L’Unità d’Italia appesa al filodella Lega

03 Mag 2010

Dunque, il ministro leghista Roberto Calderoli, celebre inventore del “Porcellum” elettorale, nonché promotore della bozza di riforma costituzionale che dovrebbe portare Berlusconi al Quirinale, ne ha fatta un’altra delle sue. Ha detto che alle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia il suo partito probabilmente non ci sarà perché “è inutile parlare di un totem”, “la celebrazione ha poco senso” ed è molto meglio “realizzare il federalismo”. A queste parole inevitabili reazioni. E anche ipocrite manifestazioni di meraviglia e di stupore. Ma di che cosa dovremmo stupirci? Il dissenso leghista viene ora fuori con tutta evidenza. Però, poteva essere percepito tranquillamente da tempo. Nelle dimissioni di Ciampi dalla presidenza del Comitato dei garanti per le celebrazioni, era già facile leggere il disagio per le posizioni del Carroccio su un tema così delicato. Nei giorni successivi, le dimissioni di altri membri del Comitato, da Gustavo Zagrebelsky a Dacia Maraini, hanno troncato ogni equivoco. Altro che celebrazioni per la nascita dello Stato italiano! Sotto questo governo, retto dalla beata ditta Berlusconi-Bossi, il disfacimento del sentimento d’unità nazionale si sta facendo sempre più rapido e inesorabile.
Del resto che cosa disse, a suo tempo, Umberto Bossi, dell’uso che avrebbe voluto fare del Tricolore? Si obietta che quella Lega coltivava l’idea della secessione, mentre quella odierna è una Lega di governo.

Sarà. Ma che cosa dicono i leghisti che stanno oggi dentro le istituzioni? Roberto Cota, governatore del Piemonte, ha dichiarato subito che a lui dei problemi dell’occupazione di Termini Imerese, in Sicilia, non gli importa nulla. E, con altrettanta chiarezza, ha parlato il governatore del Veneto, Luca Zaia, quando si è discusso dei problemi dell’agricoltura, affermando che a lui bastano e avanzano i problemi rappresentati dall’agricoltura veneta. Questa è la strada sulla quale si muove la Lega dopo la vittoria elettorale che le ha consegnato il comando delle regioni del Nord. Al Carroccio, con la sua sottocultura anti-risorgimentale, l’Italia non interessa. Gli importano le cose di casa propria, la difesa degli interessi locali. E’ questo, almeno in parte, il suo radicamento sul territorio. Una presenza che nasce dagli interessi e, anche, dalla paura. La paura di difendere il territorio dalla contaminazione degli altri.
Il messaggio è molto chiaro. La Lega sostiene con lealtà Berlusconi, ma è ormai il motore della maggioranza e del governo. Bossi può chiedere o, meglio, pretendere. Non ha sempre sostenuto, il Carroccio, che nelle scuole ci vogliono docenti nati sul territorio, capaci di insegnare il dialetto locale, che, per i seguaci del “senatur”, è il presupposto della capacità di insegnare cultura? Ecco che il premier si affretta a fornire i necessari supporti legislativi. Al suo rientro nella vita pubblica dalla maternità, il ministro Gelmini ha subito provveduto: è bella e pronta la legge sugli insegnanti regionali, che ammette in graduatoria soltanto chi risiede in quel determinato territorio.

La Lega non partecipa alle celebrazioni. Però, il suo contributo per celebrare i 150 anni dell’Italia unita lo dà: la disunione dei docenti.
Quante mura e torri si moltiplicheranno sulle terre leghiste? Comunque, per Bossi, l’assoluta priorità è il federalismo fiscale, per ora rimasto scatola vuota. Il Cavaliere deve darglielo se vuole tenere in vita il governo e avere l’attesa contropartita sulla giustizia. Qui il discorso si fa politicamente più complicato. E’ vero che il federalismo fa ormai parte della retorica di tutti i partiti, anche dei più tradizionali. Ma affidato agli eccessi leghisti potrebbe diventare l’anticamera della disunità d’Italia, mettendo in crisi la coesistenza istituzionale, politica, economica. E’ un’ipotesi che riguarda tutti. Destinata a prendere forza se non c’è un soprassalto collettivo.

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