Elezioni europee: di fronte alla crisi, un’occasione preziosa

30 Mar 2009

Le elezioni europee sono sempre state un appuntamento ambiguo nella percezione politica italiana. Lungi dal registrare un’affluenza paragonabile a quella delle elezioni nazionali, esse assumono sempre, paradossalmente, una valenza interna che supera ampiamente la dimensione originaria di questo importante appuntamento elettorale. Il risultato, paradossale anch’esso, è che invece di discutere e confrontarsi su temi e questioni europee – che sono, si badi bene, ben presenti e pregnanti se solo si esce un poco dal proprio guscio – ci si limita a discutere e confrontarsi su questioni nazionali, su fattori interni, su beghe caratteristiche della dialettica politica italiana che, spesso, trascendono in farsa. Basterebbe dare un’occhiata ai vecchi manifesti elettorali affissi per le strade italiane durante le precedenti campagne elettorali europee (oppure divertirsi a guardare le «Tribune elettorali» di repertorio) per rendersi conto di quanto epidermico, strumentale e poco sentito – in tutti i partiti – fosse il riferimento alla dimensione europea e quanto invece fosse centrale la polemica politica nazionale. Fecero eccezione forse, durante le elezioni europee del giugno 1989, i richiami di esponenti del Pci e della Dc all’importanza di votare, in quella consultazione, anche una scheda aggiuntiva che richiedeva all’elettorato italiano di esprimere un’opinione sull’attribuzione al Parlamento europeo di un esplicito mandato costituente. Democristiani e comunisti non cedevano alla tentazione di fare della propaganda politica d’occasione, ma avevano colto bene l’importanza di una consultazione bipartisan che doveva essere un segnale anche per gli altri Paesi europei: invocare un mandato costituente per il Parlamento di un’Europa che aveva appena tagliato il traguardo dei dodici posti a tavola.

Si trattava dell’ultimo, postumo atto di un’azione che il parlamentare italiano Altiero Spinelli (scomparso nel 1986) aveva avviato nove anni prima con la fondazione del club del coccodrillo e la successiva elaborazione di un progetto di trattato sull’Unione europea. Trattato che, predisposto dalla Commissione istituzionale del Parlamento europeo nel 1984, era stato trasfigurato e trasformato nell’Atto Unico europeo del 1987 senza tenere in alcun conto la volontà dell’Assemblea eletta e rappresentante del demos europeo. Si tratta però, dell’unico ricordo confortante (venne registrato un 90 % di «sì») in una lunga rassegna di consultazioni che non misero al centro, mai, i problemi della Comunità europea.Non vogliamo credere che anche per queste elezioni si riproponga la stessa assurdità di non confrontarsi con il fattore «Europa politica». Non vogliamo pensare che mentre il processo di riforma dei trattati langue come una montagna stanca, avendo partorito un piccolo topolino mezzo morto che chiamiamo Trattato di Lisbona, in Italia ci si preoccupi se la possibile perdita di due punti percentuali della Lega Nord alle Europee significhi il rimpasto del governo o se un eventuale crescita del PD sia un plebiscito pro-Franceschini. Non vogliamo immaginare che mentre l’Unione a 27 si confronta con il problema della gestione di un allargamento doveroso fatto con istituzioni inadeguate e i 16 governi di Eurolandia ricercano a fatica soluzioni coordinate con gli Stati Uniti per la crisi economica, qui in Italia si assista a una campagna elettorale incentrata sul problema delle intercettazioni telefoniche, delle relazioni governo-magistratura, dei rapporti tra Stato e Chiesa.

Non vogliamo crederci, pensarci e immaginarlo, ma temiamo che così sarà. Un pessimo segnale in questo senso è stato il rifiuto che il governo italiano ha opposto verso la campagna di sensibilizzazione preparata da un’agenzia pubblicitaria tedesca per conto del Parlamento europeo. Una campagna che ovviamente non prende posizione per alcuna parte politica ma vuole richiamare l’importanza e il significato dell’appuntamento elettorale di giugno, momento in cui il popolo europeo elegge, fuori da ogni retorica, il proprio organo rappresentativo. Non sappiamo con cosa il governo italiano voglia sostituire la campagna informativa promossa dal parlamento europeo, ma di certo sarà qualcosa pensato, preparato e predisposto per celebrare il supposto impegno europeista di una parte sola, quella che al momento governa il nostro Paese. Se poi si aggiunge il fatto che nulla si sa, fino a oggi, circa la qualità e la preparazione sulle questioni europee dei candidati che verranno presentati dalle diverse forze politiche, c’è una ragione di più per essere preoccupati. Non è infatti impossibile che si assista ancora una volta a due operazioni distinte ma coordinate. Da un lato la candidatura di persone che già ricoprono incarichi parlamentari o di governo in Italia; una cosa che si configura come un vero e proprio specchietto per le allodole, poiché dal 2002 esiste una incompatibilità assoluta tra il mandato parlamentare, di consigliere regionale o di membro di governo nazionale con il mandato di parlamentare europeo: in altre parole, Berlusconi non andrà mai al PE, a meno che non decida per le dimissioni da Presidente del Consiglio dei ministri italiano e lo stesso dicasi per tutti i parlamentari che sfrutteranno il «volano elettorale» della loro notorietà.

