L’eredità di valori del Partito d’Azione nell’Italia di oggi

03 Giu 2010

Giuseppe Pupillo, storico della Resistenza e presidente della prestigiosa Biblioteca bertoliana di Vicenza, è stato ospite il 23 aprile scorso, del circolo bassanese di LeG. Nella lunga e dettagliata relazione, lo storico vicentino si sofferma sulle matrici culturali della nostra Costituzione, sulle idee azioniste e in particolare quelle di Giustizia e Libertà, e su come quei valori possono essere utili anche oggi per un rinnnovamento della democrazia e della sinistra

Ringrazio l’Associazione Libertà e Giustizia dell’invito. Mi ha lusingato, ma anche un po’ imbarazzato, non avendo altro titolo per affrontare il tema di questa conferenza se non quello di una passione per la storia e la politica.
Articolo la mia relazione in quattro punti.
Il primo riguarda le matrici culturali della nostra Carta costituzionale e può apparire un inizio non appropriato, ma è il tema sul quale mi soffermerò nella parte conclusiva.
Il secondo è una breve esposizione di alcune idee dell’azionismo ed in particolare di Giustizia e Libertà.
Il terzo, un’ancora più succinta esposizione della brevissima storia del Partito d’Azione.
Il quarto si pone la questione dell’esserci o meno un’eredità dell’azionismo, ovvero se l’elaborazione degli anni Trenta sul socialismo liberale può essere utile al rinnovamento della democrazia e della sinistra italiana.

1.
Parto da un dato di fatto che rispetto al tema di oggi ha, come dirò concludendo, un rilievo pregnante. Il dato di fatto, da tanti anni, è che sia coloro che intendono modificare radicalmente la Carta costituzionale del 1948 sia coloro che invece vogliono mantenerla nei suoi contenuti fondamentali convergono nel farla derivare strettamente dalla lotta di Resistenza.
Che esista un robusto nesso Resistenza-Costituzione repubblicana è fuori discussione, ma non è esaustivo del grembo culturale della nostra Costituzione. Anzi, questo legame – sto richiamando cose note – è stato ampiamente utilizzato dalla destra, soprattutto a metà degli anni Novanta, per sostenere che la nostra Costituzione è stata poco più di un compromesso forzato tra i partiti antifascisti, valido per il periodo della cosiddetta Prima Repubblica, ma ora obsoleto: non solo perché i partiti autori della Carta sono scomparsi con la fine della Prima Repubblica, ma perché estraneo ai grandi cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni che rendono la società italiana radicalmente diversa rispetto a sessant’anni fa.
Assai più rispondente alla verità dei fatti è la formulazione contenuta nel famoso appello del 1994 in difesa della Costituzione scritto da Don Giuseppe Dossetti (che, come sapete, prima di farsi sacerdote, era stato docente universitario ed esponente politico di primissimo piano della DC della quale è stato anche vicesegretario nazionale).
Secondo Dossetti: «la Costituzione italiana del ’48, proprio perché votata l’indomani della seconda guerra mondiale, si può ben dire nata da quel crogiolo ardente e universale più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo. Più che dal confronto-scontro tra ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale ed in certo modo, transtemporale.»
La tesi di Dossetti è che la nostra Costituzione è uno dei più alti prodotti di una fase storica – i cui propositi sono ancora oggi una fondamentale bussola d’orientamento – in cui molti Stati, sconvolti dalle guerre provocate dal nazismo, con oltre cinquanta milioni di morti e lo sterminio di sei milioni di ebrei, hanno cercato di darsi principi e norme per innovare profondamente i cardini del diritto internazionale, ampliare le libertà e i diritti individuali e collettivi, rendere meno conflittuale il mondo; e che, in quanto fondata su valori universali, essa è transtemporale (e quindi tutt’altro che circoscrivibile entro un determinato periodo). Che la nostra Costituzione sia uno dei prodotti di quella riflessione lo dimostra il fatto, rilevato da illustri costituzionalisti, che ha la medesima ispirazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo approvata dall’Assemblea dell’Onu il 10 gennaio del 1948 e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. La sua transtemporalità è corroborata sia dal fatto che la nostra Costituzione ha sancito nel suo articolo 11, ben prima che il processo di Unione Europea muovesse i primi passi, una esplicita apertura al transnazionalismo o meglio all’universalismo, sia dal fatto che permane una piena consonanza tra il novero dei diritti in essa sanciti e quello dei diritti fondamentali dei cittadini europei, cuore del Trattato di Lisbona del dicembre 2007.
