun pubblico ministero oggi può decidere di omettere un processo solo perché scomodo o difficile o inviso al potere; nessuno può dedicarsi a processare in santa pace i poveri cristi e i meno tutelati.
Quel principio però di fatto è messo in discussione. Tralasciamo i concreti rischi legati alla sottrazione al pubblico ministero della piena disponibilità della polizia giudiziaria (che significherebbe, per fare un solo esempio, l’attrazione della Guardia di Finanza nell’orbita del Ministro dell’Economia).
Se l’azione penale, solo formalmente obbligatoria, fosse esercitata secondo priorità indicate dalla legge il Parlamento, e dunque la maggioranza, avrebbe il potere di decidere quali indagini e processi privilegiare ovviamente a discapito di altri che, sebbene si parli pudicamente di “priorità”, non si faranno nei tempi necessari per evitare la prescrizione. (per non parlare delle conseguenze dell’eventuale “processo breve”).
Ancora più chiara è la (confusa) previsione di un pubblico ministero onorario, evidentemente affiancato ai “togati” secondo una organizzazione da affidare alla operosa fantasia del legislatore. I magistrati onorari sarebbero eletti da un voto popolare (come la Lega chiede da tempo) evidentemente in base a programmi di politica giudiziaria, anche e soprattutto in tema di scelta delle indagini e dei processi da privilegiare.
Con una ulteriore conseguenza: se il pubblico ministero agisce secondo scelte politiche è inevitabile che la sua attività sia valutata secondo criteri politici. Per loro (solo per gli onorari?) dovrà farlo il ministro della giustizia, responsabile davanti al Parlamento. Diventerebbe così coerente con il sistema un controllo del ministro sull’ufficio del pubblico ministero. La proposta di riforma è ancora nebulosa ma segnala la evidente pulsione del governo Berlusconi verso un controllo politico sul pubblico ministero.
Anche il “lodo” Alfano (anche il nome è ingannevole: “lodo” vuol dire accordo, non disaccordo interno anche alla maggioranza) ha bisogno di modifiche costituzionali. Una legge ordinaria, ha stabilito la Corte Costituzionale, non può introdurre le modifiche che interessano il Presidente del Consiglio.
Ma anche una legge approvata con procedura costituzionale di riforma della Costituzione del 1948 potrebbe essere incostituzionale se sacrificasse uno dei principi cardine della Carta (senza i quali la nostra Costituzione sarebbe non modificata, ma tradita) e se comunque prevedesse norme che tutelassero non gli interessi generali e nemmeno quelli di una o più cariche istituzionali, ma quelli privati di una sola persona.
E il “lodo Alfano” viola non solo l’art. 3 della Carta, cardine della Repubblica democratica, ma anche il principio della sovranità popolare (art. 1) tanto spesso evocato a sproposito. L’esercizio della sovranità passa necessariamente per la conoscenza e per l’informazione. Solo se informati i cittadini possono concorrere consapevolmente alla vita pubblica. La sospensione dei processi anche per fatti precedenti e non connessi alla assunzione della carica priverebbe il cittadino del diritto di sapere se chi governa il Paese è colpevole dei reati dei quali è accusato oppure è vittima di un disegno eversivo e di una persecuzione politica. E se lo scudo fosse reiterabile quella persona potrebbe chiedere la rielezione (o l’elezione a Presidente della Repubblica) senza che un punto così importante, almeno in un Paese e per elettori normali, sia pubblicamente chiarito. L’unica sede per questo – in un Paese normale – è il processo, che si svolge con tutte le garanzie e si conclude con una sentenza “in nome del popolo italiano”.
Anche il “processo breve” è su misura per i soli interessi del Presidente del Consiglio. Secondo il testo approvato dal Senato il processo si estingue se non è concluso per i vari gradi di giudizio in tempi certi e prefissati. La norma si applica anche ai processi in corso in primo grado. Il processo Mills, in cui Berlusconi è imputato di corruzione, sarebbe già estinto.
Si prende a pretesto il principio costituzionale sulla “ragionevole durata del processo”, ma è un inganno. “Ragionevole” non può equivalere a “fissata per legge”. La durata è “ragionevole” se è rapportata alla difficoltà e complessità delle prove, al numero degli imputati, alla gravità delle imputazioni.
Un tempo massimo entro cui fare i processi è già previsto dalle norme sulla prescrizione (anche questi accorciati per i comodi del Presidente del Consiglio). Che senso ha introdurre altri termini, ancora più ristretti, se non per l’interesse di uno solo?

* Sergio Materia, socio di LeG, una vita nella magistratura, è stato giudice per le indagini preliminari a Perugia e poi consigliere di corte d’appello a Firenze.

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Leggi anche

Le scuole di Libertà e Giustizia

L’Unione europea come garante di democrazia, pace, giustizia

In vista della legislatura 2024-2029, l’associazione Libertà e Giustizia propone sette incontri - dal 29 febbraio al 23 aprile - sul ruolo del Parlamento europeo e le possibilità di intervento dei singoli cittadini e delle associazioni.

Approfondisci

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.