Non esistono trascrizioni. L’audizione del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso in Commissione Giustizia alla Camera “è informale”, spiegano dagli uffici di Montecitorio. Ma sulla base degli appunti, 20 pagine dattiloscritte e di quanto riportato dai giornali è possibile ricostruire i punti deboli della legge elencati in una sorta di decalogo. In due sedute, il 30 giugno e il primo luglio, davanti ai parlamentari il procuratore ha spiegato perché il ddl Alfano non può funzionare.
L’allarme è subito detto: così come è stata scritta, questa legge non dà più garanzie che per mafia e terrorismo si potrà intercettare senza limitazioni.
“Si deve chiaramente dire – spiega Grasso – che i requisiti richiesti per i reati ordinari non si devono considerare come presupposti per i reati di mafia. Basta poco per chiarirlo. Così come è, il dubbio può rimanere. E siccome si fanno i processi e poi si arriva in Cassazione e magari ti danno un’interpretazione del genere, basta chiarirlo per non fare del lavoro inutile”.
Non solo: “Talune modifiche hanno peggiorato alcuni aspetti”. Aspetti come la durata prefissata di 75 giorni, “termini iugulatori… una previsione irrazionale, immotivata e soggetta a rilievi di incostituzionalità”.
Ma ecco i dieci principali difetti della legge.
I dieci punti che proprio non vanno: dalla sostituzione del pm indagato (che rischia di innescare una serie di denunce strumentali) al tribunale collegiale che comporterà “enormi difficoltà organizzative”, alla questione dei tabulati, che oggi si acquisiscono con semplice routine e domani sarà un procedimento complicato, al problema interpretativo dei “gravi indizi di reato” che ora non si capisce più, dopo le ultime modifiche del Senato, se le condizioni stabilite per i reati ordinari valgono anche per mafia e terrorismo, all’invio di “tutti” gli atti d’indagine dalle procure ai tribunali del capoluogo, il che significa un traffico immane di faldoni ogni 15 giorni ed è “utopia”.
Infine la questione poco raccontata dello “stralcio”, che significa mantenere segreta una intercettazione quando ha fatto scoprire un nuovo reato e dato il via a una nuova inchiesta: la legge ora vieterebbe di effettuare stralci, cioè tenere segreto alcunché, e quindi si regalerebbe all’indagato la notizia che è sotto indagine. Ma Piero Grasso individua anche un altro problema non da poco: se in sede di udienza preliminare o di dibattimento si formula in maniera differente un reato, le intercettazioni non sono più utilizzabili, perché autorizzate per altro fatto. “Sarebbe gravemente minata l’efficacia dell’azione investigativa e processuale”. Una raffica di osservazioni che pesano come macigni.
- L’ipotesi di astensione del giudice e la sostituzione del pm indagato presenta due punti critici, perché prevede che il procuratore della Repubblica riceva informazioni dal Capo dell’ufficio che sta indagando, con una anomala violazione del segreto d’ufficio che, in alcuni casi, potrebbe essere causa a sua volta deleteria per l’attività d’indagine; e poi ricollega alla semplice iscrizione nel registro degli indagati, che è atto dovuto a seguito, per esempio della denunzia di una delle parti, la sostituzione del pm, con effetti gravissimi sull’andamento del processo. Facile immaginare il succedersi di denunzie strumentali per ottenere la sostituzione del pm che sta facendo il processo e che di solito è l’unico che lo conosce bene, nei casi più difficili e delicati a cominciare da quelli di mafia e terrorismo. Peraltro, la previsione è incongrua perché le notizie “segrete” non sono mai in possesso solo del m, ma anche di molte altre persone (polizia giudiziaria, consulenti, personale amministrativo, persone informate sui fatti ecc.) per cui le cosiddette fughe di notizie possono essere responsabilità di soggetti diversi dal magistrato.
- Innanzitutto, una serie di condizioni assai rigide per l’effettuazione di intercettazioni e videoriprese e per l’acquisizione di tabulati di traffico telefonico e telematico. Queste condizioni valgono, a differenza che nel testo precedente approvato dalal Camera, anche per i reati di mafia e terrorismo, la cui disciplina verrebbe così notevolemnte modificata (in peius) rispetto alla situazione attuale. Tali modifiche avranno un effetto gravissimo in senso negativo sulle relative indagini che subiranno una forte limitazione. Questo effetto sarà ulteriormente aggravato dal fatto che le stesse condizioni valgono, ovviamente per tutti gli altri reati, compresi i cosiddetti reati spia (ovvero usura, estorsione e riciclaggio).
