Il potere invisibile: l’evoluzione della corruzione

15 Ott 2010

Corruzione, concussione, malversazione, peculato sono alcune tra le forme che assume il potere che si rende invisibile. Sono attività illegali, che per definizione devono essere tenute nascoste, nei loro moventi e per quanto possibile anche nei loro contenuti. Ma questo va a intaccare uno dei principi fondamentali della democrazia, quello appunto di trasparenza

Spesso si sente parlare dei costi della corruzione. Quasi ogni anno la corte dei conti, nella sua relazione annuale, fa una stima di quanto la diffusione di corruzione gravi sulle tasche dei cittadini. Proprio in coincidenza con il 18° anniversario di mani pulite, il 17 febbraio di quest’anno, nella sua relazione il Procuratore generale ha assimilato la corruzione a una tassa occulta di 50-60 miliardi di euro annui. Ma la corruzione ha altri tipi di costo, impossibili da calcolare e quantificare in termini economici. C’è infatti un costo politico e sociale della corruzione.

Nel titolo del mio contributo ho voluto inserire un riferimento al rapporto tra potere invisibile e corruzione per richiamare il pensiero di Norberto Bobbio. In un suo lavoro del 1980, “la democrazia e il potere invisibile”, Bobbio individuava nel persistere di aree di opacità nell’esercizio del potere pubblico, e dunque di incontrollabilità e di arbitrio, uno tra i più gravi insuccessi, tra i fallimenti più insidiosi della democrazia. Corruzione, concussione, malversazione, peculato sono alcune tra le forme che assume il potere che si rende invisibile. Sono attività illegali, che per definizione devono essere tenute nascoste, nei loro moventi e per quanto possibile anche nei loro contenuti. Ma questo va a intaccare uno dei principi fondamentali della democrazia, quello appunto di trasparenza, che implica – lo dice Bobbio – visibilità, conoscibilità, accessibilità, e quindi controllabilità degli atti di chi detiene il potere pubblico. Perché senza quella visibilità, senza quelle informazioni, l’opinione pubblica diventa inerme, i cittadini tornano ad essere sudditi.

Si può generalizzare il discorso di Bobbio, prima di scendere nei dettagli del caso italiano. Un sistema politico ad alta densità di corruzione intacca alla radice il vincolo di fiducia che lega i cittadini alle istituzioni rappresentative e le legittima. La corruzione, in altri termini, non scava soltanto voragini nei bilanci pubblici, ma produce un grave deficit di democrazia. In termini pratici, perché va a falsare la competizione elettorale che della democrazia è il meccanismo procedurale per eccellenza, visto che assegna risorse addizionali e un vantaggio concorrenziale proprio ai meno onesti, ai più spregiudicati e abili nel reinvestire le tangenti nelle campagne elettorali e nella costruzione delle loro reti clientelari.

Ma il deficit democratico prodotto dalla corruzione implica anche la violazione di valori democratici fondamentali: il principio di trasparenza, come sottolineava Bobbio, perché il potere corrotto è per sua natura e necessità opaco, si ritrae nell’ombra, confonde e mistifica. Ma anche il principio di uguaglianza viene intaccato dalla corruzione. Non c’è uguaglianza nel diritto dei cittadini di accedere ai benefici che derivano dall’azione dello stato in un sistema ad alta densità di corruzione, dove al contrario regnano l’arbitrio e l’imprevedibilità, visto che per conquistare posizioni di privilegio e di rendita non occorrono i requisiti previsti dalle regole dello stato di diritto, ma la posizione che i corrotti e corruttori sono in grado di ritagliarsi nel reticolo di amicizie, legami trasversali, ambigui rapporti d’affari in cui si inseriscono, sia quello della P3 o della cosiddetta Cricca della protezione civile.

Il tema che vorrei affrontare qui è: qual è stata l’evoluzione della corruzione nell’era berlusconiana dimensione pubblica di questo fenomeno? La corruzione, sia chiaro, ha per sua natura un andamento carsico. Basandosi su scambi occulti è un fenomeno sotterraneo, che sfugge alle rilevazioni oggettive, sebbene riemerga ciclicamente in superficie, almeno per qualche tempo, in corrispondenza di qualche scandalo. E quando questo accade lascia spesso una sensazione di deja vù, come quando il 18° anniversario di mani pulite viene festeggiato con l’arresto di un amministratore milanese in flagranza di reato, che cerca disperatamente di disfarsi della tangente.

