Patti oscuri, ricatti e depistaggi così lo Stato fu tradito dai suoi servitori

28 Ott 2010

C’è chi ha trattato e c’è chi ha partecipato. Nelle stragi, due sono stati i livelli di commistione fra la mafia e gli apparati di sicurezza. Non è stata solo Cosa Nostra ad uccidere Falcone e a far saltare in aria Borsellino, non è stato solo Totò Riina il macellaio dell’estate siciliana del 1992.

Tutto quello che era rimasto sotto traccia per tanto tempo adesso risale dalle viscere fangose della nostra Italia che ogni primavera e ogni estate celebra solennemente i suoi “eroi”, i due magistrati che un pezzo di Stato voleva morti. Dall’Addaura a via Mariano D’Amelio, passando per Capaci e per un intrico dopo l’altro, quei misteri di Palermo che hanno segnato un quarto di secolo di strategia della tensione. Bombe. Bombe nella frontiera più lontana e inafferrabile, la Sicilia. Tutto quello che era rimasto nell’oscurità ora viene fuori. Patti. Ricatti. Scambi. Protezioni. E poi, poi i morti più eccellenti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È stato l’atto finale.

Paolo Emanuele Borsellino, procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, è stato assassinato cinquantasei giorni dopo il direttore generale degli Affari penali della Giustizia Giovanni Falcone. Neanche due mesi, 23 maggio e 19 luglio. Neanche due mesi erano trascorsi dal “botto” sull’autostrada, neanche due mesi e la Cosa Nostra di Corleone  –  secondo quanto è stato raccontato e spacciato per anni  –  ha deciso praticamente di “suicidarsi” con un altro clamoroso attacco allo Stato. “La verità è che Totò Riina è stato giocato, è stato messo nel sacco da qualcuno”, ci hanno confessato alcuni investigatori qualche mese fa mentre indagavano sui primi coinvolgimenti dei servizi nelle stragi siciliane. Qualcuno che ha spinto i boss corleonesi  –  la mafia più violenta che si fosse mai vista  –  a dichiarare guerra aperta allo Stato. Come è andata a finire, lo abbiamo capito poi: Totò Riina e i suoi usati alla bisogna e poi scaricati, mandati avanti con il tritolo e poi seppelliti per sempre nei bracci del 41 bis.

La vicenda che sfiora o si abbatte su Lorenzo Narracci è soltanto una, è solo uno dei tanti “episodi” che hanno marchiato la spaventosa escalation della strategia della tensione siciliana. Iniziata con i delitti politici nei primi Anni Ottanta  –  Mattarella, La Torre, Reina, dalla Chiesa, Costa, Terranova, Chinnici, per citarne solo alcuni  –  e messa in scena in tutta la sua perfezione nel giugno del 1989 sugli scogli dell’Addaura. Fu allora, ma lo abbiamo scoperto solo oggi, che cominciarono a intravedersi sui luoghi delle stragi quelle “presenze estranee” a Cosa Nostra. All’Addaura i boss portarono l’esplosivo accompagnati da altri personaggi, “uomini dei servizi”. Chi scoprì la trappola di Stato fu ucciso. Due poliziotti: Nino Agostino ed Emanuele Piazza. “Emanuele mi disse che in quell’attentato c’entrava la polizia”, ha rivelato a Repubblica appena qualche giorno fa Gianmarco Piazza, il fratello di Emanuele. Per vent’anni non aveva parlato perché aveva paura, perché avrebbe dovuto confidarsi proprio con quegli investigatori che  –  secondo il fratello  –  erano coinvolti nell’attentato a Falcone.

Un’altra storia sembra Capaci, ma è sempre la stessa storia. Con le impronte dei funzionari del servizio segreto civile sparse sul luogo della strage (appunti dei cellulari di Narraci), con i depistaggi a seguire, con gli identikit dei sicari che non si trovano più, con le carte dell’inchiesta sepolte sotto lo sterco dei topi e corrose dall’umidità. Un’altra storia sembra via Mariano D’Amelio, ma è sempre la stessa storia. Con una squadretta di agenti appostata su Castel Utvegio, proprio sopra la strada della morte. Con i tabulati di Gaetano Scotto  –  il boss dell’Arenella che teneva i rapporti fra le “famiglie” e gli 007  –  scomparsi dal fascicolo processuale. Con le agende sparite, per esempio quella rossa che Paolo Borsellino portava sempre con sé e che mai più si è ritrovata. In ogni strage siciliana hanno lasciato il loro odore quelli là, hanno lasciato il tanfo i “soggetti esterni”, gli spioni.
Che cosa si scoprirà ancora è difficile intuirlo. Ma se è vero che Totò Riina è stato il mafioso che ha scatenato la guerra allo Stato italiano alla fine del secolo scorso, è ormai abbastanza certo che non ha fatto tutto da solo. Molto probabilmente il boss di Corleone non parlerà mai. E se ne andrà nella tomba da sconfitto. Consapevole di avere fatto la fine del sorcio: utilizzato fino a quando serviva, latitante fino a quando faceva comodo, potente fino a quando qualcuno lo convinse  –  prendendolo in giro- che avrebbe risolto tutti i suoi problemi mettendo quelle bombe.

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