Via D’Amelio e i «mandanti» I due interrogativi dell’attentato

22 Lug 2010

È l’inattesa collaborazione con la giustizia di Gaspare Spatuzza— «uomo d’onore» della cosca del quartiere Brancaccio di Palermo, guidata dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano — a cambiare la storia delle indagini sulle stragi di mafia.

A dieci anni dall’arresto, nel 2008 Spatuzza decide di parlare coi magistrati, accampando ragioni di conversione religiosa. E fornisce una nuova versione dell’eccidio di via D’Amelio, 19 luglio 1992, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta; lui che non era mai entrato nei processi per quel fatto, si autoaccusa della preparazione dell’ordigno e proclama l’innocenza di almeno sette persone condannate all’ergastolo.

La strage più misteriosa

L’attentato di via D’Amelio, per il quale si sono svolti tre processi chiusi con le sentenze definitive della Cassazione, è sempre stato quello con il maggior numero di interrogativi rimasti senza risposta. Sia per la ricostruzione degli eventi (non si sa dove si appostarono gli uomini del commando, ad esempio, né chi azionò il radiocomando) sia nelle motivazioni. Borsellino era certamente un nemico che Cosa Nostra voleva eliminare, ma farlo saltare in aria con modalità terroristiche a meno di due mesi dalla strage di Capaci in cui fu ucciso Giovanni Falcone è stato un pessimo affare per i boss, vista la stretta repressiva che ne è seguita: nel trattamento dei detenuti e nelle nuove indagini.

Spatuzza, rivelando e dando prova di aver rubato la Fiat 126 utilizzata come autobomba, ha sconfessato ben tre pentiti: Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino, che si erano falsamente attribuiti il furto della macchina e sulle cui dichiarazioni si sono fondate parte delle condanne nei primi due processi per la morte di Borsellino. Quelle dichiarazioni (in particolare di Scarantino) apparvero fin dall’inizio contraddittorie e poco attendibili, come rilevò alla fine del 1994 il pubblico ministero Ilda Boccassini prima di lasciare la Procura di Caltanissetta, ma sono servite ad infliggere almeno sette ergastoli, e per quelle posizioni probabilmente si riaprirà il processo.

Il depistaggio messo a nudo

Dopo le dichiarazioni di Spatuzza, i tre pentiti sconfessati hanno ammesso di aver reso false testimonianze. Sostenendo di essere stati indotti a confessare ciò che non avevano commesso, fin dall’ottobre 1992, da alcuni poliziotti del gruppo investigativo guidato dal capo della squadra mobile palermitana dell’epoca (e futuro questore) Arnaldo La Barbera, morto nel 2002. La Procura di Caltanissetta ha inquisito tre poliziotti, i quali negano le «minacce e pressioni psicologiche» contestate nell’atto d’accusa.

Al di là delle singole responsabilità ancora da accertare, resta certo il depistaggio e misterioso il suo movente. Che può essere «minimale», cioè confinato alla fretta di venire a capo della strage che aveva dimostrato lo strapotere di Cosa Nostra nell’Italia del 1992; ma in Paese abituato alle deviazioni delle inchieste sulle stragi terroristiche degli anni Settanta, potrebbe avere motivazioni più complesse: ad esempio fornire in breve tempo una lettura esclusivamente mafiosa della strage, per evitare la ricerca dei cosiddetti «mandanti esterni» di una strage che mostrò subito delle anomalie e, come raccontato da altri pentiti, subì un’accelerazione nei tempi di realizzazione.

I «mandanti occulti»

All’inizio della sua collaborazione Spatuzza ha svelato che nel garage dove portò la Fiat 126 per imbottirla di esplosivo, vide una persona estranea all’ambiente di cosa nostra, mai incontrata prima né in seguito. Non fece domande ai complici, come si addice a un mafioso, ma di recente ha riconosciuto quell’uomo (seppure in fotografia, e con qualche tentennamento) in un funzionario dei servizi segreti tuttora in attività. Quella persona è ora indagata per concorso in strage, anche perché pure Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, l’ha indicato come un personaggio vicino al misterioso «signor Franco», uomo legato agli apparati di sicurezza che aveva rapporti (a suo dire) sia con suo padre che con il capomafia allora latitante Bernardo Provenzano.

Anche in questo caso, a prescindere dal coinvolgimento tutto da dimostrare di quel funzionario, resta la presenza di un non mafioso al momento della preparazione dell’autobomba. E le dichiarazioni di Spatuzza si intersecano con le indagini sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, di cui hanno parlato altri collaboratori considerati affidabili; primo fra tutti Nino Giuffrè, già molto vicino a Provenzano. Gli accertamenti ruotano essenzialmente sugli incontri avvenuti nella seconda metà del ’92 tra i carabinieri del Ros (l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe de Donno) con Vito Ciancimino. Finalizzati alla cattura dei latitanti e senza contropartite, secondo gli ufficiali; veicolo delle richieste di Totò Riina alla Stato attraverso il famoso papello, ribatte l’accusa. Solo un anno fa s’è saputo che Paolo Borsellino venne a conoscenza del contatto fra i carabinieri e Ciancimino, poche settimane prima di morire.

Nuovi referenti politici

Di certo c’è che a gennaio del 1993 Riina fu arrestato (mentre Provenzano è rimasto libero fino al 2006), poi ci furono le stragi sul continente (Firenze, Roma e Milano) e quella fallita allo stadio Olimpico di Roma. Anche di questo ha parlato Spatuzza, riferendo ciò che gli avrebbe detto il boss Giuseppe Graviano a gennaio del ’94 sui presunti accordi raggiunti con i nuovi referenti politici, rappresentati da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri che proprio in quei giorni annunciavano la nascita di Forza Italia. Dichiarazioni che la corte d’appello di Palermo, confermando la condanna di Dell’Utri per concorso con la mafia fino al 1992, ha considerato inattendibili o non riscontrate. Per saperne di più bisogna attendere le motivazioni di quella sentenza.

Supportaci

Difendiamo la Costituzione, i diritti e la democrazia, puoi unirti a noi, basta un piccolo contributo

Promuoviamo le ragioni del buon governo, la laicità dello Stato e l’efficacia e la correttezza dell’agire pubblico

Le scuole di Libertà e Giustizia

L’Unione europea come garante di democrazia, pace, giustizia

In vista della legislatura 2024-2029, l’associazione Libertà e Giustizia propone sette incontri - dal 29 febbraio al 23 aprile - sul ruolo del Parlamento europeo e le possibilità di intervento dei singoli cittadini e delle associazioni.

Approfondisci

Newsletter

Eventi, link e articoli per una cittadinanza attiva e consapevole direttamente nella tua casella di posta.