C’è però approssimazione o nel peggiore dei casi disinformazione nel modo con cui si parla di corruzione. Pochi mesi fa, negli stessi giorni in cui impazzavano le intercettazioni per lo scandalo della protezione civile, i giornali titolavano che tra il 2009 e il 2008 “la corruzione è cresciuta del 229%” perché la corte dei conti ha acquisito più del doppio di denunce da una serie di fonti eterogenee. Seguendo l’impressione suscitata dagli scandali, anche l’attenzione dei mezzi di comunicazione segue un proprio andamento ciclico, così come ondivago è l’interesse dell’opinione pubblica verso questo temi. Sono così possibili e legittime letture opposte. Può persino accadere che l’organismo cui oggi viene istituzionalmente delegata a livello nazionale l’azione di contrasto alla corruzione – il Saet – spenda diverse pagine del proprio rapporto annuale per dimostrare che in fondo la corruzione in Italia non è questo gran problema. E alla fine passi l’idea che in fondo oggi in Italia la corruzione non è una questione di rilevanza pubblica, ma solo un tema sollevato dai soliti anti-italiani, che emerge a seguito dei tentativi di qualche associazione a delinqueeregiudice “talebano” di sovvertire il responso delle urne.

Quello che vorrei fare qui è presentare brevemente alcune riflessioni sulla realtà nascosta della corruzione in Italia, incrociando tra di loro le informazioni che si possono ricavare da fonti diverse. Una specie di “fotografia” – un po’ sfocata, forse, ma realistica – di questo fenomeno che oggi in Italia, a diciotto anni dall’inizio di mani pulite che ne ha segnato una sorta di “nascita” ufficiale nella percezione dell’opinione pubblica, è diventato finalmente maggiorenne. E per cercare di capire quali trasformazioni o linee di frattura abbiano caratterizzato in questi ultimi diciotto anni l’universo nascosto della corruzione italiana

Per spiegare il passaggio dalla “vecchia” alla “nuova” corruzione è necessario farsi prima un’idea delle sue dimensioni e caratteristiche attuali e passate. Qui cominciano i problemi, perché al pari di altri “crimini senza vittime” – o meglio, di altri crimini dai costi sociali diffusi, cioè con moltissime vittime inconsapevoli – lo scambio corrotto, quando si realizza con successo, non lascia tracce visibili: nessuno ha interesse a denunciarla, non c’è un “corpo del reato”.

Le statistiche giudiziarie, come quelle citate dalla Corte dei conti, forniscono così un quadro molto parziale, lasciando affiorare solo la punta di un iceberg le cui dimensioni subacquee rimangono ignote. Esse ci forniscono un indicatore dell’ampiezza della “corruzione perseguita”, e dunque del grado di impegno e di successo degli organi di contrasto nel far fronte a questo genere di reati. La linea di tendenza è netta. Secondo fonti Istat la quantità di persone coinvolte e reati denunciati per corruzione e concussione, esplosa nel 1992, è in costante diminuzione dopo il picco raggiunto nel 1995, quando ci sono stati quasi 2.000 crimini e oltre 3.000 persone denunciate. Nel 2006, ultimo anno per il quale si hanno dati omogenei disponibili, i numeri sono ridotti di circa un terzo per i crimini, della metà per le persone. I dati del ministero dell’interno presentati dal Saet, che comprendono una gamma più estesa di crimini (abuso d’ufficio, peculato, frode nelle forniture pubbliche, ecc.), mostrano che il trend discendente prosegue fino ai nostri giorni: da 3.400 reati e 12.400 persone coinvolte del 2004 si passa a 1.300 reati e 5.500 persone del primo semestre 2009. Si tratterebbe presumibilmente del livello più basso di “corruzione svelata” dal 1992.

Lo stesso andamento, come prevedibile, caratterizza il numero di condanne per reati di corruzione. Anche in questo caso si passa da un massimo di oltre 1700 condanne per reati di corruzione nel 1996 alle appena 239 del 2006, con una caduta verticale che si accentua a partire dal 2001. In alcune regioni la discontinuità diventa vero e proprio tracollo: da 138 condanne nel 1996 a 5 nel 2006 in Sicilia; da 545 a 43 in Lombardia; da 19 a nessuna in Calabria: regione quest’ultima nella quale, come noto, la corruzione è ormai virtualmente sradicata.