- La nuova norma equipara la disciplina dell’acquisizione dei dati di traffico telefonico e delle videoriprese a quella delle intercettazioni di conversazioni nonostante le profonde differenze e la ben diversa invasività tra i due strumenti d’indagine. La decisione di richiedere l’autorizzazione del Tribunale collegiale, inoltre, non tiene conto della realtà delle cose e cioè dell’altissima frequenza con cui è necessario ricorrere a tale strumento e dell’assoluta urgenza con cui è necessario provvedervi nell’attuale situazione di una società caratterizzata dall’uso delle telecomunicazioni. Tanto è vero che appena qualche anno fa il legislatore aveva dovuto correggere la norma precedente che prevedeva sempre l’intervento del Gip e attribuire al Pm il potere di acquisire i tabulati se relativi solo agli ultimi due anni.
- Rischiano di diventare inutilizzabili (secondo un’interpretazione più che plausibile) tutte le riprese fatte dalle telecamere disseminate, con grandi spese, proprio per ragioni di sicurezza, nelle nostre città, qualunque sia la condotta delittuosa, anche gravissima, che dovesse venire registrata. Inoltre, richiedere l’autorizzazione giudiziale anche per tali attività rappresenta un obiettivo fattore di compressione di un’eventuale, autonoma iniziativa degli organi di polizia giudiziaria. (…)
- L’autorizzazione alle intercettazioni è attribuita al Tribunale collegiale, invece che al giudice della fase in cui si trova il provvedimento e quindi di regola al Gip, per tutelare maggiormente la privacy. Sul piano organizzativo, l’attribuzione al Collegio di questa nuova competenza comporterà enormi difficoltà. Un qualsiasi provvedimento in questa materia, infatti, determinerà l’incompatibilità dei magistrati che lo avranno adottato a trattare il procedimento in qualsiasi fase successiva. Per grandi processi di mafia, per i tribunali medio-piccoli, sarà impossibile formare i collegi giudicanti, perché si dovranno coprire turni e ferie.
- Inoltre, ogni richiesta di intercettazione, ripresa video e acquisizione di tabulati esige, secondo questa nuova legge, l’invio di “tutti gli atti di indagine” al tribunale. Un aggravio enorme e sostanzialmente inutile per le strutture già al collasso degli uffici giudiziari.
- La modifica dei termini delle intercettazioni (art.267 c.p.p.): appare assolutamente irrazionale, immotivata e soggetta a rilievi di costituzionalità sotto il profilo dell’azione penale, la previsione di termini iugulatori previsti in 30 giorni, prorogabili di altri 15, e solamente in caso di nuovi elementi, specificatamente indicati, di ulteriori 15 giorni. Se poi emerge l’esigenza di impedire che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori ovvero che siano commessi nuovi reati si può ottenere un’ulteriore proroga di 15 giorni. Infine in caso di ulteriori elementi si andrà di tre giorni in tre giorni. Per quale ragione infatti tali termini devono essere inferiori a quelli già previsti per le indagini in rlazione ai delitti non di mafia o terrorismo previsti dal primo comma dell’articolo 266 del c.p.p.?
- La valutazione dei gravi indizi di reato secondo i nuovi criteri restringe ancora di più la possibilità di effettuare intercettazioni, videoriprese e perfino acquisizioni di tabulati, circostanza particolarmente grave per i cosiddetti reati spia per le ripercussioni sui reati di mafia.
- Il termine dei 75 giorni potrebbe essere troppo breve per i reati di criminalità organizzata (non mafiosa) e in particolare per i reati-spia, e per i reati gravissimi, a cominciare dall’omicidio.
- È vietato lo stralcio delle registrazioni e dei verbali attinenti il procedimento prima che gli stessi vengano posti a disposizione dei difensori. Poiché però i processi di mafia e terrorismo hanno inevitabilmente ad oggetto una pluralità di posizioni e di filoni investigativi il pm dovrebbe rivelare e quindi “bruciare” anche le “piste” su fatti anche gravissimi per i quali non è possibile per motivi più vari (di solito per la necessità di approfondire le indagini) procedere contemporaneamente ai fatti per i quali si deve provvedere subito (per esempio, perché c’è un indagato detenuto).
Su quattro punti, e solo su quattro dei dieci sollevati dal procuratore Grasso, si discute di possibili emendamenti: intercettazioni estese anche per tre reati-spia; rivedere il meccanismo delle 72 ore di proroga in extremis oltre i 75 giorni concessi; allargare il periodo di attesa per l’entrata in vigore della legge sul passaggio da autorizzazione monocratica a autorizzazione collegiale (oggi sono previsti sei mesi; si potrebbe aspettare di più in attesa che si passi al processo penale interamente informatizzato); semplificare l’acquisizione dei tabulati del traffico telefonico.
