Il giudice amico

02 Lug 2009

Sulla “abbagliante inopportunità” – come dice Ferrarella sul Corriere di oggi – della cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella, invitati Berlusconi e Alfano, nonché un secondo giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano, si è già detto molto. Non abbastanza, invece, sulla abnormità dell’iniziativa presa dallo stesso Mazzella e consistita nel rendere pubblica una lettera indirizzata al “caro Silvio”, nella quale Mazzella rivendica quale suo diritto di libertà il fatto di invitare a cena – non per la prima né certo per l’ultima volta – il presidente del consiglio, sulla cui sottoposizione o meno a processo per gravi reati la Corte, della quale Mazzella è membro, dovrà pronunciarsi nei prossimi mesi. Il “caro Silvio” viene definito, nella pubblica missiva di Mazzella, persona cara e amico stimato, mentre il mittente precisa che in casa sua non ci sono spioni e si premura di informare il destinatario che “molti miei attuali ed emeriti colleghi hanno sempre ricevuto nelle loro case alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico”, per concludere con accuse di totalitarismo a carico di quei “grandi inquisitori” che “raccontano frottole a ignari lettori” per fini “non nobili”, tanto da essere definiti “barbari”. Gli addebiti sono ovviamente diretti alla stampa, rea di aver diffuso la notizia della cena in questione.

Ma il vero destinatario della lettera di Mazzella non sono né Berlusconi, né la stampa “eversiva” (termine, quest’ultimo, introdotto dal “caro Silvio” per definire l’informazione non addomesticata). Colpisce anzitutto, nel testo, la estrema informalità e veemenza del lessico: non è un giudice costituzionale che scrive ad un presidente del consiglio, è un amico che invoca il legame che lo unisce al suo sodale e si scaglia contro i comuni nemici; totalmente assente è la consapevolezza dei ruoli pubblici di entrambi, inesistente qualsiasi sensibilità istituzionale. Domina su tutto la pretesa di Mazzella di affermare la prevalenza del legame personale sulla responsabilità istituzionale: il giudice – e non uno qualsiasi, ma un componente del massimo organo giurisdizionale del paese – nega apertamente che sia sbagliato intrattenersi amichevolmente con membri del governo, uno dei quali direttamente interessato da una decisione che la Corte dovrà assumere a breve. Nella lettera in esame vi è una precisa sfida ed è perciò che è stata resa pubblica: vi è la chiara affermazione che l’imparzialità del giudice – quella stessa che ogni bambino individuerebbe subito, istintivamente come la sua caratteristica più importante e la fonte della sua legittimazione – non è invece che un ferro vecchio, un’ubbia di “barbari”. Al suo posto va collocata l’amicizia per il potente di turno, la “vecchia consuetudine” del rapporto personale.

E’ dunque la rivendicazione di voler considerare come superate e infondate le preoccupazioni di chi chiede che i giudici non abbiano familiarità con i potenti, tantomeno se sottoposti al loro giudizio, ciò che sbalordisce nalla missiva di Mazzella. Ed è questa rivendicazione di una “nuova cultura” nell’ambito dei rapporti tra i giudici ed il potere che ne spiega il carattere pubblico. Ma non solo: è ragionevole temere che il vero destinatario di questa iniziativa senza precedenti sia proprio la Corte Costituzionale, che viene messa di fronte alla necessità di reagire o di adeguarsi al nuovo stile. La lettera sollecita una quanto mai impropria “conta” all’interno della Corte, tra chi ritiene la condotta di Mazzella inaccettabile per un giudice costituzionale e chi – magari per malinteso quieto vivere – è disposto a subire. Quasi uno schieramento anticipato sul lodo Alfano.

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