Processo lungo

02 Set 2010

Ufficialmente la riforma chiamata «processo breve» — che impone limiti di tempo insuperabili ai dibattimenti, pena la loro estinzione — è stata motivata con la loro eccessiva durata. Una vera e propria «emergenza», s’è detto, certificata dalle condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, con «rilevante danno d’immagine» oltre che finanziario. Il fatto che la nuova norma, tramite un’apposita postilla, si applichi anche ai procedimenti pendenti (tra cui quelli a carico di Silvio Berlusconi, che verrebbero cancellati quasi automaticamente) è stato considerato dai proponenti un effetto collaterale poco significativo, che non può certo ostacolare l’approvazione della necessaria riforma. Chi se ne lamenta, ha ripetuto di recente il ministro Alfano, «è vittima di un pregiudizio politico»; prioritaria resta la riduzione dei tempi della giustizia. Ma le perplessità sulla riforma, anziché diminuire, aumentano. C’è il rischio concreto che non passi. Ecco allora farsi strada, nel governo e nella parte di maggioranza che ne sostiene la strategia su questi temi, l’ipotesi di rinunciare alla poco digeribile applicabilità ai processi in corso in cambio di un altro paio di modifiche al codice di procedura penale: togliere al giudice la possibilità di escludere l’assunzione di prove «manifestamente superflue» (come l’ascolto di testimoni non necessari) chieste dalla difesa e impedire l’acquisizione di sentenze definitive di altri processi. Queste proposte sono contenute in un disegno di legge governativo presentato un anno e mezzo fa e da allora fermo al Senato (il che la dice lunga sulla sua urgenza), e ora potrebbero essere ripescate e approvate al più presto. Si tratta di modifiche già duramente criticate nel parere del Consiglio superiore della magistratura, perché comporterebbero «un pesante limite al celere svolgimento del processo, un inutile aggravio e un conseguente allungamento dei tempi necessari all’accertamento di fatti e situazioni già acclarate». La durata dei dibattimenti, cioè, verrebbe irragionevolmente prolungata, in palese contrasto con l’obiettivo di restringerli entro limiti «ragionevoli» imposti addirittura per legge con la riforma del «processo breve».

La contraddizione fra le due strade, imboccate contemporaneamente dallo stesso governo e dalla stessa maggioranza, è evidente. Tanto più alla luce della sentenza con cui, appena l’anno scorso, la corte costituzionale ha dichiarato pienamente legittima l’acquisizione delle sentenze definitive di altri procedimenti «ai fini della prova del fatto in esse accertato». Che poi andrà valutato in maniera autonoma, ma senza perdere tempo a dimostrare (con l’ascolto di tutti i testimoni e la raccolta di tutti gli elementi) ciò che altri hanno già dimostrato. Per esempio: al processo contro David Mills nel quale Silvio Berlusconi era imputato insieme all’avvocato inglese (concluso con l’accertamento della corruzione e la prescrizione del reato) si potrebbe acquisire la sentenza dove altri giudici hanno già accertato gli stessi fatti; in caso contrario si dovrebbe ricominciare daccapo, con conseguente allontanamento del verdetto e avvicinamento della prescrizione anche per il premier. La modifica proposta dal governo imporrebbe questa seconda soluzione, con buona pace della durata «ragionevole» dei processi che si vorrebbe tutelare con l’altra riforma. Almeno nelle intenzioni ufficialmente dichiarate, di cui a questo punto diventa lecito dubitare.

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