La riflessione, che nel dopoguerra ha dato come frutti non solo i fondamentali documenti citati, ma anche altre carte costituzionali, ha una delle sue fondamentali radici nelle elaborazioni condotte negli anni Trenta da forze politiche e soprattutto da gruppi intellettuali impegnati in politica di fronte a due fenomeni epocali: uno, il diffondersi del fascismo (principalmente l’avvento di Hitler al potere in Germania, ma anche la costituzione di partiti filofascisti o filonazisti, pur se restati minoritari, in parecchi paesi europei); l’altro la grande crisi economica sorta negli Stati Uniti e diffusasi nell’insieme dei paesi capitalisti provocando diversi anni di depressione.
Con una distinzione. La risposta alla depressione, tradottasi nell’adozione del welfare state, è stata opera dei governi in alcuni paesi dell’Europa occidentale. La risposta al diffondersi del fascismo (ovvero l’elaborazione di una visone antifascista, già contenente in sé una visione antitotalitaria rivolta criticamente anche verso il regime comunista instaurato nell’URSS) fu opera, prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, di minoranze intellettuali del tutto ininfluenti sul piano politico; e difatti sino alla vigilia della aggressione nazista i governi delle democrazie europee preferirono cercare una politica di compromesso col nazismo e col fascismo in nome del mantenimento della pace. I gruppi intellettuali antifascisti erano invece convinti che non vi potesse essere compromesso o pace col nazifascismo e difatti diversi loro esponenti presero parte alla guerra civile spagnola contro il franchismo e fu Carlo Rosselli a lanciare l’appello chiuso dalla celebre frase “Oggi in Spagna, domani in Italia”. A determinare ancor più la solitudine di questi gruppi vi fu, almeno sino al 1935, la sciagurata teoria elaborata dall’Internazionale Comunista, la quale considerava fascismo e socialdemocrazia due varianti dell’identico dominio di classe capitalistico e imperialistico. Linea poi sostituita da quella della formazione dei Fronti Popolari, a sua volta mandata a gambe all’aria allorché nell’estate del 1939 venne siglato il patto di non aggressione tra il ministro degli esteri sovietico Molotov e il corrispondente ministro nazista von Ribbentropp.
L’antifascismo venne assunto dalle democrazie occidentali (soprattutto per volontà di Roosevelt e quindi degli Stati Uniti entrati in guerra fine 1941) come un vessillo e per una stagione del secondo dopoguerra le elaborazioni degli anni Trenta dei gruppi politici di ispirazione liberaldemocratica o liberalsocialista costituirono una fondamentale risorsa nella redazione dei fondamentali documenti di cui ho parlato prima. Così come le teorie keynesiane orientarono una politica di aiuti economici da parte degli USA ai paesi europei sicuramente impoveriti e in larga parte distrutti dagli eventi bellici, di modo che non si riproducessero le condizioni di frustrazione e di desiderio di rivincita che erano state una delle ragioni della conquista del potere di partiti di estrema destra.

2.
Ho fatto questa lunga premessa per iniziare a porre la questione, davvero problematica, se nel pensiero di quei ristretti gruppi intellettuali italiani, che in patria o in esilio come è il caso di Carlo Rosselli e altri, si muovevano durante il regime fascista nel solco innovativo della liberaldemocrazia, del liberalsocialismo e del socialismo liberale, e che unificandosi costituirono nell’estate del ’42 il PdA vi siano, oltre che valori transtemporali, anche linee di azione in qualche misura transtemporali.
Per essi la questione centrale era come costruire l’integrazione democratica tra Stato e masse, tra nazione e masse sia di fronte al fallimento, proprio su quel terreno, delle tradizionali classi liberali (gran parte delle quali temevano che l’irruzione delle masse nella vita politica e l’allargamento della base sociale dello Stato comportassero di per sé il rischio di sistemi politici autoritari) sia di fronte, all’opposto, alla sua soluzione radicale attuata attraverso l’instaurazione di regimi totalitari.
Tale questione è ormai chiusa per quanto riguarda i cittadini di uno stesso stato, riproponendosi oggi solo per l’aspetto che riguarda il riconoscimento dei diritti di cittadinanza agli immigrati.
Invece una questione ancora oggi aperta, in tanti paesi che pure si configurano come stati di diritto, è quella che riguarda i fenomeni che logorano e incrinano la democrazia, insomma i segni di crisi che appaiono nei sistemi democratici. E’ rispetto a questa problematica che ci si può, ci si deve, interrogare se la cultura azionista mantenga indicazioni utili.
Proverò a dire qualcosa alla fine del mio intervento, ma per approcciarmi ad alcuni versanti di questa problematica accenno assai brevemente a due, tre punti del pensiero di Rosselli e del gruppo Giustizia e Libertà da lui fondato, non per privilegiare questo gruppo rispetto alle altre correnti dell’azionismo, ma per rendere più rapido il percorso del mio ragionamento.