Un altro termometro utilizzabile per stimare la diffusione della corruzione è fornito da sondaggi e rilevazioni statistiche, basati su percezioni ed esperienze dirette degli intervistati. Anche in questo caso le rilevazioni sono convergenti. Da oltre un decennio si accentua la sensazione generalizzata di una nuova “età dell’oro” per la corruzione italiana. Tra il 2005 e il 2008, secondo Eurobarometro, la percentuale di cittadini italiani che ritengono la corruzione un problema rilevante è cresciuta dal 75 all’84 per cento, l’89 per cento ritiene queste pratiche piuttosto frequenti nel governo nazionale e nelle istituzioni, il 10 per cento ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza di vedersi chiedere od offrire una tangente. Secondo un sondaggio Eurobarometro dedicato alla sola corruzione, pubblicato alla fine del 2009, la percentuale di cittadini italiani che hanno vissuto in prima persona l’esperienza della corruzione sale addirittura al 17 per cento, una tra le più alte in Europa – la media europea è del 9%.

Questa sensazione pessimistica trova piena conferma nei dati forniti di Trasparency International, l’Ong internazionale per la lotta alla corruzione il cui annuale Corruption perception index, fondato sulle opinioni di osservatori privilegiati secondo le analisi di 13 diverse organizzazioni indipendenti, è utilizzato nella ricerca scientifica come il più affidabile indicatore della reale diffusione del fenomeno. Se il punteggio di 10 corrisponde alla perfetta trasparenza e 0 alla completa corruzione, l’Italia con il 4,3 del 2009 totalizza il punteggio peggiore dell’ultimo decennio. Dalla prima rilevazione del 1995 un baratro separa l’Italia dalle altre democrazie, una distanza che oltretutto si va allargando, in una classifica dove tradizionalmente svettano per trasparenza i paesi scandinavi, Nuova Zelanda e Singapore. C’è stato un effimero miglioramento tra il 2000 e il 2001, dopo di che le percezioni relative al caso italiano si sono fatte sempre più cupe, con un crollo dal 41esimo posto del 2006 al 63esimo del 2009. Per quel che vale la comparazione internazionale, l’Italia oggi è considerata un paese nel quale il ricorso alle tangenti è agli stessi livelli dell’Arabia Saudita, e più frequente rispetto a Cuba, Turchia, Namibia, Malesia,Giordania, Botswana. Soltanto Grecia, Bulgaria e Romania totalizzano un punteggio peggiore in Europa. Il segnale per gli investitori internazionali è chiaro. E’ chiaro che nessun imprenditore, per quanto benintenzionato, vorrà rischiare infatti propri capitali in un contesto nel quale mazzette, nepotismi, relazioni improntate al do ut des, contatti personali sono la chiave per il successo nei mercati pubblici? Che il pessimismo sia ormai molto radicato lo attestano anche i sondaggi periodici di Corruption barometer, curati da Transparency International: se nel 2005 il 41 per cento degli italiani prevedeva una crescita della corruzione nei successivi tre anni, contro appena un 12 per cento di ottimisti, nel 2007 questa percentuale è schizzata al 61 per cento.

Una fonte ulteriore di informazioni sulla corruzione è costituita dai mezzi di comunicazione, che però – a parte i casi eccezionali, almeno in Italia, di giornalismo d’inchiesta – si limitano a “filtrare” notizie di procedimenti giudiziari in corso, rendendo così visibile anche al pubblico almeno un “pezzetto” di quell’iceberg che è la corruzione. Su questo versante le pochissime rilevazioni disponibili sembrano confermare un dato familiare a chiunque abbia prestato orecchio, negli ultimi anni, a quanto proviene dal sistema dei media. La “grande abbuffata” di mani pulite, quei pochi mesi nei quali televisioni e giornali hanno affondato generosamente il coltello nella malapianta della corruzione, è stata seguita a partire dalla metà degli anni novanta da una rapida “normalizzazione” dell’offerta di notizie. Tra il 92 e il 94 in media ogni anno la stampa – secondo le ricerche di Franco Cazzola – ha presentato al pubblico 220 episodi di corruzione; scesi a 88 nel biennio successivo, a 44 tra il 97 e il 2000. Negli ultimi due anni siamo a 29 casi appena, quasi un decimo appena di quelli di mani pulite, ma appena un terzo di quelli emersi tra il 1989 e il 1992. Nell’ultimo decennio il problema della corruzione, al di là di alcune episodiche e circoscritte fiammate, è pressoché scomparso dall’orizzonte del sistema di comunicazione, si è smaterializzato. Quando si è parlato di corruzione di norma ciò è accaduto in via incidentale, come elemento che concorreva rinfocolare le tensioni irrisolte tra classe politica e magistratura. Questo sicuramente è imputabile ai meccanismi di condizionamento politico dell’informazione, ma forse anche all’innalzarsi della “soglia di scandalizzazione” del pubblico, ormai abituato – o indotto – a intravedere dietro qualsiasi indagine il sospetto di una strumentalizzazione politica.

