Una lezione per il Cavaliere

06 Ott 2010

Il partito di Gianfranco Fini prende forma, e sancisce la rottura definitiva degli equilibri interni al centrodestra. È la conclusione di un percorso “a perdere” per Silvio Berlusconi. La nascita di un nuovo gruppo parlamentare “non amico”, la perdita della maggioranza assoluta alla Camera, il Senato svilito a “ridotta della Valtellina” (storicamente una tragica illusione): questo è il bollettino finale della guerra lampo scatenata dal premier contro il dissenso nel suo partito.

Il partito di Gianfranco Fini prende forma, e sancisce la rottura definitiva degli equilibri interni al centrodestra. È la conclusione di un percorso “a perdere” per Silvio Berlusconi. La nascita di un nuovo gruppo parlamentare “non amico”, la perdita della maggioranza assoluta alla Camera, il Senato svilito a “ridotta della Valtellina” (storicamente una tragica illusione): questo è il bollettino finale della guerra lampo scatenata dal premier contro il dissenso nel suo partito. A conferma della sua incapacità di capire le due cose ancora fondamentali nella democrazia dei moderni: il partito, il Parlamento. Dominatore dell´avanspettacolo elettorale, inventore della “messa” politica in italiano (l´italiano efficace e unificante del linguaggio televisivo) continua invece a rivelare cronica impotenza come “utilizzatore finale” di tanto consenso. Sia che si guardi all´organizzazione del partito: ora pendulo tra l´accentramento nelle mani di un triumvirato (in affanno, per pubbliche e private incombenze) e la polverizzazione in associazioni, fondazioni, club, team (in ansiosa concorrenza di vicinanza al Capo). Sia che si guardi alla conduzione di gruppi parlamentari vasti e compositi: ma senza una chiara idea dello sviluppo di un programma e della “mano” che li guida. Sia che si guardi alla direzione della “politica generale” del governo: ora rimessa, nel bene e nel male, alla supplenza del ministro dell´Economia e del governatore della Banca Centrale Europea.
Non è il teatrino della politica che insomma gli sfugge. E lo scenario delle istituzioni della democrazia: che hanno alla fine, sebbene malconce, un peso più forte dei colpi di testa padronali. Il passaggio in Parlamento ha confermato questa forza “autonoma” delle istituzioni. Con un colpo solo – legittimato addirittura da un voto di fiducia (un rito di legittimazione per chi la riceve, ma, prima ancora, per chi la dà) – si è smontato un fascio di teoremi. Quello della sovranità popolare senza limiti. Quello della volontà elettorale come unico motore immobile della democrazia. Quello del ricorso alle urne come rimedio contro ogni diversa opinione. E si è tornati, così, allo statuto: parlamentare.
Ma a cosa può servire questa «nuova» maggioranza parlamentare: fatta, come nei sistemi proporzionali, da una “unione di minoranze”? Può servire a molto se si propone di raggiungere quella “serenità istituzionale” che la Corte costituzionale ha indicato come “interesse” rientrante nei principi fondamentali dello Stato di diritto. Il premier potrà perseguire la sua “serenità” con quella legge in forma costituzionale che sembra già avere una sua maggioranza. Ma vi è, soprattutto, una “serenità” collettiva da ristabilire in un sistema istituzionale sotto stress: per interessi privati e privati rancori, entrati nelle vene dello Stato.
Vi sono tre grandi paure italiane che chiedono rassicurazioni: il vuoto di rappresentanza; l´oppressione populista; la disunità nazionale.
Il vuoto di rappresentanza non è solo nella denuncia delle imprese. E nella percezione di un crescente astensionismo di massa. La gente si astiene perché ha paura di non trovare, comunque, la sua rappresentanza. A causa di una legge elettorale che ammette solo liste di nomi da prendere o rifiutare in blocco. A causa di una legge che, con un meccanismo da lotteria, “falsa” i numeri di maggioranza e di opposizione. E consente così al potere di fare quello che vuole: e di non fare quello che deve. Senza tornare all´antico delle “preferenze” e della proporzionale, una nuova legge elettorale può restituire il diritto dei cittadini a scegliere i propri parlamentari. E a favorire, senza doping, la semplificazione politica.
La paura dell´oppressione populista viene da un dato oggettivo: la debolezza delle garanzie costituzionali in un regime di “muro contro muro”. Se a questo si aggiunge, contro di esse, la quotidiana aggressione dal potere di governo, la minaccia “tirannica” è già nei fatti. E tuttavia la “serenità” istituzionale si può ancora raggiungere con un lavoro di ristabilimento della forza giuridica delle garanzie (comprese quelle contro la peste della giustizia lenta). E dal ritrovamento di un rispetto condiviso.
Ogni giorno si fa più concreta, infine, la paura di un federalismo di disunione. Basta leggere il resoconto della commissione bilancio del Senato (il 28 settembre) per capire che buona parte della maggioranza, l´opposizione, i servizi tecnici indipendenti, sono concordi nel dire che, ad oggi, siamo di fronte ad un federalismo-truffa. Ad una produzione di decreti a mezzo di decreti. Pezzi-di-carta minacciosi proprio perché sono in bianco. Senza un solo numero che dia sostanza alle parole, senza un solo metodo per calcolare i costi dei servizi, gli standard dei fabbisogni, la stessa maniera di determinarli per ciascuno degli ottomila comuni, per ciascuna delle cento province.
Come non temere questo federalismo arruffone, così lontano dalla Costituzione, così vicino alle vergogne della scuola di Adro? Ebbene, anche qui, ci sarebbe il tempo per raddrizzare le cose, per richiamare in Parlamento un serio contraddittorio sui dati, sui tempi, sul percorso.
Cominciando, così, a porre anche le basi per un luogo parlamentare delle autonomie: verso quel diverso Senato che fin dal 1948 si intravede nella Costituzione.
Una fine legislatura all´insegna della “serenità” è dunque possibile. Se ci si propone di mettere in sicurezza le istituzioni, come terreno condominiale per tutti. Per queste cose – per riparare la “tecnica” della Costituzione – la nuova maggioranza può facilmente allargarsi in Parlamento.
Ma può darsi – anzi è probabile – che qualcuno non ci stia, vedendo nelle elezioni anticipate una maniera di perpetuare un potere che, altrimenti, gli può sfuggire.
Bene. Le ultime vicende hanno chiarito che sono ancora intatte, nella pancia del sistema parlamentare, risorse di salvaguardia. Compresa quella di un governo di garanzia costituzionale, per vigilare, se proprio si deve votare, sulla par condicio elettorale: quella vera. Sarebbe un po´ strano se un ministro dell´Interno che dà ultimatum per elezioni anticipate, dovesse poi gestirle.

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