Se non dico nulla sui diversi filoni culturali dell’azionismo, è perché darne anche una stringatissima sintesi è una impresa improponibile in questa sede, trattandosi di una storia complessa animata da protagonisti di notevole statura, che hanno lasciato tracce profonde nella cultura politica, economica, filosofica italiana ed anche nella politica italiana, quando alcuni di loro, scioltosi nel ’47 il Partito d’Azione, hanno operato in altri partiti.
Tralascio anche la visione di Rosselli e di Giustizia e Libertà del socialismo, antitetica a quella dei comunisti, dei socialisti massimalisti e fortemente critica anche nei confronti del riformismo socialista italiano nonché diversa dall’impostazione del liberalsocialismo italiano, il cui maggior esponente teorico fu Guido Calogero.
Mi interessano, per parlare dell’oggi, tre punti del pensiero rosselliano che in qualche modo si ripropongono nell’attuale dibattito politico-culturale.
Il primo attiene alla ripresa da parte del gruppo Giustizia e Libertà del giudizio gobettiano sul fascismo come autobiografia del popolo italiano. “Autobiografia di un popolo” per citare testualmente Gobetti “che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell’unanimità, che fugge l’eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell’entusiasmo”. Che predilige, in altre parole e in notevole maggioranza, per quanto riguarda le narrazioni sul presente, o quelle improntate ad un ottimismo superficiale o quelle contrassegnate da cupo pessimismo e dal peso delle paure.
Il secondo è il ruolo che Rosselli assegna al conflitto nel costituire qualsivoglia identità collettiva, e quindi anche l’identità nazionale.
Il terzo è il rapporto tra il partito e la società civile.
Per quanto riguarda il primo, ho visto che nei vostri appuntamenti precedenti avete dapprima discusso il libro di Guido Crainz Autobiografia di una Repubblica e successivamente avuto l’autore come relatore. Sebbene il titolo abbia un forte richiamo gobettiano, Crainz ricerca l’origine dei mali che indeboliscono oggi la democrazia italiana nei modi con cui dal dopoguerra le forze al governo hanno affrontato, sia nei tre decenni contrassegnati dalla guerra fredda che nel periodo successivo, l’evoluzione della società italiana. Non si avventura sul terreno scivoloso e incerto dei caratteri antropologici maggioritari nel popolo italiano, terreno di riflessione che peraltro ha una secolare tradizione, particolarmente incrementatasi negli ultimi cinquant’anni. Personalmente ritengo maggiormente valida la scelta di Crainz che assume come oggetto di analisi la concretezza delle trasformazioni avvenute negli scorsi decenni e le loro relazioni con i grandi corpi sociali e col mondo della politica.
Il giudizio di Gobetti e di esponenti di Giustizia e Libertà (soprattutto del suo agguerrito gruppo torinese) per cui il fascismo si nutre delle viscere della società italiana era in antitesi a quello di Croce secondo cui il regime mussoliniano sarebbe stato una parentesi nel cammino verso la libertà.
Si può forse ricordare che un altro dei filoni che dettero vita all’azionismo (ricordiamo che gran parte dei suoi componenti erano giovani tra i venti e i trent’anni) sviluppatosi a metà degli anni Trenta dopo l’avventura etiopica di Mussolini in modo del tutto autonomo rispetto all’esperienza di Giustizia e Libertà si era formato proprio nell’ambito della concezione crociana della storia come cammino progressivo verso la libertà, ma se n’era progressivamente staccato sia nel giudizio sulle forze politiche e culturali del prefascismo che s’erano dimostrate incapaci di fronteggiare l’ascesa del fascismo (tant’è che il liberalsocialismo dichiarava di non voler riattivare l’antifascismo prefascista ma di voler costruire un antifascismo post fascista) sia per l’esigenza di non considerare in astratto la libertà, ma di dare ambiti e contenuti precisi alle diverse libertà in opposizione ed in alternativa alle concezioni fasciste dello Stato etico, dello Stato corporativo negatore delle classi, dello Stato totalitario soppressore della pluralità delle libertà. Inoltre quel gruppo (i cui maggiori teorici furono Aldo Capitini e Guido Calogero) sosteneva che «il dovere di una sempre più vasta liberazione degli uomini da qualunque forma di servitù» (sono parole di Calogero) richiedesse una radicale sintesi di liberalismo e socialismo (tesi aspramente criticata da Croce e dai crociati che la definivano un ircocervo, animale mitologico inesistente al pari della chimera).