Ottimo lavoro Olga!
non sono un esperto in materia ma quanto detto dal procuratore Grasso ( che ritengo una persona autorevole e attendibile in materia) mi
preoccupa particolarmente . Non capisco come sia possibile che venga permesso un intervento cosi’ pesante e grave in materia giudiziale senza che sia tenuto in particolare considerazione chi nel settore giustizia ci lavora a volte anche a rischio della propria vita.
Mi auguro che la magistratura faccia sentire la sua voce in maniera altrettanto pesante.
Saluti
Un deluso della Politica
Vorrei esprime il mio apprezzamento e ringraziamento per l’intervento del Procuratore Grasso. Poi mi chiedo che conseguenze avrà tale suo intervento articolato e compente. Solo una breve attenzione su 4 punti e … poi il nulla. Sono molto pessimista sui risultati di questa lotta, anche se non è possibile essere rassegnati
SENZA SCAPPELLARSI
Non per essere i soliti dilettanti avvezzi a dir male di questo e di quello, ma questa levata di scudi di Pierluigi Bersani, segretario dei PIDDIESSE, in difesa dell’autorevolezza del capo dello Stato mortificata dalla spregiudicatezza di Niccolò Ghedini, parlamentare del PdL e avvocato famoso nella fiducia di Berlusconi, mi suona un tantinello teatralizzata.
Ricordo di un Togliatti (altri tempi?) che si beava al pensiero di poter prendere a calci nel kulo un mite Alcide De Gasperi colpevole soltanto di rappresentare, nei suoi confronti, l’ostacolo per la conquista del potere nell’Italia postfascista.
Certo, altri tempi, si usciva freschi freschi da una guerra civile dove le pallottole avevano seminato stragi e non parole sgarbate.
Siamo comunque, come democratici ortodossi, femminilmente permalosi, e mentre predichiamo l’assoluta uguaglianza fra tutti i cittadini, alti o bassi, belli o brutti, colti o ignoranti, ricchi o poveri che siano, quando c’è di mezzo il potere, cioè quello che costringe l’uomo ad essere ubbidiente o “lustrascarpe”, ecco che invochiamo la dignità e pretendiamo che le “alte” cariche dello Stato (da noi cittadini eletti a quel posto), vengano magnificate ed onorate quasi dei principi della stagione medievale. Naturalmente sto esagerando, ma solo per raggiungere lo scopo della metafora.
Però, in realtà, siamo così combinati e, a prescindere dal doveroso rispetto che dobbiamo a qualsiasi individuo nostro simile, pretenderemmo (quando fa comodo alla parte che sosteniamo) che le cariche dello Stato democratico, fossero adulate anche quando l’adulazione sarebbe un’inutilità sprecata per il rituale.
Il capo dello Stato riveste una figura eminentissima nella gerarchia del potere democratico (è il vertice dello Stato), ma più che rivolgersi a lui con il dovuto riguardo, che altro gli si deve affinché non si creda che lo si voglia denigrare per interessi di fazione? Anche il capo dello Stato ha le sue passioni, ma non per questo lo si può accusare d’essere di parte: l’amministrazione della giustizia ha bisogno di un buon bilanciatore: è la bilancia che deve essere manovrata con saggezza.
Venendo a Niccolò Ghedini e a Bersani, la querelle nasce dallo “sfastirio” (malumore) con il quale Ghedini avrebbe raccolto le osservazione di Napolitano sulla legge in itinere al Senato. Ghedini è uno dei legislatori il cui compito è quello di fare le leggi; a Napolitano compete solo firmarla e promulgarla quando le Camere l’avranno approvata: o rinviarla al Parlamento con messaggio motivato. Dopodiché dovrà promulgarla e sperare nella Corte se la Corte la riterrà incostituzionale.
I commenti critici non fanno parte dei doveri che competono al capo dello Stato; può commentare come vuole, ma in camera caritatis: apertis verbis, no!
A Napolitano che esterna liberamente la sua critica, Ghedini fa giungere il suo disappunto: ma questo non significa mancare di rispetto all’Istituzione.
UNICUIQUE SUUM! E nessuno si dorrà.
Celestino Ferraro
Un’altra perla di questo governo è, da una parte appropriarsi mediaticamente dei successi che la magistratura inquirente e la polizia giudiziaria ottengono nella lotta alle mafie, e dall’altra mettere in atto ogni giorno tattiche e strategie per limitare la loro capacità di indagine e operativa. Con la passiva condiscendenza di chi non vuol vedere e ne capire, vittima acefala del plagio mediatico, o ancor peggio, con quella di chi è complice.
Senza una stagione purificatrice di DEMOCRAZIA DIRETTA esercitata dalla SOCIETA’ CIVILE con le SUE ELITE RICONOSCIUTE con l’USO ESTREMO dell’ART. 71, non potremo venir fuori da questa mediocrità offensiva giusto prodotto di una casta indegna e autoperpetuante.