Combinando i sentieri evolutivi di queste “tre facce” della corruzione – meno corruzione perseguita e presentata al pubblico, ma il fenomeno è percepita – e vissuto – in crescita – se ne ricavano alcune indicazioni.

Primo, se la percezione della corruzione e i sondaggi sulle esperienze dirette rispecchiano l’ammontare della sua pratica effettiva, la corruzione cresce negli stessi anni in cui si esaurisce la spinta propulsiva delle inchieste, e tanto incriminazioni che condanne diventano eventi sempre più rari. Ciò significa che negli ultimi dieci anni si è allargata la forbice tra corruzione praticata e corruzione denunciata, è lievitata la “cifra oscura” della corruzione, l’ammontare di reati portati a compimento con successo. Di qui la rinnovata sensazione di impunità per i suoi protagonisti, confermata dal tono delle conversazioni nelle intercettazioni telefoniche rese pubbliche. Di una “sindrome di impunità”, ad esempio, parlano i giudici fiorentini nell’ordinanza di custodia cautelare per lo scandalo della protezione civile. E così l’aspettativa di avere ottime probabilità di farla franca incoraggia l’adesione di imprenditori e faccendieri vari a questo sistema chiuso e oligarchico di scambio, in grado di assicurare alla ristretta cerchia di beneficiari rendite generose. Nel caso dei contratti pubblici, a titolo di esempio, l’extra-profitto generato dalla corruzione ammonterebbe mediamente a circa il 40-50 per cento del valore del contratto, come mostrano concordemente le prime risultanze dell’inchieste sulle opere emergenziali, la comparazione tra i prezzi degli appalti milanesi pre e post-mani pulite, il confronto tra il costo di opere pubbliche inquinate dalla corruzione ed equivalenti realizzazioni in terra straniera. Di questa rendita la quota-tangente versata a politici e burocrati oscilla intorno al 5-6 per cento, un po’ di più nel caso di appalti di servizi. Il dato aritmetico spiega lo sgomitare di faccendieri, aspiranti appaltatori e fornitori che si addensano attorno ai centri di spesa pubblica, nonché la loro piena disponibilità ad assecondare qualsivoglia esigenza economica, familiare e persino sessuale dei loro interlocutori pubblici.

Secondo punto, la percezione generalizzata di una corruzione rampante non sembra scaturire dalla copertura mediatica degli episodi emersi. Al contrario, la scarsa salienza del tema nei mezzi di comunicazione è inversamente proporzionale alla sfiducia sull’onestà dei politici e degli amministratori. Una spiegazione è che, nonostante il silenzio delle fonti ufficiali di informazioni, i canali informali di comunicazione e le esperienze dirette abbiano plasmato la percezione di un clima di illegalità diffusa.

Terzo punto, il crollo di attenzione giornalistica dei confronti degli scandali è stato in proporzione ancora più marcato rispetto alla riduzione dei procedimenti giudiziari avviati. Qui pesa la sordina imposta sui casi scomodi dal “nuovo ordine” televisivo e mediatico. Probabilmente ha influito anche una sorta di effetto saturazione che, dopo la sovraesposizione di mani pulite, ha alzato il livello di tolleranza pubblica di “modiche quantità” di corruzione. Si è smorzato così il potere deterrente che la semplice esposizione al sospetto della corruzione esercitava sulla classe politica, suscitando un giudizio pubblico – e una sanzione politica – ancor più temuto della sanzione penale per il suo effetto distruttivo sulla reputazione. C’è poi da considerare la distorsione cognitiva indotta dall’ormai quindicennale campagna assolutoria volta a minimizzare le ricadute del coinvolgimento di Silvio Berlusconi – nelle vesti di capo del governo o di leader dell’opposizione – in inchieste per reati di corruzione o affini. I procedimenti non sono mai arrivati a sancirne la colpevolezza, ma sono comunque bastati a spostare buona parte del pubblico verso una chiave interpretativa delle notizie di corruzione che finisce per associarle per default all’azione di magistrati irresponsabili e politicamente schierati.

