Un’altra Expo è possibile

28 Apr 2009

Guardare in faccia la realtà, ragionare, magari cambiare opinione. Un esercizio difficile. Pressoché impossibile se si parla di Expo, tuttavia necessario. A un anno dal successo di Parigi, finalmente è operativa la società di gestione. La tabella di marcia, preparata in via riservata nel giugno 2008 (Repubblica, 29 marzo 2009), va riscritta, perché le scadenze fin qui programmate non sono state rispettate.Hanno preso il via importanti infrastrutture (Pedemontana, Tem, Brebemi), che c’entrano poco con l’Expo e che si sarebbero fatte comunque. Auguriamoci ora che si trovino le risorse per le MM 4 e 5 e per il collegamento ferroviario Malpensa-Centrale: il nostro Paese è fatto così, solo gli eventi straordinari consentono di realizzare l’ordinario.
Sull’area Expo, siamo fermi alle ipotesi del dossier di candidatura. Alcune di esse, peraltro, difficilmente verranno realizzate, come la via d’acqua. E non si conosce il disegno complessivo di città nel quale si inserirà l’area Expo, mentre si affollano continue ipotesi di trasformazione urbana. Da ultime: le aree ex ferroviarie, l’ippodromo, il nuovo mercato ortofrutticolo.
Va detto che molte cose sono cambiate dal marzo 2008. La crisi economica mondiale, il peggioramento dei conti dello Stato, i nuovi impegni da assumere per l’Abruzzo, i disoccupati, le imprese. Anche i numeri dell’Expo iniziano a ballare. Avremo 29 milioni di visitatori? L’indotto occuperà, pur temporaneamente, 70 mila persone?
Fin qui la premessa.

Ma è nella natura degli ottimisti vedere il bicchiere mezzo pieno: questo notevole ritardo, infatti, può paradossalmente costituire un’opportunità.
Una proposta in tal senso, che merita di essere rilanciata per stimolare un ormai spento dibattito, è quella firmata da Emilio Battisti e Paolo Deganello, facilmente reperibile su internet.
Che muove da una richiesta radicale: rinegoziare il progetto fisico dell’Expo.
Per non consumare quasi due milioni di mq di aree libere. Per evitare di costruire padiglioni dal destino incerto, come testimoniano le precedenti Expo e conferma il referendum sul futuro dell’area. Come fare? Valorizzando gli spazi esistenti per ospitare le rappresentanze nazionali: Fiera, FieraMilanoCity, ex-Ansaldo, Hangar Bicocca, Triennale, Museo della Scienza e della tecnica, Fondazione Pomodoro, nuova Fondazione Prada e via elencando. Adottando il modello del Fuori Salone, esteso all’area metropolitana, per le mostre e i progetti concordati con gli Stati partecipanti. Migliorando il sistema di mobilità extra-urbano. Recuperando il terziario inutilizzato (300 mila mq) a fini espositivi o di accoglienza, magari low-cost e per future residenze universitarie. Portando i visitatori a scoprire il vasto patrimonio storico, culturale e umano del nostro Paese.
Non è un’eresia, quella di impiegare le risorse disponibili per preparare Milano al suo futuro, quando la crisi e l’Expo saranno passati. Una scelta destinata a scontentare alcuni grandi operatori, ma capace di mobilitare più diffusamente le energie e le risorse private.

Adatta a rianimare entusiasmi ormai spenti, a coinvolgere la città.
Capace soprattutto di riportare la discussione sui contenuti, davvero straordinari, di questo Expo. Come negare la portata di temi quali la disponibilità di cibo, i modelli nutrizionali, il protezionismo e il neo-colonialismo agricolo, la competizione tra cibo ed energia, la sicurezza e la salubrità alimentare, la qualità dei prodotti, il rapporto con il territorio.
Molti di questi temi identificano gli italiani nel mondo. La stessa città di Milano, al centro di un territorio con ambizioni europee, ha dentro di sé, e ai suoi margini, un’importante attività agricola: quella del Parco Sud Milano. Ecco il secondo tassello di un altro Expo. Cogliere questa occasione non ripetibile per avviare una filiera corta, tracciabile, a basso impatto. Consolidando un patrimonio, alle porte di Milano, fatto di paesaggio, di arte, di flora e fauna, di testimonianza del lavoro dell’uomo.
Pura utopia? Solo in parte. Provate a ragionarci.
* L’autore, che insegna Economia ambientale all’Università Cattolica presiede il consiglio di direzione di LeG

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