Se ho richiamato, rozzamente, il pensiero di Rosselli sul consenso degli italiani al fascismo, crescente sino al 1940, è perché oggi tanto si scrive e si discute sulle ragioni dell’affermazione del berlusconismo, sul fenomeno del berlusconismo che ha caratterizzato gli ultimi quindici anni e che ha più volte (fortunatamente non sempre) ricevuto, in elezioni democratiche, un consenso maggioritario. Consenso all’uomo, al leader carismatico e non ad un partito come è stato per i governi diretti per quasi quarant’anni dalla DC. Ora c’è chi vede nella larga accettazione del berlusconismo un fenomeno che avrebbe a che fare principalmente con il cosiddetto carattere maggioritario del nostro popolo, indifferente verso i principi basilari della democrazia, poco provvisto del senso di responsabilità individuale e collettiva (e quindi sia di virtù civiche che di senso dello Stato), incline a subire il fascino dell’uomo forte, dell’uomo di potere, dell’uomo che pone se stesso al di sopra delle leggi, indifferente all’asservimento al potere dei mezzi di comunicazione, propenso ad accettare una visione distorta della realtà ove la narrazione della stessa si ammanti, parafrasando Gobetti, di ottimistica superficialità, di fiducia nell’uomo della provvidenza. Come c’è chi vede, nel valutare la situazione delle forze che sono all’opposizione, l’incapacità sia di generare un netto, chiaro conflitto sui temi concreti che dia ad esse identità sia di esprimere una strategia che leghi la concretezza programmatica ad una visione del futuro della società capace di suscitare la partecipazione dei cittadini alla lotta politica.
Una opposizione quindi, riprendendo il secondo punto rosselliano, che non sa darsi una chiara identità né proporre, in tempi in cui viene contestata e soprattutto sottoposta a fenomeni di logoramento, una visione dell’identità nazionale. Questione, quest’ultima, di particolare rilevanza in questi anni, di fronte all’offensiva della Lega che si è appropriata di una idea, quella federalista, che in Italia ha un consistente tradizione democratica nell’Ottocento e che è stata uno dei caposaldi del pensiero azionista. La Lega l’ha imposta nell’agenda politica come la riforma delle riforme. E’ questo un tema su cui l’opposizione ha giocato continuamente di rimessa, facendo giustamente le pulci al federalismo nebuloso, propagandistico e contraddittorio della Lega, ma poi incapace di configurare una propria visione di un Italia federale ed altrettanto di avere una chiara proposta sui temi delle riforme istituzionali.
Ma analisi di tal tipo, assai diffuse, su Berlusconi o sull’opposizione, per quanto contengano indubbi elementi di verità, non danno sufficienti elementi di spiegazione in quanto, e per questo do ragione a Crainz, non ne indagano le radici che affondano in un più lungo contesto storico, caratterizzato da trasformazioni che hanno mutato il volto del mondo e il volto dell’Italia. Il discorso sarebbe lungo e complesso, ma per farla breve la cultura della sinistra è stata prevalentemente una cultura della crisi, ovvero l’assolutizzazione degli elementi di crisi presenti in un determinato periodo. Visione spesso dettata da necessità propagandistiche, che ha comportato due elementi negativi: la sottovalutazione degli elementi di sviluppo o di modernizzazione che erano egualmente presenti e l’arroccamento, nonostante le tante e meritorie lotte condotte, su posizioni di difesa dello statu quo. Il positivo era pressoché interamente affidato a quando la sinistra sarebbe andata al governo: allora sì la trasformazione democratica dello Stato, allora sì la riforma complessiva della giustizia, allora sì tante altre cose. Sicché più volte, mentre la sinistra esponeva le riforme che avrebbe fatto una volta al governo, in quanto essa affermava per prima che occorreva superare l’assetto centralistico e burocratico dello Stato, occorreva provvedere al malfunzionamento della giustizia, occorreva una vera riforma fiscale, eccetera eccetera, essa si è trovata, di fronte alle iniziative altrui, più volte posta a guardia dell’esistente, di un esistente da essa stessa criticato.
Quanto al terzo punto, ovvero l’idea rosselliana, e possiamo dire tout court azionista, del partito come soggetto importante ma non esaustivo della partecipazione dei cittadini alla politica (partecipazione al contrario ritenuta fondamentale) beh, non mi pare che scomparsi i partiti di massa, che comunque un legame vero col territorio e coi problemi della gente l’avevano, si sia oggi definito bene il rapporto tra partito e partecipazione politica.
Insomma, senza negare interesse all’esame di taluni modi di essere di buona parte degli italiani, a me pare più interessante e proficuo ripensare criticamente la storia della sinistra (che per altro, ripeto ha avuto anche grandi meriti) perché determinate loro ombre si allungano sul presente e determinati loro modi di agire, pur deideologizzati, nei fatti sono ancora presenti. E anche da qui le sue attuali difficoltà.
Tutti e tre i punti tratti da Giustizia e Libertà meritano di essere riconsiderati, ma a mio avviso solo gli ultimi due offrono spunti al dibattito attuale.
