Se si resuscitano i teoremi ad personam

27 Set 2010

Un politico non può «non sapere» le furbizi e immobiliari del cognato, però può «non sapere» che il proprio top manager corrompeva la Guardia di Finanza, e (dopo averlo saputo) premiarlo con soldi, incarichi aziendali e un seggio in Parlamento?

A resuscitare il teorema del «non poteva non sapere», ed anzi a elevarlo a criterio supremo di giudizio etico-politico contro l’avversario Fini, curiosamente sono proprio quanti accusavano i magistrati di brandirlo strumentalmente contro Berlusconi.

Così oggi dall’entourage del premier, primo beneficiario della legge che accorciò la prescrizione del reato di falso in bilancio contestatogli per i mille miliardi di lire della galassia offshore All Iberian (quella che Berlusconi aveva giurato sconoscere «perché figuratevi se con il mio senso estetico avrei mai potuto darle un nome così brutto», ma anche quella del finanziamento illecito a Craxi o della tangente al giudice del lodo Mondadori), si muove questo tipo di censura a Fini: avrebbe dovuto sapere, o comunque non avrebbe potuto non sapere, che il cognato era l’affittuario di una casa a Montecarlo, dal partito ereditata e poi venduta a una opaca società offshore, appartenente o al cognato stesso (a detta del ministro della Giustizia di Santa Lucia) o invece (secondo un avvocato vicentino ex parlamentare leghista) a un altro misterioso cliente.

Misurato su questo stesso parametro, a ben maggior ragione Berlusconi avrebbe dovuto sapere, o comunque non avrebbe potuto non sapere, che il capo dei servizi fiscali della sua Fininvest, Salvatore Sciascia, aveva pagato tangenti alla Guardia di Finanza per ammorbidire verifiche tributarie (alla Mondadori) o scongiurare che emergessero intrecci imprenditorial-televisivi in violazione della legge Mammì (caso Telepiù). Invece in quel processo, originato dal famoso invito a comparire del 1994, dopo un’iniziale condanna Berlusconi fu assolto dai giudici d’Appello e di Cassazione appunto nel presupposto teorico che, benché padrone di Fininvest, potesse non sapere delle corruzioni operate da uno dei suoi più stretti collaboratori in azienda. E quando (dopo aver potuto «non sapere») venne invece a saperlo, quantomeno dalla definitiva sentenza di condanna di Sciascia a due anni e sei mesi, Berlusconi non soltanto non si è dimesso, e nemmeno ha preso le distanze dal suo top manager, ma anzi lo ha premiato in molti modi: gli ha confermato un bonus aziendale di 500 milioni di lire, lo ha inserito nel consiglio di amministrazione della Fininvest, ne ha fatto uno dei «precettori» dei figli avviati al timone delle imprese, e lo ha fatto eleggere in Senato. Un politico non deve dire bugie, è meglio che giri alla larga da società offshore, e non sarebbe male desse un occhio ai comportamenti dei parenti: non tutto lo sfascio istituzionale degli ultimi tre mesi (lamentato negli ultimi giorni su queste colonne da Ostellino, Battista e Romano) sarebbe stato vano se dalle macerie della «guerra» di Montecarlo fossero riemerse almeno queste tre banalità. Per tutti, però.

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