Quarto punto, se confrontiamo il dato italiano con quello europeo sulla percezione della rilevanza del problema corruzione la quota di “allarme sociale” è alta – nel 2009 l’83% per cento ritiene la corruzione un problema importante, una percentuale in lieve calo dall’84% dell’anno precedente, proprio mentre la percezione della presenza di corruzione lievitava – ma praticamente in linea con la media europea, che è del 78%; invece il dato sulle esperienze dirette di corruzione è in Italia praticamente il doppio di quello europeo: il 17% contro il 9%. Questo ci dà un indicatore indiretto del fatto che in Italia è relativamente maggiore rispetto agli altri paesi europei il grado di assuefazione, abitudine, ovvero rassegnazione alla corruzione. Siamo diventati bravi a convivere con la corruzione, proprio come un ministro delle infrastrutture, pochi anni fa, invocava la necessita di “convivere con la mafia”. Alla fin fine c’è una tolleranza sociale molto superiore rispetto agli altri paesi europei: pratichiamo la corruzione in media molto più degli altri, ma la riteniamo un problema pressoché alla pari rispetto agli altri paesi.

Riassumendo, lo scenario è quindi quello di una corruzione ancora capillare e sempre più spesso impunita, in un contesto nel quale la scarsa attenzione dei media si accompagna a una sfiducia generalizzata verso l’onestà dell’intera classe politica. Affiorano però alcuni elementi di differenziazione tra “nuova” e “vecchia” corruzione, almeno a giudicare dalle risultanze delle inchieste.

In primo luogo, attraverso due processi paralleli – di selezione e di apprendimento – si sono modificate le caratteristiche individuali di una parte della “fauna” operante nel sottobosco della corruzione.

Il giudice Davigo ha utilizzato una metafora molto efficace per descrivere questo processo: la lotta alla corruzione induce una sorta di processo di evoluzione naturale. Gli organi di controllo, la stessa magistratura, hanno svolto nel corso degli anni ‘90 una funzione analoga a quella dei predatori in natura, eliminando corrotti e corruttori “meno abili” e inducendo così un miglioramento progressivo della capacità adattiva e predatorie di corrotti e corruttori superstiti nel nuovo ecosistema politico-amministrativo.

C’è poi un processo di apprendimento. Si può osservare l’applicazione da parte dei corrotti di tecniche sempre più raffinate per minimizzare razionalmente il pericolo di incorrere in controversie, o di sollevare le attenzioni degli organi di controllo. Si utilizzano metodi più sicuri ed efficaci di ripartizione dei profitti. Le “tangenti pulite” – così battezzate in un’intercettazione telefonica di pochi giorni fa – possono assumere diverse forme, a seconda dei ruoli istituzionali e della spregiudicatezza dei beneficiari. Tanto per citarne alcune: la gestione tramite uomini di fiducia di conti “chiavi in mano” in paradisi fiscali, sui quali dirottare bonifici estero su estero; l’intestazione a prestanome o familiari di società fornitrici di improbabili consulenze ad enti pubblici; l’erogazione di prestazioni “in natura”; le partecipazioni societarie incrociate, come camera di compensazione per la suddivisione dei proventi illeciti; le diluizione nel tempo dell’erogazione delle contropartite, così da allontanare il sospetto che di merce di scambio si tratti; l’assunzione fittizia di congiunti. “Imparata l’arte” della corruzione, i nuovi protagonisti operano professionalmente evitando il rischio di intercettazioni (basta utilizzare skype), o magari cancellando la valenza penale del reato, attraverso la privatizzazione della forma giuridica degli enti che gestiscono le procedure e assegnano i contratti, come si è cercato di fare con la stessa Protezione civile Spa, o creando situazioni di conflitto di interessi, che in questi anni si sono moltiplicate anche a livello locale. Vale la pena rammentare che, nonostante le raccomandazione dell’Unione Europea e le disposizioni della Convenzione anticorruzione del Consiglio d’Europa, la corruzione tra soggetti privati ancora non rientra tra i reati perseguibili secondo l’ordinamento italiano, mentre sulla serietà della regolazione italiana del conflitto di interessi è meglio stendere un velo pietoso. Per inciso, la presenza di situazioni di conflitto di interessi alimenta una forma di corruzione invisibile e – almeno in Italia – non rilevabile e penalmente perseguibile, nella quale il corrotto e il corruttore coincidono nella medesima persona: la tangente non passa di mano in mano, ma dalla tasca destra a quella sinistra (o viceversa) del medesimo soggetto, nella sua duplice veste di amministratore pubblico e portatore di interessi privati. Se, ad esempio, il governo e le società controllate dal tesoro decidono di aumentare, a partire dal 2008, di 13 milioni di euro la pubblicità istituzionale che va alle reti Mediaset, non ci sarà alcuna tangente a sancire l’asservimento al profitto della società del Presidente del consiglio delle funzioni pubbliche esercitate, sebbene la logica e gli effetti di tali decisioni siano le stesse di quelle derivanti dalla corruzione.