(Paolo Barbieri) Articolo 71
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…”piDDiesse”?!
Sul medesimo tema, aggiungo, sperando di fare cosa gradita, la sintesi dell’audizione presso la Commissione giustizia della Camera dei deputati del professor Glauco Giostra, ordinario di procedura penale presso l’Università La Sapienza di Roma
Premessa
Un potere politico che abbia a cuore l’efficienza della giustizia e i diritti dei cittadini dovrebbe elaborare un sistema in cui tendenzialmente siano disposte tutte e soltanto le intercettazioni necessarie , e, di queste, siano utilizzabili e pubblicabili tutte e soltanto le risultanze rilevanti.
Tenendo fermo un tale punto di fuga ideale, c’è bisogno di riforma? Sì, perché, anche al netto delle inattendibili iperboli della linguaggio politico attuale (si ricorda che in un’indagine conoscitiva del Senato approvata all’unanimità nel novembre 2006 si affermava che la nostra disciplina delle intercettazioni è probabilmente la più garantista dei Paesi occidentali e che il numero delle intercettazioni effettuate non è comparabile con quello degli altri Paesi, in quanto soltanto da noi vi è piena giurisdizionalizzazione del procedimento ammissivo, mentre altrove è assolutamente prevalente il numero “nero” di operazioni disposte dalla polizia o dai servizi segreti), si intercetta troppo e si pubblicano troppe intercettazioni. Diverse sono le cause delle due disfunzioni; diversi, quindi, debbono essere i rimedi.
Sotto il primo profilo, non si registrano significative inadeguatezze dell’odierna disciplina normativa: i presupposti (esclusivamente per delitti di particolare allarme sociale, in presenza di gravi indizi di reato, solo se ve ne è una assoluta indispensabilità) sono rigorosi e stringenti. E’ la prassi che, talvolta, si è dimostrata troppo permissiva per accidia investigativa del p.m. e per lassismo del g.i.p. (ancora di recente la Corte di cassazione – sent.12-2-2009, Lombardi – ha dovuto censurare l’ordinanza di un g.i.p. che aveva autorizzato una intercettazione motivando per relationem alla richiesta del p.m., a sua volta pedissequamente appiattita sulla relazione della p.g.).
Sotto il secondo profilo vi è, invece, una vistosa carenza legislativa: il legislatore del 1988 non ha considerato che il meccanismo, condivisibile, di collegare la pubblicabilità del contenuto dell’atto alla caduta del segreto interno, non poteva applicarsi senza correttivi alle intercettazioni; essendo queste, infatti, cieche idrovore di notizie, un tale sistema consente che, una volta venuto meno il segreto, vengano riversate sui media anche informazioni assolutamente estranee ai fatti del processo.
Se l’analisi è corretta, vanno nella giusta direzione tutte le modifiche che mirano, da un lato, ad assicurare un più rigoroso controllo sulla sussistenza dei presupposti (presentazione, con la richiesta, dell’intero fascicolo; assenso del Procuratore della Repubblica; collegialità del giudice; motivazione autonoma del provvedimento autorizzativo), dall’altro, cioè sul piano della divulgabilità, a protrarre il divieto di pubblicazione dei risultati delle intercettazioni non più segrete, fino a quando non siano stata operata dal giudice una dialisi che separi quelli rilevanti per il processo da quelli che non lo sono. Beninteso, ritenere che tali innovazioni vadano nella giusta direzione non vuol dire che siano tutte integralmente condivisibili (rilievi possono muoversi, v. postea, alla collegialità del giudice e all’assenso vincolante del Procuratore della Repubblica), ma soltanto riconoscere loro una plausibilità di politica legislativa.
Plausibilità che, invece, fa vistosamente difetto ad altre modifiche via via proposte (es. gravi indizi di colpevolezza, riduzione drastica della platea dei reati “intercettabili”, segreto e divieto di pubblicazione su tutti gli atti di indagine sino all’udienza preliminare) ed a molte di quelle ancora in discussione. Alcune di queste sono ingiustificatamente depressive della efficacia dello strumento (come quando lo si limita ai casi in cui gli intercettandi siano a conoscenza dei fatti; o come quando i risultati della intercettazione legittima soffrono immotivati limiti di utilizzabilità “interna” o “esterna” al procedimento in cui è stata disposta); altre palesemente in difficoltà di senso (si pensi all’insensato presupposto della flagranza criminosa per poter disporre una intercettazione “ambientale” oppure alla cervellotica disciplina delle proroghe, che non è costruita –come logica e diritto vorrebbero- secondo una progressione crescente di presupposti che giustifichi il protrarsi dell’operazione, ma a segmenti, ognuno dei quali con una sua regola di giudizio, talvolta affatto eccentrica rispetto alle esigenze di ricerca della prova); altre di improbabile applicabilità (quale quella, ad esempio, che pretenderebbe una insostenibile navetta tra l’organo inquirente e il tribunale distrettuale ogni tre giorni, oniricamente ritenuti sufficienti per consentire, al p.m., di predisporre il fascicolo con tutti gli atti sino a quel momento acquisiti, di redigere una richiesta motivata di proroga, di inviare l’uno e l’altra al tribunale del distretto e , a questo, di provvedere all’esame della richiesta , di predisporre un provvedimento autonomamente motivato in ordine alla proroga e di farlo pervenire in tempo utile al p.m. inquirente); altre ancora incostituzionali ( come quando si richiede per la proroga dell’ intercettazione l’esigenza di impedire che siano commessi altri (sic!) reati, in palese violazione della presunzione di non colpevolezza; o come quando si vieta irragionevolmente la pubblicazione delle intercettazioni, ancorché non più segrete e rilevanti) .