C’è da fare una considerazione più generale. Pur se declinati in modo differente dai diversi gruppi che costituiranno il Partito d’Azione, i rapporti tra libertà (tema centrale del liberalesimo) e giustizia (tema cruciale del socialismo) sono al centro della riflessione. La differenza tra il gruppo di Giustizia e Libertà e il gruppo attorno a Calogero-Capitini consisteva nel fatto che il primo compiva una scelta socialista, nella quale il Socialismo era il sostantivo e liberale l’aggettivo qualificativo, mentre Calogero intendeva col liberalsocialismo indicare «qualcosa di assolutamente inedito: la scelta di questo termine, col suo riferimento a due vecchi nomi, era per dare una prima indicazione all’ascoltante, ma in realtà designava un solo e nuovo concetto». Costituivano la tavola dei valori.
Giustizia e libertà sono valori universali, assolutamente transtemporali, ma richiedono di essere ogni volta ripensati e proposti in rapporto ai contesti in cui debbono avere vigenza. Peraltro sono termini scippati dall’attuale maggioranza politica, distorti nel senso di una libertà tutta individualistica e insofferente alle regole e ristretti nel senso di una giustizia, sostanzialmente in posizione subordinata rispetto al potere politico, confinata alle questioni della organizzazione dei suoi apparati giuridici, e totalmente noncurante dei problemi della giustizia sociale. E su questi la sinistra è in una posizione difensiva, particolarmente disagevole per quanto riguarda la vasta tematica della giustizia. Entrambi questi valori comportano, tra altre cose, il diritto alla sicurezza dei cittadini. Ed anche questo è un tema di cui si è appropriata la destra, ignorando la sua complessità e riducendolo più o meno alla questione della microcriminalità (cioè quel suo aspetto che maggiormente inquieta i cittadini). La microcriminalità è un problema reale, ma solo per fare un esempio il diritto alla sicurezza ambientale (la cui mancanza ha provocato in questi anni un numero considerevole di morti) è del tutto trascurato, tanto c’è…. Bertolaso. Ho fatto questo ultimo accenno non per indulgere a facile polemica, ma per anticipare un punto cruciale del mio ragionamento: il diritto alla sicurezza ambientale, così connesso ai temi della libertà e della giustizia, era nel contesto del periodo in cui ha operato l’azionismo del tutto estraneo, mentre è assolutamente centrale oggi, nel mondo e particolarmente in Italia. E dunque, torno a ripetere, determinati valori vanno ripensati in stretto rapporto al presente. La loro universalità non è immobile, data una volta per tutte, va continuamente aggiornata in rapporto ai problemi del presente.

3.
Prima di entrare nel merito di questo tema, dico solo una cosa sul quinquennio (1942-1947) in cui è esistito il PdA. Dico solo una cosa, perché la pur breve storia del PdA è stata complessa, travagliata da divisioni. Personalmente condivido il giudizio di quegli storici che non vedono nelle divisioni politiche interne la causa della breve vita del PdA e la trovano invece sia nella ristrettezza dei suoi insediamenti sociali (fu presente soprattutto tra i ceti medi intellettuali) sia – e soprattutto – sul pesante ridimensionamento del suo ruolo politico (che durante la guerra di liberazione era stato assai rilevante), nel dopoguerra.
Ridimensionamento in realtà inevitabile. La tesi azionista della necessità di una rivoluzione democratica o di una grande rigenerazione morale e civile, al termine del conflitto mondiale, si scontrava con una diversa necessità indicata e perseguita dagli altri, ben più robusti, partiti di sinistra, il comunista e il socialista. La lotta di liberazione aveva interessato solo una parte del paese e coinvolto solo una parte della popolazione (che così fosse fu testimoniato dall’esito del referendum istituzionale del ’46) e dunque l’interesse preminente dei comunisti e dei socialisti era l’alleanza con un partito di massa, la Dc, che aveva partecipato alla lotta di Resistenza, e che, sia per l’appoggio della Chiesa sia per aver proposto da subito la pacificazione nazionale, era in grado di diventare punto di riferimento non solo per i moderati ma per masse che sì avevano abbandonato il fascismo sconfitto ma non erano diventate antifasciste. Masse che storicamente erano state divise, da un lato i lavoratori dell’industria e dall’altro i contadini, e quindi era vivo il timore che tale frattura si perpetuasse. Solo la Dc era in grado di convogliare i ceti medi moderati e le masse contadine nell’ambito di un processo democratico, fortemente moderato ma comunque democratico.