La “nuova” corruzione presenta un elemento chiave di continuità rispetto a quella “vecchia”, svelata con grande scandalo all’inizio degli anni novanta. E’ ancora una corruzione sistemica. E’ una corruzione nella quale le scelte, le condotte, gli stili, le movenze degli attori sono incardinati entro copioni prefissati, seguono regole codificate, assecondano moduli familiari. E’ una corruzione regolata. Non si tratta di un mercato caotico e disorganizzato. Al contrario, appaiono tuttora in vigore – proprio come nelle storie svelate da di mani pulite – norme di comportamento che realizzano alcune funzioni cruciali: facilitano l’identificazione di partners affidabili; differenziano i ruoli nelle aggregazioni di corrotti e corruttori; accrescono i profitti attesi dei processi decisionali, attenuano l’eventuale “disagio psicologico” dell’illegalità; emarginano o castigano onesti e dissenzienti; socializzano i nuovi entrati alla “legge” della corruzione. La “norma costituzionale” dell’invisibile ordinamento giuridico della corruzione sistemica sancisce l’ineluttabilità della tangente in cambio di qualsiasi “risorsa” di un qualche valore sia ottenibile dalla struttura pubblica: appalti, licenze, concessioni, accelerazione di passaggi procedurali, informazioni riservate, controlli addomesticati, mancata contestazione di illeciti, in una casistica sterminata che si sovrappone all’intera gamma di attività pubbliche. Ad essa si accompagna poi un vasto corollario di regole che fissano lo spettro di condotte accettabili e i meccanismi redistributivi delle rendite, automatici e sottratti a pericolose negoziazioni. Sono regole che stabiliscono come si ripartiscono le tangenti, quello che si può dire e quello che si può fare. Chi partecipa al gioco della corruzione sistemica sa a quali interlocutori rivolgersi e la loro attendibilità, quali codici linguistici utilizzare, le percentuali, i parametri di spartizione o i criteri di rotazione tra imprese o partiti cartellizzati.

E’ proprio il ruolo dei partiti a mutare in questo scenario. La crisi dei partiti della “prima repubblica” è stata indotta dal coinvolgimento della loro classe dirigente nelle inchieste giudiziarie, ma anche da una loro endogena debolezza, causata anche dalla balcanizzazione in fazioni autonome, anche dal punto di vista della gestione contabile, che si erano aggregate intorno ai boss più abili e spregiudicati nel reinvestire i proventi della corruzione nella competizione intra-partitica. Oggi, in caso di controversie o crisi interne – sempre possibili specie in tempi di “vacche magre”, quando dai bilanci pubblici è più difficile spremere le rendite da spartire – la corruzione sistemica non può più trovare quale sponda di pacificazione il “foro arbitrale” dei partiti che invece, fino a mani pulite, incameravano nelle proprie strutture amministrative una quota di tangenti proprio in cambio di questi servizi di regolazione.