Rilievi specifici (in corsivo talune proposte di riformulazione).
Art. 266
Decisamente ingiustificata la parificazione alle intercettazioni delle riprese visive (oltretutto senza distinzione, come l’insegnamento della Corte costituzionale e della Corte di cassazione suggerirebbe, a seconda che la ripresa di immagini abbia contenuto comunicativo o no) e dei “tabulati” (comma 1).
Estendere a tutte le intercettazioni ambientali il presupposto, oggi previsto per le sole “domiciliari”, dello svolgimento dell’attività criminosa nel luogo ove vengono disposte (comma 2 , prima parte) significa di fatto vanificare questo prezioso strumento di indagine. Un tale presupposto, già oggi fortemente discutibile anche limitatamente alle “domiciliari”, di fatto restringe irragionevolmente il ricorso a questo mezzo di ricerca della prova ai soli reati permanenti e per situazioni fronteggiabili di norma con altri strumenti (es. arresto in flagranza). Per contro, ove si avesse notizia che Tizio ha dato appuntamento a Caio in un certo luogo per riferirgli a voce quali sono stati i mandanti e gli esecutori dell’omicidio su cui si sta indagando non sarebbe possibile predisporre, in quel luogo, uno strumento di captazione della conversazione.
Anche la possibilità di derogare a tale disciplina (tranne che per i casi in cui l’intercettazione debba essere eseguita nei luoghi di cui all’art. 614 c.p. che peraltro avrebbe un ambito applicativo assai dilatato essendosi sostituita la locuzione «luogo di privata dimora» con «luogo privato») appare priva di ragionevolezza. Il pubblico ministero potrebbe, infatti, disporre con decreto le operazioni, senza chiedere l’autorizzazione del giudice, solo che ritenga che ciò possa «consentire l’acquisizione di elementi fondamentali per l’accertamento del reato» (comma 2, seconda parte). Vale a dire, un presupposto che dovrebbe ritenersi già implicito in quelli previsti in genere per le intercettazioni telefoniche, richiamati dall’incipit dello stesso comma 2. Si aggiunga, che –verosimilmente per un difetto di coordinamento – non è chiaro se operino i meccanismi di convalida da parte del tribunale e la sanzione dell’inutilizzabilità previsti per le intercettazioni urgenti (art. 267 comma 2 ), limitandosi la norma in questione a precisare che il p.m. dispone tali intercettazioni «secondo le modalità indicate nell’art. 267 comma 3-bis» (comma 2).
Proposta Consentire le intercettazioni ambientali negli stessi casi in cui sono ammesse le intercettazioni telefoniche. Ammettere le intercettazioni “domiciliari”solo quando specifici elementi inducono a ritenere che soltanto nel domicilio sia possibile captare le informazioni indispensabili per le indagini. Richiedere, in sostanza, una doppia indispensabilità : quella dell’intercettazione, rispetto a tutti gli altri strumenti di indagine, e quella della intercettazione “domiciliare” rispetto a tutte le altre forme di intercettazione. Prevedere, inoltre, rimediando ad una carenza anche dell’attuale disciplina, già segnalata dalla Corte costituzionale (ord.304/2000), «i modi» con cui deve essere effettuata l’intercettazione “domiciliare” (art. 14 , comma 2 ,Cost.).
Art. 267
La competenza del tribunale distrettuale non sembra praticamente percorribile, almeno sino a quando non sarà realizzata una completa informatizzazione del processo penale. Si potrebbe riservare la competenza di tale organo per la decisione in ordine alla proroga straordinaria delle intercettazione (v. postea ).
