1947, primo scandalodella Repubblica

03 Mag 2010

Qui oggi si racconta di come, quando e perché – grazie anche ad una violazione della “sacralità” dell’aula di Montecitorio – Andrea Finocchiaro Aprile, oggi semidimenticato leader del Movimento per l’indipendenza della Sicilia, poté lanciare all’Assemblea costituente roventi accuse di malaffare politico nei confronti di due ministri dc. Fu la prima denuncia di illeciti arricchimenti, la madre (da allora sempre gravida) di sporche vicende culminate, ma poi tutt’altro che finite, con la tempesta di Tangentopoli.
Siamo dunque nel febbraio 1947. Si è appena costituito il terzo governo De Gasperi, l’ultimo in cui sono presenti comunisti e socialisti che ne saranno sfrattati di lì a quattro mesi, dopo il famoso viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti: ne tornerà, come ognun sa, con un vistoso assegno di “aiuti” non propriamente disinteressati. Finocchiaro Aprile (già deputato e sottosegretario con Nitti prima del fascismo, e ora alfiere di quel sussulto separatista in cui convivevano un’anima progressista ed una reazionaria) ha bisogno di visibilità per il suo movimento ed ha in mano qualche carta da giocare per rivelare quello che gli storici della prima repubblica – ma la seconda dov’è? – indicheranno come il primo scandalo politico-affaristico del dopoguerra.
Nel dibattito sulla fiducia al governo Finocchiaro Aprile interviene tra i primi ma solo per preannunciare che l’indomani farà rivelazioni sensazionali su ministri che, contro ogni norma di rigore morale, giocavano in borsa o avevano ricoperto incarichi extraparlamentari ben retribuiti.

Il pomeriggio del giorno appresso aula e tribune sono gremite, nell’attesa delle famose rivelazioni. Ma alcuni dati, preziosi per sostenere la denuncia, tardano: chi è stato delegato a fornirglieli non arriva per tempo. Sicché Finocchiaro Aprile, quand’è chiamato ad intervenire, non può che confidare nella propria facondia oratoria per guadagnare tempo. Tempo in effetti ben impiegato, perché, mentre sta parlando, finalmente il messaggero arriva trafelato.
In fremente attesa all’ingresso principale di Montecitorio c’è un giornalista siciliano, amico e collaboratore del leader del Movimento: Mario La Rosa, allora giovane cronista parlamentare: resterà sulla breccia della sala stampa sino a tardissima età. La Rosa dunque strappa di mano al messaggero un prezioso foglio zeppo di dati. Taglia di corsa la sala stampa e il corridoio verde, corre in Transatlantico (allora proibito ai giornalisti) e, non trovando all’istante un commesso che rechi in aula all’oratore l’essenziale messaggio, addirittura si fionda nell’emiciclo, salta a due per volta gli scalini che portano al banco di Finocchiaro Aprile e, alla buon’ora, la missione è compiuta per tempo. (Immaginatevi l’ira di commessi e questori per la profanazione e il profanatore che comunque guadagnò rapidamente l’uscita e si risparmiò fortunosamente guai peggiori: in aula possono entrare solo i parlamentari, i funzionari addetti ai lavori e gli assistenti-commessi.)
Difficile invece immaginare oggi l’ira e, per contro, la sensazione per le accuse di Finocchiaro Aprile.

Pietro Campilli (Finanze e Tesoro) è chiamato in causa per speculazioni in borsa. Ezio Vanoni (Commercio estero) viene tirato in ballo per aver percepito compensi illeciti quand’era commissario della Banca dell’Agricoltura per conto del Comitato di liberazione nazionale. Campilli si difenderà sostenendo (e facendo sostenere dal direttore generale del Tesoro) che un agente di cambio aveva sì speculato in borsa, ma a sua insaputa. Vanoni invece in qualche modo ammetterà, tuttavia sostenendo di aver trattenuto solo un terzo del monte retribuzioni-liquidazione, e di aver versato il resto alla Dc: una novità che diverrà norma (non solo in casa scudocrociata) per il successivo mezzo secolo.
Insomma, giustificazioni un po’ fragili, tanto che la Costituente, su proposta del suo presidente Giuseppe Saragat (cui poi, dopo la scissione socialdemocratica, succederà il comunista Umberto Terracini) decide di nominare un’assai autorevole commissione d’inchiesta: c’erano tra gli altri l’azionista Piero Calamandrei, il liberale Aldo Bozzi, il socialista Ludovico D’Aragona. La commissione conclude l’inchiesta alla vigilia della crisi di governo con una censura severa per incarichi e affari extraparlamentari; con l’accertamento che ben 67 costituenti ricoprivano cariche retribuite presso banche, aziende pubbliche e private, enti economici; con la raccomandazione infine di una regolamentazione, formulata di lì a poco per legge, delle incompatibilità per i membri del Parlamento e ancor più (ne si constatano ancor oggi i frutti…) per i membri del governo.

In sostanza Vanoni, e ancor più Campilli, non risultavano pienamente assolti. Tanto che il loro collega dc Giovanni Gronchi, più tardi presidente della Camera e poi capo dello Stato, sostenne addirittura che le accuse contro il ministro delle Finanze e Tesoro erano così circostanziate da rendere opportuna la sua estromissione dal governo. De Gasperi volle allora che fosse un voto dell’assemblea a sgravare i due ministri da ogni sospetto. “Le sinistre, pur essendo alla vigilia dell’allontanamento dal governo, e forse per rinviare se non evitare l’evento, solidarizzarono con la Dc”, noterà con malizioso realismo il politologo Giorgio Galli nel suo “Affari di Stato”, la prima storia degli scandali, dei misteri, delle corruttele dell’Italia repubblicana.

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