Se i partiti loro malgrado si defilano, nuove figure di garanti subentrano però a regolare il funzionamento delle arene decisionali dove la corruzione è di casa. Quella che emerge nelle inchieste degli ultimi anni, in altre parole, non è una corruzione gelatinosa o liquida, come l’hanno definita commentatori e inquirenti per contrapporla a quella del passato, strutturata intorno all’obolo coatto versato dalle imprese ai partiti. Dura ancora, è vero, la capacità degli scambi corrotti di permeare ogni interstizio dei processi decisionali – dalle micro-tangenti all’usciere ai maxi-pagamenti per gli appalti milionari – in quegli assetti organizzativi dove l’illegalità diventa regola. Ma è ancora una corruzione “solidamente” regolata, dove a seconda dei contesti il ruolo di garante del rispetto delle “regole del gioco” è ricoperto da attori diversi, tramite l’impiego di risorse politiche, di reputazione, coercitive o economiche: l’alto dirigente ministeriale oppure il faccendiere ben introdotto, l’assessore, il “boss dell’ente pubblico” o l’imprenditore dai contatti trasversali, il capofamiglia mafioso o il leader politico. Ponendosi negli snodi cruciali delle nuove reti di corruzione, questi soggetti assicurano l’adempimento degli impegni, prevengono tensioni e attriti sull’osservanza delle norme, creano in ultima analisi condizioni per l’impermeabilità del sistema ad intrusioni esterne e per la sua capacità di assorbire dissidi interni. Questo è precisamente il ruolo della mafia nella regolazione del mercato della corruzione. Come ha efficacemente sintetizzato il dipendente di una grande impresa del nord, scesa al sud a caccia di appalti: “Il sistema degli appalti funziona in Sicilia esattamente come funziona nel resto d’Italia. Solo che in Sicilia c’è più disciplina. Perché ogni tanto ci scappa il morto, e la disciplina ne è la conseguenza”.

Molta attenzione è stata prestata a diverse macro-cause della corruzione italiana – dall’eccesso di regolazione formale ai costi della politica. Occorre però dare il giusto peso anche ai perduranti meccanismi di “autogoverno” interno di queste “reti di corruzione”. Nella realtà politico-amministrativa pesa infatti l’eredità di una storia pluridecennale di corruzione pervasiva, che ha sviluppato prassi, modelli di condotta, competenze di illegalità e criteri di legittimazione, condensando i principi di una vera e propria “cultura della corruzione”, come quella descritta dall’economista Gunnar Myrdall in Asia negli anni sessanta, col suo retaggio di (dis)valori ben radicati nell’intera classe dirigente.

Naturalmente ha pesato, e molto, anche l’amnesia della classe politica. Le tanto invocate – almeno negli anni novanta – politiche anti-corruzione sono sfociate in pochi provvedimenti dal blando valore simbolico, indotti dal recepimento tardivo di convenzioni internazionali. La massima espressione, anche a livello simbolico, del fallimento delle politiche anticorruzione è l’istituzione di un Alto Commissario per la lotta alla corruzione ad opera del secondo governo Berlusconi, con una dotazione irrisoria di risorse, poteri inconsistenti e per giunta posto “alla dirette dipendenze funzionali” del Presidente del consiglio. Un ente anticorruzione alle dipendenze del potere politico, si converrà, non è propriamente il massimo in termini di garanzie d’autonomia. A scanso di equivoci nel 2008 l’Alto commissario è stato abolito, sostituendolo con un ancor più modesto – nella dotazione di risorse, ma anche nelle ambizioni – Servizio anticorruzione e trasparenza, stavolta alle dipendenze del Ministro della funzione pubblica.