Non sembra opportuno prevedere a pena di inammissibilità l’assenso del Procuratore della Repubblica, cui sarebbe sufficiente un’immotivata inerzia per pregiudicare un’ inchiesta. Prendere in considerazione l’idea di rendere obbligatorio non già l’assenso, bensì l’interpello del Procuratore, che dovrebbe motivare l’eventuale dissenso. Una simile soluzione responsabilizzerebbe il capo dell’ufficio e disincentiverebbe richieste disinvolte da parte del sostituto procedente. In caso di motivato parere negativo questi potrebbe o desistere o proporre ugualmente al giudice la sua richiesta di intercettazione, con l’obbligo di allegare il parere negativo del Procuratore. Il meccanismo potrebbe essere replicato anche per la richiesta di proroga, che più della richiesta di autorizzazione iniziale registra nella prassi qualche disinvoltura di troppo sia da parte del p.m., che del g.i.p.
Non appare sensato pretendere che «sulla base di specifici atti di indagine» gli intercettandi risultino «a conoscenza dei fatti per i quali si procede» (se, ad es., si fosse a conoscenza che l’estorsore si rivolgerà ad un componente della famiglia o dell’impresa ignaro, non si potrebbe mettere sotto controllo il suo telefono). Eliminare le lettere b), c) e d) del comma 1.
E’ impropria, e dovrebbe essere eliminata, la previsione secondo cui «nella valutazione dei gravi indizi di reato»si deve applicare l’art.192 commi 3 e 4, che è norma riguardante la prova della colpevolezza.
La disciplina delle proroghe è assolutamente incongrua: invece di una progressione logico-giuridica che renda via via sempre più impegnativa la prova della necessità di una protrazione delle operazioni, si è seguìto un irrazionale criterio di segmentazione dei periodi di proroga, ciascuno dei quali obbedisce a propri criteri di ammissione, spesso del tutto eterogenei rispetto alle finalità probatoria delle intercettazioni. Basti pensare che la terza proroga “ordinaria” di quindici giorni può essere richiesta e concessa «quando, sulla base di specifici atti di indagine, emerge l’esigenza di impedire … che siano commessi altri (sic!) reati» (comma 3, ultimo periodo). A parte che la previsione è palesemente incostituzionale per contrasto con l’art. 27 comma 2 Cost., in quanto presuppone l’indagato colpevole (per un inequivoco precedente, v. Corte cost. 304/2000), l’assurdità di una tale regola risiede nel fatto che prescinde del tutto da una prognosi di proficuità della intercettazione in corso ai fini dell’accertamento del reato per cui si procede. Ne consegue, in modo a dir poco singolare, che questa proroga “ordinaria” (dal sessanta al settantacinquesimo giorno) non potrebbe essere concessa (!), quand’anche dalle indagini emergesse che la prosecuzione dell’intercettazione consentirebbe «l’acquisizione di elementi fondamentali per l’accertamento del reato per cui si procede»; quand’anche, cioè, risultasse integrato il presupposto per concedere (!) la proroga “straordinaria” (dal settantacinquesimo giorno in poi).
Quanto alla proroga straordinaria(comma 3-bis), la soluzione di proroghe di tre giorni, reiterabili, pare inammissibilmente dimentica della realtà. La sua irrazionalità emerge in tutta evidenza pensando ad una situazione certo non infrequente: nel corso di una telefonata allo scadere della proroga ordinaria, uno degli interlocutori preannuncia all’intercettato che entro un mese lo richiamerà per fornirgli tutte le informazioni necessarie ( che sono fondamentali per l’accertamento del reato). Ebbene, il p.m. dovrebbe replicare sino a dieci richieste di proroga identiche e far pronunciare nello stesso modo per dieci volte il tribunale al fine di “coprire” quell’arco temporale sicuramente decisivo per le indagini.
Tra l’altro, non si precisa se la proroga disposta dal p.m. debba essere convalidata dal tribunale entro i tre giorni a pena di inutilizzabilità dei risultati. Per qualunque soluzione esegetica si propenda, le conseguenze sarebbero comunque inaccettabili. In caso di soluzione affermativa, infatti, il controllo giurisdizionale o si tradurrebbe verosimilmente in un frettoloso visto oppure procurerebbe – per inevitabile tardività nella pronuncia – l’inutilizzabilità dei risultati ottenuti anche a seguito di proroghe legittimamente disposte. In caso di soluzione negativa, la norma si presterebbe a prassi disinvolte, in cui il p.m. potrebbe limitarsi a trasmettere tutte le richieste di “mini-proroghe” alla fine dell’intera operazione intercettativa o il tribunale potrebbe riservarsi di decidere cumulativamente dopo l’ultima richiesta pervenutagli.