Dall’altro lato si paventa l’inserimento in lista di una caterva di cantanti, attori, soubrette, ballerini, volti noti e meno noti; tutte persone degnissime, ma che conoscono dell’Europa solo ciò che leggono sulle banconote in euro che usano per pagare il benzinaio.In questo desolante panorama, vi sono comunque dei segnali che vanno controcorrente. Pochi giorni fa è stato pubblicato su «Il Riformista» e su «l’Unità» un appello (firmato, tra gli altri, da Giovanni Bachelet, Gianni Cuperlo, Sandro Gozi, Cristina Comencini) che invita il PD a svecchiare le liste e inserirvi persone che abbiano una competenza specifica sulle questioni europee; invece, per quanto riguarda un’iniziativa diretta non a un solo partito ma all’insieme del panorama politico europeo, il Centro studi Notre-Europe di Parigi, creazione di Jacques Delors oggi diretta da Tommaso Padoa Schioppa, ha preparato insieme ad altri quattro istituti europei (The Federal Trust di Londra, l’Istituto Affari Internazionali di Roma, l’Institut für Europäische Politik di Berlino e il Centro Studi sul federalismo di Torino) un appello che, rilevando come ci si trovi oggi di fronte a problemi che travalicano la possibilità di intervento anche degli stati europei più grandi e forti economicamente, richiama l’importanza della creazione di un dibattito politico europeo, animato da forze politiche europee, per una scelta responsabile e condivisa non solo dei futuri membri del Parlamento europeo ma anche per la definizione del presidente della Commissione (la cui indicazione dovrebbe costituire un momento fondamentale della campagna elettorale per il Parlamento europeo).Piccole cose, si dirà, che certo non entreranno nelle scalette dei nostri telegiornali con la forza di un servizio sui mali della mezza stagione o sulle nuove frontiere per la cura della calvizie, ma si tratta pur sempre di contributi autorevoli in grado di tenere desta l’attenzione su un fatto che nessuna banalizzazione o snobismo può negare: oggi la dimensione economica dell’integrazione ha superato a tale punto l’esistenza di 27 stati distinti, che una riflessione sulla mancanza dell’Europa politica si impone.

Così come si imponeva ai tempi della Comunità europea di difesa (1950-1954) o dopo la caduta del muro di Berlino (1989) o quando si cominciò a realizzare il «grande allargamento» dell’Unione a est (2000). Ma oggi, rispetto a questi momenti di svolta nella storia dell’integrazione europea, c’è qualcosa di diverso: non esiste più la guerra fredda e la minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica; non c’è l’euforia per la caduta di un sistema che divideva gli europei e le coscienze e le culture; non c’è più l’ottimismo che a Nizza aveva addirittura portato alla preparazione di un Carta dei diritti dell’Unione europea. Oggi c’è solo una crisi, pesante, presente, terribile che il sistema di welfare europeo non basterà ad allontanare o a esorcizzare. Una crisi che la Banca centrale europea, con alle spalle 16 governi rissosi e litigiosi, non può affrontare con la risolutezza che una Federal Reserve – con alle spalle un giovane presidente grintoso che decide da solo – può vantare.Strano che i decisionisti nostrani, che pure si dicono ammiratori di Erasmo da Rotterdam e di Machiavelli, non abbiano mai guardato alla situazione europea in questi termini. L’Europa ha bisogno di un governo che dia spessore e dimensione internazionale al principale attore economico e commerciale del mondo; ha bisogno di un parlamento che, nell’ambito delle sue competenze, concorrenti e distinte da quelle degli stati nazionali secondo il principio della sussidiarietà, agisca con decisione e con trasparenza; ha bisogno di una azione istituzionale che vada oltre le battute ad effetto e le trombonate sul destino europeista dell’Italia e sull’unità del mondo.

Oggi, qua e adesso siamo in Europa, non l’Europa che ha sognato De Gasperi né quella che ha immaginato Spinelli, ma qualcosa per certi versi superiore ai loro progetti, e per altri ancora informe e timida. Per questo la prossima legislatura deve essere legislatura costituente con l’obiettivo della creazione della nostra Patria Europa. Partendo con un processo anche limitato, coinvolgendo anche solo i Paesi che riescono a superare i limiti di un rinato nazionalismo, ma agendo in maniera decisa per creare il nucleo della futura Unione politica europea, sviluppo e approfondimento dell’esistente Unione economica. Tutti i candidati, di qualsiasi parte politica, dovrebbero avere coscienza di questo, di ciò che li aspetta, e di ciò che ci si aspetta da loro.
*L’autore, storico della vita e del pensiero di Altiero Spinelli, è ricercatore a Milano in Storia delle Relazioni Internazionali

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