In questo disegno delle sinistre comunista e socialista il PdA, in quanto partito essenzialmente d’opinione e non di massa, non aveva alcuno spazio, né poteva esercitare un peso politico e ciò fu sancito da due fatti: precocemente dalla sua esclusione ai vertici della Cgil ricostituitasi ai primi dell’estate ’44 come sindacato unitario (vertici costituiti da Pci, Psi e Dc), e nel ’46 dal risultato magrissimo ottenuto nelle elezioni per la Costituente. Il PdA occupò il ’47 discutere se confluire nel neonato Psli costituito a seguito della scissione di Saragat dal Psi (ed in un primo momento l’orientamento fu in quella direzione) oppure nel PSI (e quella sarà la scelta definitiva, seppure da essa molti dirigenti e militanti del PdA si distaccheranno).
Il PdA fu dunque una meteora sulla scena politica, sebbene studiarne le posizioni assunte rispetto ai problemi che assillavano l’Italia nel dopoguerra presenti tuttora interesse. Di particolare interesse è poi il suo impatto con la politica, con la tortuosità della politica, con la complessità degli interessi materiali da mediare. Un impatto difficile su uomini che, estranei ad essa, avevano invece una grande linearità di pensiero e di propositi. Ma non per quello che riguarda il tema di questa conferenza.

4.
Su azionismo e PdA è calato per un quarantennio l’oblio. Poi alcuni grandi fatti, di natura diversa, hanno riacceso l’interesse, sia in senso positivo che negativo.
In senso positivo, la caduta dei regimi comunisti ha portato in Italia ad una rilettura, che per altro non ha avuto effetti pratici, del liberalsocialismo e del socialismo liberale. Non ha avuto effetti per diverse ragioni e ne indico soltanto due: una è stata l’insufficiente riflessione autocritica della sinistra e del suo maggiore partito, il Pci, il quale durante il periodo berlingueriano aveva sì tolto dal suo Statuto il riferimento al marxismo-leninismo, ma non ha poi fatto apertamente e chiaramente i conti con i dogmi del marxismo, preferendo abbandonare silenziosamente tale ideologia. La seconda, per dirla assai rozzamente, è che tra gli effetti della globalizzazione c’è anche la brutale messa in discussione della capacità del socialismo di affrontare le sfide del nostro tempo da parte di tanti che ritengono inevitabile che tutto ormai sottostia al predominio del ruolo dei mercati nell’economia, nella politica e nella organizzazione sociale. La questione se vi sia ancora oggi spazio per politiche socialiste è di straordinaria complessità. Personalmente, lo dico solo come inciso, ritengo di sì e tra le dottrine socialiste quella del socialismo liberale, ove sia effettivamente chiamata a misurarsi coi problemi dell’oggi e del domani, mi appare la sola dotata delle potenzialità necessarie per opporsi allo strapotere irresponsabile della finanza internazionale (ben rivelato dall’attuale crisi) e alle nuove forme di oppressione
In senso negativo, sull’azionismo si sono riversate accuse di ogni sorta, per la maggior parte strumentali e dirette negli anni passati a esorcizzare la partecipazione comunista al governo ed a spezzare il legame tra antifascismo e Costituzione e nel periodo attuale a diffondere la convinzione che ogni idea di socialismo, compresa quella del socialismo liberale, sia oggi improponibile.
Mi limito qui a considerare – da un lato per l’eclisse della questione relativa alla partecipazione del Pci al Governo (sia per la scomparsa/trasformazione di questo partito, sia per l’adozione del sistema elettorale maggioritario) e dall’altro per la complessità del tema di quale socialismo sia possibile oggi – unicamente il proposito dei critici dell’azionismo di spezzare il legame antifascismo-Costituzione.
Perché hanno di mira proprio l’azionismo visto che il PdA è morto da sessantatre anni? Lo fanno perché il solo antifascismo che può sopravvivere è quello liberaldemocratico o liberalsocialista in quanto fin dalle origini contiene la condanna di ogni totalitarismo, mentre quello comunista (nonostante che l’apporto maggiore alla lotta contro il fascismo sia stato dato dal Pci) è rimasto per troppo tempo offuscato dal legame mantenuto con i regimi comunisti di natura totalitaria.
L’anti-antifascismo, posizione che ha tuttora robusti corifei, ha difatti avuto come bersaglio principale l’antifascismo di ispirazione azionista in quanto esso ha strumenti attrezzati a indagare le diverse forme involutive o degenerative di un sistema democratico, anche quando esse non sono colte come tali da buona parte dei cittadini. Orbene in Italia, l’ossequio e talora l’asservimento alle concezioni proprietarie del potere, l’indifferenza verso la legalità e verso i connotati fondamentali dello stato di diritto, la vastità della corruzione e dell’evasione fiscale, hanno una vasta diffusione, di grande pericolosità.