Proposta Riconsiderare l’istituto delle proroghe, ammettendole solo quando, anche alla luce dei risultati conseguiti e degli altri elementi di indagine, il p.m. è in grado di dimostrare per quale ragione questi non siano stati soddisfacenti e , soprattutto, per quale ragione si può presumere che lo saranno nel periodo di proroga richiesto. Si potrebbe prevedere, altresì, che per ottenere proroghe “straordinarie” (ad es.. dopo tre mesi di ascolto) il p.m. si debba rivolgere al tribunale distrettuale ( nell’attuale versione del ddl irrealisticamente competente per ogni provvedimento in materia: v. supra), che è organo “psicologicamente” e fisicamente lontano dall’ufficio dell’accusa. Ciò consentirebbe di conseguire un duplice risultato: anzitutto, una maggiore ponderazione del p.m. nel chiedere e del giudice nel concedere una protrazione eccezionale nell’uso dello strumento, ma anche –presumibilmente – un salutare effetto dissuasivo: la sola prospettiva di un controllo collegiale, che fatalmente si estenderà all’intera operazione, dovrebbe indurre maggiore cautela e rigore sia nel chiedere, che nell’autorizzare l’intercettazione e le sue prime proroghe.
La disciplina delle intercettazioni per i delitti di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3-quater meriterebbe di essere riconsiderata per valutare se, nel condivisibile proposito di rendere meno impegnativi i presupposti nelle indagini per quei gravi delitti, non si sia abbassata la soglia persino al di sotto del costituzionalmente consentito. Si pensi, in particolare, alle intercettazioni ambientali “domiciliari”, per disporre le quali basterebbero « sufficienti indizi di reato».
Art. 268
Il comma 7-bis, presumibilmente per un difetto di formulazione normativa, rischia di vanificare gran parte dell’obbiettivo garantistico perseguito dal provvedimento legislativo. Facendo dipendere il divieto di trascrizione delle conversazioni dalla circostanza che riguardino «esclusivamente fatti, circostanze e persone estranei alle indagini» (si segnala, incidentalmente, che in omologa proposizione normativa, all’art.114 comma 7, si parla ancora di “estranee”), non si tutelano i soggetti “intranei” al procedimento (indagato, persona offesa, ecc.) rispetto alle notizie processualmente irrilevanti che li riguardano. In realtà, il riferimento alle persone è del tutto improprio, ed andrebbe soppresso, poiché il solo, vero discrimine deve passare tra le notizie attinenti al processo ( che devono essere trascritte e pubblicabili, a chiunque si riferiscano) e quelle non attinenti ( che non possono essere trascritte e di cui va vietata la divulgazione, a chiunque si riferiscano). Se dovesse essere confermata nella sua attuale formulazione, la norma de qua sarebbe palesemente incostituzionale con riferimento all’art. 3 Cost.
Artt. 270-271
Proprio in un’ottica di bilanciamento dell’interesse per l’efficacia delle indagini con l’esigenza di garantire la privacy, un ordinamento ben strutturato dovrebbe fare in modo che questa sia pregiudicata soltanto nei casi di stretta necessità e che, una volta pregiudicata, se ne ottimizzino i vantaggi in termini di efficacia nell’accertamento dei reati. Da quest’ultimo punto di vista, suscitano allora perplessità i limiti all’utilizzazione dei risultati di intercettazioni legittimamente disposte.
Non convince la norma che, peggiorando l’attuale, esclude l’utilizzabilità “esterna” (cioè in altri procedimenti) di tali risultati, salvo che non siano indispensabili per l’accertamento di talune tipologie di delitti (art. 270 comma 1). Si dovrebbe almeno prevedere l’utilizzazione nei procedimenti riguardanti reati per cui è ammessa l’intercettazione.
Pur condividendone la presumibile ratio, non convince neppure la soluzione normativa di comminare la inutilizzabilità “interna” dei risultati, qualora nel corso del processo «il fatto risulti diverso e in relazione ad esso non sussistano i limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266» (art. 271 comma 1-bis). Se si intende con tale disposizione evitare, condivisibilmente, che ci siano iniziali forzature imputative per far rientrare il fatto per cui si procede tra i reati “intercettabili” , non si può, però, far cadere la mannaia dell’inutilizzabilità su una intercettazione legittimamente disposta, solo perché, magari proprio sulla base degli elementi con essa acquisiti (tra l’altro: quid iuris in tal caso, visto che sarebbero inutilizzabili?), il fatto inizialmente addebitato abbia subìto un ridimensionamento. L’importante è verificare se al momento in cui è stata autorizzata l’intercettazione vi erano gli elementi per prefigurare uno dei reati “intercettabili”: ciò che riserva l’ulteriore sviluppo del processo non deve rilevare (ed infatti non diremmo mai che una intercettazione, inizialmente disposta per un fatto che non la consentiva, divenga legittima perché successivamente quel fatto sia stato più gravemente riformulato). Si dovrebbe allora stabilire l’inutilizzabilità dei risultati dell’intercettazione soltanto quando la diversità del fatto fosse già prefigurabile al momento in cui l’intercettazione è stata disposta.