Table 1: Major direct anti-corruption and potentially ‘corruption enhancing’ measures in Italy: 2000-2010 (source: updated from Vannucci 2009).
Cabinet Anti-corruption measures Current status Potentially ‘corruption enhancing’ measures Current status
Amato II (centre-left) – April 2000-June 2001 Law n. 300/2000 – ratification of the 1997 EU Convention against corruption of European Community functionaries and of the 1997 OECD Convention against corruption of foreign public officials. Still in force.
Law n. 97/2001 – relationship between penal sanctions and disciplinary sanctions for public officials involved in corruption-related and other crimes. Still in force; ruled partly unconstitutional in May 2002, July 2002 and June 2004.
D.lgs. 231/2001 – administrative responsibility of firms and associations for corruption-related and other crimes. Still in force.
Berlusconi II (centre-right) – June 2001-April 2005 Law n. 15/2003 – institution of a ‘High Commissioner for the Prevention of Corruption’ Abolished by law n. 133/2008. Law n. 367/2001 – restricts admissibility, in criminal proceedings, of evidence gathered abroad. Still in force.
Law n. 61/2002 – reform of corporate law, decriminalising false accounting. Still in force.
Law n. 248/2002 (Cirami) – transfer of judicial proceedings from one court to another in cases of ‘legitimate suspicion’ of lack of impartiality. Still in force.
Law n. 140/2003 (Lodo Schifani) –immunity for holders of the five highest offices of state, including Prime Minister; requirement of parliamentary authorisation of prosecutors’ collection of evidence of members’ crimes and imposition of restrictive measures. Still in force; immunity of five highest office-holders ruled partly unconstitutional in January 2004; articles providing for destruction of evidence of parliamentarians’ crimes in cases of denial of authorisation ruled unconstituional in October 2007.
Berlusconi III (centre-right) – April 2005-June 2006 Law n. 251/2005 (ex-Cirielli) – reduction of time limits stipulated by the statute of limitations for many crimes (including corruption). Still in force; ruled partly unconstitutional in June 2006, October 2006, March 2007.
Law n. 46/2006 (legge Pecorella) –impossibility for public prosecutors to appeal against acquittals in corruption-related and other cases. Still in force; ruled partly unconstitutional in January 2007, July 2007, March 2008, April 2009, October 2009.
Prodi II (centre left) – June 2006-May 2008 Law n. 241/2006 (indulto) – reduces by 3 years penalties imposed for corruption-related and other crimes committed up to and including 2 May 2006. Still in force.
Berlusconi IV (centre-right) – since May 2008 Law n. 133/2008 – institution of SAET – the Anti-corruption and Transparency Service. Still in force. Law n. 124/2008 (Lodo Alfano) – penal immunity for holders of four highest offices of state, including Prime Minister. Ruled wholly unconstitutional in October 2009.
Law n. 15/2009 – institution of the Committee for the evaluation, transparency and integrity of public administrative bodies. Still in force.
Law n. 116/2009 – ratification of the 2003 UN Convention against corruption Still in force.
Law n. 102//2009 (scudo fiscale) – possibility to regularize until December 2009 financial assets hidden abroad, even if deriving from illicit activities, condoned with a 5% tax on their value. Extended by law-decree 194/2009 until April 2010.
Law n. 51/2010 (legittimo impedimento) – possibility for Premier and Ministers to suspend their participation in trials as defendant invoking unilaterally a legitimate impediment Still in force

Eppure la ricetta di qualsiasi efficace politica anticorruzione è nota da tempo, e si fonda su tre pilastri: concorrenza nell’allocazione dei benefici che derivano dall’azione dello Stato, trasparenza dei processi decisionali, controlli di prodotto e non di processo. Ispirandosi a questi principi nel lontano 1996 la commissione Cassese aveva presentato alla Camera dei deputati un rapporto contenente la proposta di oltre 100 misure per prevenire la corruzione, rimasto lettera morta. Lo stesso pacchetto anti-corruzione improvvisato dal governo Berlusconi per allontanare lo spettro di una “nuova tangentopoli” inasprisce le pene applicando una logica tutta repressiva incongrua, di fatto contraddetta e vanificata da oltre un decennio di provvedimenti bipartisan – dall’abolizione dei reati d’abuso d’ufficio e di falso in bilancio alla riduzione dei tempi di prescrizione – che hanno ostacolato il perseguimento penale di questi crimini, alimentando un senso generalizzato di impunità.

Per queste ragioni l’eredità di mani pulite appare oggi controversa. All’enfasi sull’azione catartica della magistratura, cui per breve tempo la società civile è sembrata delegare le proprie speranze di rinnovamento del sistema politico, ha fatto seguito ben presto la delusione per i risultati delle inchieste, falcidiate da prescrizioni sopravvenute per la vischiosità della macchina della giustizia. Di qui lo strascico di un’escalation di tensioni tra potere politico e sistema giudiziario, il pessimismo ancor più radicato sull’onestà della classe dirigente, la delegittimazione di quasi tutte le istituzioni pubbliche, la rinnovata tolleranza nei confronti delle molte manifestazioni d’illegalità di massa. Questo processo si lega in una certa misura allo spegnersi dell’interesse degli elettori per i temi attinenti alla “questione morale”, sancito dai ripetuti successi elettorali del pluri-inquisito leader del centrodestra. Ma dipende anche dal ruolo ambiguo della classe politica, che anche nel caso delle mancate riforme anti-corruzione ha finito per abdicare – per incapacità o cattiva volontà – al proprio ruolo, delegando di fatto la risposta istituzionale alla sola repressione penale, e nel contempo delegittimando l’azione dei magistrati e intralciandone l’attività con misure ritagliate sulle esigenze giudiziarie di Silvio Berlusconi, ma aventi pesanti ricadute pratiche e simboliche sul malfunzionamento dell’intero sistema giudiziario.

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