La differenza, negli anni Trenta, tra i grandi partiti socialdemocratici e gli sparuti gruppi liberalsocialisti è che i primi non percepivano la profondità della crisi della democrazia, ponendone come causa essenziale il dominio del capitalismo (in altre parole individuavano fascismo e nazismo come pure reazioni del capitalismo all’avanzata sociale delle masse lavoratrici) e quindi s’occupavano principalmente di altre questioni, mentre i secondi ad essa prestarono la maggiore attenzione, cercando di analizzarne l’insieme delle cause.
Il problema mi pare si ripresenti in Italia e non solo in Italia, seppure in modo ingarbugliato. Certamente hanno ragione quanti mostrano grande diffidenza verso la priorità che l’attuale maggioranza assegna alle riforme costituzionali e istituzionali intendendone i fini strumentali e certamente non hanno torto a porre come prioritari altri problemi che riguardano l’Italia (l’economia, l’occupazione, il futuro allarmante dei giovani, il presente quanto mai allarmante che riguarda la scuola, l’università, la ricerca scientifica e quanto altro). Ma la riflessione sulla degenerazione della nostra democrazia è un nodo ineludibile rispetto al quale non basta la denuncia del cesarismo, del populismo, della decadenza dell’etica pubblica. Occorre un discorso in positivo sulla democrazia e sulle misure per arrestarne il decadimento.
Ma, detto e sottolineato che uno dei principali (e forse il principale) contributi intellettuali dell’azionismo fu su questo tema, il problema di individuarne un’eredità che ci dica qualcosa sul presente è tutt’altro che semplice. Non tanto, ripeto, nella tavola dei valori o nella proposta del socialismo liberale, quanto nella traducibilità di questi valori, o meglio di idee guida, nel tempo presente.
C’è indubbiamente una eredità morale che, direttamente o meno, consapevolmente o meno, è ancora viva in molti cittadini, ma non trova traduzione coerente e mobilitante nei partiti politici per i quali votano. E c’è un discorso da fare sui partiti. L’azionismo riconosceva il ruolo dei partiti ma lo legava strettamente, si potrebbe dire lo subordinava, alla partecipazione, anche e soprattutto con forme autonome, della società civile e dei cittadini alla politica. Alla società civile riconosceva una sorta di primato. Il che oggi, al di là di riconoscimenti formali o dell’adozione di strumenti quali le primarie il cui significato di fondo non è mai stato ben chiarito (e difatti sono state usate o per investiture di tipo plebiscitario o per risolvere questioni interne al partito) il rapporto partito-presenza di movimenti nella società civile-partecipazione dei cittadini è al tempo stesso episodico e contraddittorio. A questo dato si può aggiungere la scomparsa di fatto del partito di massa (modello assai diverso da quello azionista, ma tuttavia capace di organizzare energie dal basso e di costruire una serie di strumenti collaterali) ragion per cui si è accentuato il distacco di tanti dalla partecipazione attiva alla vita politica.
C’è un altro punto. Riguarda il programma politico. Credo che molti di noi sanno dire, in pochissime parole, quali sono stati i cardini del programma politico del PdA. Sul terreno economico libero mercato ma regolazione dello stesso da parte dello Stato attraverso linee di indirizzo e strumenti di controllo; sul terreno istituzionale democrazia parlamentare integrata da un efficiente sistema di autonomie locali e da strumenti di democrazia diretta, di modo che alla prima (la democrazia rappresentativa) fosse garantito un costante apporto e consenso da parte della democrazia diretta; sul terreno del sistema politico la possibilità di un’alternanza tra destra e sinistra nel governo
Ma il PdA è stato un partito storicamente determinato di un tempo, ormai lontano, storicamente determinato. Di un tempo che aveva sul tappeto problemi, nazionali e internazionali, radicalmente diversi da quelli attuali.
Guai a creare accostamenti impropri tra situazioni radicalmente diverse. E’ facile cadere in questa tentazione, è facile cedere alla suggestione di stabilire analogie. Una ventina di giorni fa, guardando dei documenti della RSI, mi è capitato tra le mani uno scritto del 1944, mai letto prima, di Mussolini intitolato Storia di un anno. In esso Mussolini scrive che la rivoluzione fascista non riuscì a realizzarsi a pieno in quanto lui aveva dovuto condividere il potere con la monarchia che, a suo dire, deteneva i poteri veri. Quando uno legge questo, gli vengono subito in mente quei reiterati discorsi di Berlusconi in cui dice che se non è riuscito a realizzare i suoi grandi programmi la colpa è di Napolitano, della Corte Costituzionale, della magistratura o di altri oscuri “poteri forti” privi della legittimità data dal voto popolare.