Art. 114
La nuova disciplina del divieto di pubblicazione degli atti presenta una scelta di fondo che merita di essere riconsiderata: il divieto assoluto di pubblicazione dei risultati, rilevanti e non più segreti, delle intercettazioni. Scelta di assai dubbia ragionevolezza e costituzionalità, tenuto conto che incide sul diritto di cronaca senza apprestare – condizione indefettibile della sua legittimità – una proporzionata e coerente tutela di un valore costituzionale antagonista. Che non può essere certo la tutela delle indagini, perché il divieto concerne le intercettazioni non più segrete; e neppure la c.d. verginità cognitiva del giudice del dibattimento, perché le intercettazioni – quale atto irripetibile, sono destinate ad essere inserite nel suo fascicolo. Forse si immagina di poter individuare l’interesse costituzionale confliggente nella riservatezza. Anche ad ammettere che questo sia valore di rango costituzionale e, soprattutto, che possa prevalere sul diritto di informare in ordine a notizie di interesse pubblico, l’opzione legislativa non sembra potersi sottrarre a severe censure. E’ difficile spiegare per quale motivo la medesima notizia non possa essere divulgata se acquisita tramite intercettazione, mentre potrebbe esserlo se ottenuta con altro mezzo di indagine. Tanto più irragionevole appare la scelta ove si consideri che proprio le intercettazioni – a differenza di quasi tutti gli altri atti di indagine – sono comunque destinate a divenire pubbliche nel dibattimento; per cui, semmai, si giustificherebbe una soluzione a logica rovesciata: ad essere non divulgabili dovrebbero essere – lo si dice solo per dimostrare l’indifendibilità dell’attuale scelta – gli atti che non debbono essere resi pubblici nel dibattimento. La verità è che il segreto ed il divieto di pubblicazione “a tempo” possono avere senso soltanto con riferimento ad interessi che abbisognano di tutela per un certo periodo (efficacia delle indagini, convincimento del giudice) e non per quelli (riservatezza rispetto a notizie processualmente rilevanti, presunzione di non colpevolezza) che, ove dovessero essere garantiti, comporterebbero l’inammissibile segretezza dell’intero procedimento penale. Non a caso, e giustamente, si prevede che non siano mai pubblicabili in nessuna forma i risultati delle intercettazioni che non sono attinenti al processo: quando non c’è un interesse pubblico di conoscenza, la privacy va protetta in modo assoluto e, appunto,” non a tempo”.
Si segnalano, inoltre, alcune vistose incongruenze sistematiche nella riformulazione dell’art.114 . Nel comma 2 si ammette la pubblicazione «per riassunto» e nel comma 2-ter la pubblicazione «nel contenuto», senza che sia possibile cogliere agevolmente la differenza: eppure tali disposizioni, costituendo parte di un precetto sostanziale (art. 684 c.p.), sono soggette ad un principio di stretta legalità e sono destinate a tracciare lo spartiacque tra l’illecito e il consentito in una delicatissima materia quale quella della libertà di stampa. Ma quand’anche si riuscisse ad assegnare alle due locuzioni significati univocamente diversi, si farebbe fatica ad intendere la ragione del distinguere.
Nell’ultima parte dell’art. 114 comma 2-ter si fa “anacronisticamente” riferimento a «parti che riproducono la documentazione e gli atti di cui al comma 2-bis»; senza tener conto del fatto che queste non potranno essere più presenti nell’ordinanza cautelare a norma del “nuovo” art. 292 comma 2-quater.
Il divieto di pubblicazione previsto dal riformulato comma 7 è inutile: gli atti in esso previsti, infatti, sono segreti (cfr. art. 329-bis) ed in quanto tali ricadrebbero comunque nel divieto di pubblicazione di cui al comma 1 dello stesso art. 114. Piuttosto, l’eliminazione dell’attuale comma 7 («è sempre consentita la pubblicazione del contenuto di atti non coperti dal segreto»), sostanzialmente “trasportato” nella seconda parte del comma 2, sarà foriera di pericolosi sbandamenti interpretativi in ordine alla pubblicabilità (nel contenuto, per riassunto, comunque vietata?) degli atti previsti dai commi 3, 4 e 5, lasciati scoperti dall’eliminazione,appunto, della norma di chiusura.
Proposta Rendere pubblicabili tutti gli atti non più coperti dal segreto, salvo le intercettazioni, che diverrebbero pubblicabili non già con il deposito, ma soltanto dopo che il giudice abbia stabilito quali siano i risultati rilevanti e limitatamente a questi. Una volta che l’ambito del divieto di pubblicazione sia stato così significativamente ristretto, sarebbe più plausibile – e, verosimilmente, meglio accettato – un severo presidio sanzionatorio in caso di sua violazione.
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