La deflagrazione

30 Lug 2010

Più che di un divorzio politico, ha l’aria di un licenziamento. Il modo brutale col quale Silvio Berlusconi espelle di fatto Gianfranco Fini dal Pdl riflette la concezione che il Cavaliere ha del partito; e la miscela di spavalderia, rabbia e ingenuità con la quale quattro mesi fa il presidente della Camera ha contestato in pubblico la leadership berlusconiana. Ma l’aspetto più insidioso della frattura che si è consumata dopo sedici anni di alleanza tra fondatore e cofondatore del Popolo della libertà non è tanto politico: è istituzionale.

Il documento approvato ieri sera dall’Ufficio di presidenza promette una guerra in due tempi. La prima, forse, è già stata vinta dal capo del governo. L’altra, più insidiosa, comincia oggi e punta a far dimettere Fini dalla presidenza della Camera. Sostenere che viene meno la fiducia nel ruolo di garanzia della terza carica dello Stato significa assediarla e delegittimarla: tanto più che ad eleggerlo nel 2008 è stato il solo centrodestra, senza l’appoggio dell’opposizione. Sul piano istituzionale non esistono strumenti per costringerlo a lasciare; e questo è un problema per Berlusconi. Tra l’altro, esiste il precedente della leghista Irene Pivetti, che nel 1994 rimase al suo posto anche dopo la rottura fra Berlusconi, per la prima volta alla guida di un governo, e Umberto Bossi. Ma si trattava di un altro centrodestra e di un’altra fase politica.

La scomunica decisa ieri sera indebolisce Fini oggettivamente. Lo espone a un’offensiva parlamentare e a una campagna di fango della quale si vedono già le prime tracce. E soprattutto mette in tensione i rapporti fra le istituzioni, che finora sono stati almeno diplomatizzati. Per questo la rottura contiene un’insidia per l’intero sistema. Fa temere una sorta di «Vietnam del centrodestra» che nei prossimi mesi potrebbe propagarsi ai vertici dello Stato; e di qui a neppure un anno spezzare in anticipo la legislatura. Berlusconi, e con lui Bossi, sembrano sicuri di poter andare avanti anche perdendo uno dei pezzi pregiati della coalizione. Numericamente la maggioranza ha i margini per farlo. E la durezza del comunicato anche sui tre «finiani» più critici col premier, è una rivendicazione di forza politica. In più, Berlusconi «salva» i ministri vicini al presidente della Camera, puntando al suo isolamento.

Non è chiaro se e quanto Fini si sia reso conto di quanto stava facendo e delle conseguenze che avrebbe provocato. Ma ora non può che giocare di rimessa, giurando lealtà al governo anche se si spezza il filo col Pdl. Il problema è che Palazzo Chigi ostenta nei suoi confronti un’indifferenza totale: come se fosse di colpo un estraneo. È il riflesso di un centrodestra insieme forte e destabilizzato ad appena due anni dalla vittoria; e Berlusconi e Bossi dovranno spiegare perché. Il comportamento di Fini è un elemento, ma non basta. E sarebbe inaccettabile far pagare al Paese un conflitto che ha i contorni di una viscerale resa dei conti interna.

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