Berlusconi e il plebiscito mancatoGli italiani lo hanno fermato

08 Giu 2009

Naturalmente bisognerà ragionarci meglio. Bisognerà vedere il voto amministrativo, soppesare le preferenze, andare oltre le percentuali ed osservare le cifre assolute per valutare la ripartizione delle astensioni. Però in queste elezioni, per volontà soprattutto del capo del governo, i risultati si rapportano non ai dati delle consultazioni precedenti, ma alle aspettative determinate dai sondaggi. E in questo senso due cose si possono dire subito: che il Pdl ha mancato l’obiettivo, e che il Pd non è morto. Vediamo.Che Berlusconi puntasse ad un trionfo plebiscitario è innegabile. Tutti ricordano lo sventolio di sondaggi che collocavano il Pdl al 45 per cento e la coalizione di governo sopra il 50. Quel che è accaduto è il ridimensionamento del partito del Cavaliere al di sotto del dato raggiunto alle ultime elezioni politiche, e l’avanzamento del Carroccio fino a varcare la soglia mitica del 10 per cento. Questo significa che la golden share del centro destra è sempre più saldamente nelle mani di Bossi: elemento destinato a produrre instabilità nella coalizione. Non perché vacilli l’asse tra Berlusconi e il leader leghista, che anzi resterà saldo per reciproca convenienza, ma perché dentro il Pdl saranno molti a scalpitare, a partire da chi, provenendo da An, soffre l’irrilevanza a cui si vede condannato, e comincerà a guardare Fini come un possibile leader alternativo.Per di più sarà difficile adesso per Berlusconi continuare a presentarsi come l’uomo più amato dalla maggioranza degli italiani, che con il loro consenso lo assolvono da ogni peccato e lo collocano al di sopra delle leggi.

Il 45 per cento raggiunto dal governo nel suo complesso non è la maggioranza, e se poi considera la massa degli astenuti è chiaro che l’indice di gradimento del Cavaliere subisce un ulteriore ridimensionamento.Certo, si potrebbe invocare lo scarso appeal delle elezioni europee per giustificare la disaffezione degli elettori. Ma è stato Berlusconi a voler trasformare questo voto in un referendum sulla sua persona: lo ha fatto, e adesso dovrà fare i conti con un risultato deludente, che intacca il mito della sua invincibilità.Veniamo al Pd: il 26 per cento non è un successo, è un calo imponente. Ma poiché il timore era di scendere al 22 o peggio, questo striminzito risultato finisce per essere un segnale di scampato pericolo: il progetto del partito democratico può ancora avere un futuro, se d’ora in poi si azzeccheranno le mosse giuste. E Franceschini può rivendicare a suo merito una debacle sventata.Rosy Bindi, nella serata elettorale di Raitre, faceva un calcolo elementare: il 33 per cento delle ultime politiche includeva i radicali e beneficiava del cosiddetto “voto utile”, cioè quello di chi si spostò dalla sinistra estrema al Pd per meglio contrastare Berlusconi. Perciò i voti presi oggi dalle due formazioni di sinistra e dalla lista Pannella possono spiegare il calo del Pd e ridimensionarne la portata. Il ragionamento è sensato, purché non voglia essere consolatorio: ci dice che il Pd può riconquistare pezzi di elettorato oggi dispersi se riuscirà a mettere in campo una politica credibile e leader affidabili.

Dopo i ballottaggi, quando il Pd comincerà la sua fase precongressuale, si vedrà l’aria che tira: se ci saranno leader emergenti, se la lotta sarà politica o fratricida, se nascerà un’”identità” Democratica.Uno dei nodi di fondo sarà quello delle alleanze, perché l’Udc e Di Pietro sono presenze assai ingombranti e tra di loro incompatibili. Anzi, il successo di Di Pietro, vero vincitore insieme a Bossi di queste elezioni, rende tutto assai complicato. Il Pd non lo ama, anzi lo vede come una serpe in seno. Ma in politica il pragmatismo è d’obbligo e dunque con Di Pietro si dovranno fare i conti.C’è un’ultima considerazione da fare: proprio i successi paralleli di Lega a Idv ci dicono che il bipartitismo in Italia non esiste: è una camicia di forza mal sopportata dagli elettori. E questo è un dato fondamentale in vista del prossimo referendum e della discussione sulla legge elettorale.

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