Nel libro Il cavallo e la torre, che considero il più importante tra i numerosi libri di memorie scritti in questi anni da uomini politici della Prima Repubblica, Vittorio Foa, personaggio di spicco dell’azionismo, dopo aver detto che nessun filo rosso lega il pensiero azionista degli anni Trenta e Quaranta cogli enormi cambiamenti avvenuti in questi anni, scrive che azionismo e PdA vivono in lui “come una metafora della ricerca” .
Metafora della ricerca. Con ciò, al contempo indicando sia che l’elaborazione degli azionisti fu alta perché fu alto il loro impegno di studio, di analisi, di comprensione dei fenomeni politici e sociali del loro tempo sia che oggi vi è bisogno di una eguale capacità di studio e di analisi dei mutamenti del presente e di quel futuro i cui segni sono già iscritti nel presente.
Le concezioni e le parole chiave dell’azionismo vanno faticosamente ripensate in rapporto all’oggi.
Ripensata la parola libertà, vessillo per duecento anni del pensiero democratico, ed oggi scippata e distorta dal nuovo populismo.
Ripensata la parola giustizia, nel senso ampio che ad essa hanno dato il movimento socialista e la nostra Costituzione avendo come obbiettivo l’inclusione; ed è particolarmente difficile non avendo più di fronte classi omogenee, ma situazioni umane, sociali e lavorative profondamente diversificate e spesso frammentate, avendo di fronte il grande problema dell’immigrazione. Ripensata anche di fronte ad un problema quanto mai stringente che è il malfunzionamento del nostro sistema di giustizia civile e penale.
Ripensata la parola democrazia, non solo come sistema di strumenti e regole di garanzia o come sistema di equilibrio di poteri, ma come partecipazione; questione complicatissima in una fase di motivata disaffezione dei cittadini verso la politica.
Ripensato ciò che deve intendersi come etica pubblica e come sanzionarne l’inosservanza.
Ripensato il problema di “quale socialismo” sia oggi possibile e utile e se quello liberale abbia la capacità di rianimare la forza progettuale della sinistra, oggi pressoché tramortita.
Un’ultima questione che vorrei affrontare, tornando al punto da cui sono partito, riguarda il pericolo, quanto mai incombente, di stravolgimento della nostra Costituzione. Il tentativo di alterarla venne, pochissimi anni, fa respinto dal voto popolare. Ma ciò non dà oggi nessuna tranquillità.
In realtà noi siamo arroccati, riprendendo un ragionamento assai pertinente di Zagrebelski, nella difesa della legalità della Costituzione, ma non sappiamo rivivificarne la legittimità. La legittimità (cioè il consenso popolare maggioritario) sembra stare dalla parte di chi vuole modificare profondamente la Costituzione ed il nostro assetto istituzionale. Sembra stare da quella parte in quanto il voto popolare, da un paio d’anni, premia l’attuale maggioranza e quindi esprime consenso a comportamenti praticati e ad intenzioni manifestate che sono in contrasto con la nostra carta costituzionale.
Da tempo Zagrebelsky ammonisce che «la difesa della Costituzione non può limitarsi alla pur necessaria denuncia delle violazioni e dei tentativi di modificarla stravolgendola», ma che occorre prendere atto che nel corpo sociale dell’Italia si è prodotto qualcosa di nuovo e profondo che indebolisce la grande forza da essa manifestata per decenni di rispondere ai problemi via via emergenti. Qualcosa di nuovo e profondo, dice Zagrebelski, che ha modificato le aspettative di molti cittadini, rinserrandole dentro i confini del presente, degli interessi individuali e di gruppo, qualcosa che si manifesta, e cito testualmente l’illustre giurista, «da un lato nell’indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria e dall’altro lato nel sostegno alla concentrazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere».
La conclusione di Zagrebelsky è che per difendere la Costituzione occorre agire «anche e soprattutto con politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza, istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola con politiche di legame sociale.»
Il che vuol dire considerare la Costituzione del ’48 come un albero vivo, capace di dare frutti ad ogni stagione, ovvero come un corpo giuridico che rispetto ai problemi del presente contiene indicazioni ancora assai valide e grandi potenzialità tuttora inespresse.
La conclusione del mio excursus, e mi scuso della sua pochezza, è che nulla di preconfezionato, di “pronto per l’uso” o di facilmente riattabile, aggiornabile ci viene dall’azionismo.
La grandezza dell’azionismo sta nell’aver proposto il rinnovamento della democrazia e del socialismo in anni in cui la prima veniva soppressa in Italia (e in altri paesi) ed il secondo assumeva nell’Unione Sovietica un volto totalitario e liberticida.
Si può esserne, idealmente, eredi se con eguale impegno di conoscenza e di proposte
affrontiamo i temi della libertà e della giustizia così come si pongono oggi, in tempi radicalmente mutati rispetto ai periodi che hanno immediatamente preceduto o immediatamente seguito la Seconda guerra mondiale.

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