Brunetta lo nomina/e il Senato lo boccia

14 Gen 2010

Secca e severa sconfitta del ministro per la Funzione pubblica e l’Innovazione, Renato Brunetta, che si è visto bocciare in Senato il suo candidato alla testa di un ente saldamente da lui controllato. Su proposta di questo noto, severo censore del lavoro pubblico, il Consiglio dei ministri aveva infatti designato poco prima di Natale per la presidenza della DigitPA (che succede al Centro nazionale per l’informativa nella pubblica amministrazione confermandone tutte le delicatissime funzioni di ammodernamento della macchina statale) un suo stretto collaboratore, il dottor Davide Giacalone. Nomina assolutamente impudica: Giacalone, ai tempi di Tangentopoli, era stato inquisito per corruzione e per questo arrestato (reato più tardi prescritto seppur effettivamente compiuto, eccome) ma che ha continuato a muoversi abilmente nel giro del centrodestra.
Ebbene, trattandosi di nomina in un ente pubblico, il governo aveva trasmesso la nomina alle commissioni Affari Costituzionali di Senato e Camera per il prescritto parere. E, contro ogni previsione, la nomina è stata bocciata dalla commissione di Palazzo Madama. Undici voti contro, undici a favore, tre astenuti: “La proposta di nomina – ha annunciato il presidente della Commissione, Carlo Vizzini – non è stata approvata e dunque il parere della Commissione è contrario”. Furibonda la reazione del ministro. E la prossima settimana toccherà alla analoga commissione di Montecitorio. Ma l’imbarazzante disfatta subìta da Brunetta a Palazzo Madama è già un segnale inequivoco dei dissensi nella (teoricamente ferrea) maggioranza che Pdl e Lega hanno nella Commissione: almeno due del centrodestra hanno votato con l’opposizione e tre, sempre della maggioranza, si sono astenuti.

Comunque ora, a maggior ragione, il governo dovrà rispondere ad una interpellanza urgente con cui il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, ed altri deputati dell’Idv, hanno chiesto al governo di revocare la nomina.
E allora ricordiamo chi è Giacalone. Era stato, all’apice della sua prima carriera (tra il 1987 e il 1991), il fidato consigliere del ministro pro-tempore delle Poste e Telecomunicazioni, il repubblicano Oscar Mammì. Inquisito dal pool di Mani Pulite, Mammì aveva di fatto ammesso l’uso di contributi personali per la sua campagna elettorale che venivano detratti dalle tangenti che, nella tradizionale spartizione del fu quadripartito, toccavano al Pri. “Io non ho mai avuto a che fare con i soldi”, si era giustificato Mammì chiamando in causa il suo sottopancia: “Il mio collaboratore Giacalone pensava a tutto”. E Giacalone aveva riconosciuto: “Io gestivo i soldi che mi dava Parrella (ex dirigente dell’allora azienda statale per i servizi telefonici, ndr) e lo facevo anche per il ministro”.
La pm Cordova aveva accertato che si trattava non di bruscolini ma di miliardi di lire. Soldi versati sia dalle grandi imprese di forniture (dalla carta igienica ai computer) e sia dalle tv private che speravano di ottenere, e spesso hanno ottenuto, qualche privilegio nell’assegnazione delle frequenze. Guarda caso, era proprio il dr. Giacalone che elaborava il piano per conto di Mammì. E, guarda caso, dopo la collaborazione con Mammì, il medesimo Giacalone era diventato, con lauto compenso, consulente della Fininvest, della quale due dirigenti dell’epoca, l’attuale sottosegretario alla presidenza Gianni Letta e Adriano Galliani poi passato al Milan, erano stati coinvolti nello stesso procedimento.
Al dunque, il (sin qui mancato) capo della DigitPA viene arrestato per corruzione, ammette, chiama in causa il suo ministro, ma alla fine, nel 2001, l’inchiesta penale si chiude con una sentenza che dichiara la prescrizione del reato.

Resta l’inchiesta amministrativa: nel gennaio 2005 la Corte dei conti condanna Parrella, Mammì e Giacalone al pagamento in solido di due milioni e mezzo di euro di risarcimento alle Poste, ma sei mesi dopo, in sede di appello, la condanna di Giacalone è revocata “per errore di fatto”.
Cala un velo di pudore sul Nostro? Dura poco. Ha un suo blog, scrive libri (insieme a Vittorio Feltri, direttore del “Giornale”, e – guarda caso – a Renato Brunetta), collabora a “Libero”. Insomma ha tutte le carte in regola per diventare prima collaboratore del ministro Brunetta e poi, nel dicembre appena trascorso, per ricevere dal Consiglio dei ministri, come dono di Natale, la presidenza della Digit. Già, ma trattandosi di nomina pubblica, il governo ha dovuto trasmettere la nomina al Parlamento per un parere preventivo.
Considerata la maggioranza con cui il centrodestra controlla le commissioni di merito di Camera e Senato, nessun dubbio il governo ed in particolare Brunetta avrebbero dovuto avere sull’esito del parere. E invece ecco il colpo di scena che ridicolizza il ministro che ce l’ha tanto con i “fannulloni” dell’amministrazione pubblica. Con tutta evidenza il Giacalone non è considerato un fannullone: Brunetta sperava (e forse spera ancora) che l’amico si desse da fare secondo i suoi disegni.

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