Come trattare con i cinesi

07 Ott 2010

Il sindaco di Prato ha sbagliato non dichiarando il lutto cittadino per le tre donne cinesi vittime del nubifragio. Un gesto di sensibilità pubblica nei confronti della comunità asiatica sarebbe stato politicamente opportuno. E avrebbe assunto un rilievo maggiore per la concomitanza della tragedia pratese con la visita in Italia del premier Wen Jiabao.

Perché è inutile girarci intorno, l’effetto numero uno della globalizzazione per noi italiani è il palesarsi di una vera e propria questione cinese. Le nostre élite evitano accuratamente di riconoscerlo, sperano così di mascherare l’incapacità di dare risposte. La conseguenza, come a Prato, è dividerci tra chi spera di lucrare elettoralmente sul pericolo giallo e chi ha paura di litigare con i nuovi padroni del mondo. Siamo un Paese industriale, basato su imprese piccole, e in molti settori e lavorazioni siamo concorrenti diretti di Pechino. La capacità imprenditoriale e commerciale dei cinesi, unita all’assenza di qualsiasi regola laburista, li candida al monopolio dell’intero mercato italiano del low cost, dalle bancarelle rionali ai parrucchieri per signora che a Milano spopolano con tariffa a sei euro.

La minaccia cinese non è più solo concentrata nel tessile, si sta allargando velocemente al commercio e all’edilizia. E nei giorni scorsi ha fatto sensazione in Emilia che una ditta cinese con tanto di logo «Modena Machinery » si presentasse a una fiera specializzata di macchine per la ceramica. I tedeschi, a differenza nostra, sono riusciti ad essere complementari con l’offerta cinese, hanno costruito numerose fabbriche di auto in Asia ed esportano tecnologia a man bassa. Per loro la Cina è interamente un’occasione, per noi è metà un pericolo e metà un’opportunità che ancora non sappiamo cogliere.

La contraddizione sta qui: mentre temiamo che le nostre aziende chiudano davanti alla concorrenza sleale degli asiatici, sogniamo ad occhi aperti che la loro middle class (per McKinsey in 15 anni sarà composta da 270 milioni di persone) sostituisca il consumatore americano. E compri vestiti, piastrelle, vino, parmigiano, prosciutto e mobili made in Italy. Il guaio è che i due processi — la concorrenza in casa nostra e lo sbarco da loro — avvengono con una sfasatura temporale perché il sistema Italia è una tartaruga. La nostra industria manifatturiera per poter vendere in Cina ha bisogno di una strumentazione adeguata e di strategie commerciali non improvvisate. I pletorici enti di promozione all’estero dovevano essere riformati, ma chi sa come è andata a finire? Le banche italiane sono veramente in grado di seguire le aziende-clienti nei Paesi emergenti e di aiutarle a farsi largo in mercati nei quali tutti vogliono entrare? È mai possibile che la mano sinistra non sappia che cosa fa la destra, che le strutture incaricate di attrarre investimenti stranieri nella Penisola operino totalmente distanti da quelle che devono programmare lo sbarco italiano negli stessi Paesi? Senza rispondere a queste domande l’idea di diventare (addirittura) un partner privilegiato di Pechino è pura velleità. E non facciamo nemmeno passi in avanti nel governare i difficili rapporti con le comunità cinesi in Italia.

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