Il deserto di Bush: la traversata è finita

19 Gen 2009

Nelle ore che ci separano dall’insediamento del 44esimo presidente degli Stati Uniti, mentre una parte dei media è solennemente impegnata a prevedere quanto durerà la famosa luna di miele nel tempo di questa maledetta crisi globale, alcuni di noi pensano che già ora un miracolo è stato compiuto. Un sogno si è avverato, quale che sia il giudizio che un giorno sarà dato della presidenza di Barack Obama. Siamo coloro che hanno conosciuto, per ragioni di età e per i casi della vita, un’America assai diversa da quella di oggi. E’ una riflessione difficile, o forse è avventato e inutile cercare di riassumerla in poche righe, quando tanti libri sono stati scritti da importanti pensatori. Gli Stati Uniti che conobbi io, arrivando a New York negli anni ’60, giovanissima sposa di un insegnante americano e subito dopo madre di tre bambine americane, erano un Paese in cui spesso avevo difficoltà a riconoscere quel grande, immenso senso di umanità, di coraggio, di amore per la democrazia a cui mi avevano abituato i nostri liberatori dal giogo nazifascista. Era una società che ti spingeva, pena l’emarginazione, a sentirti incasellata in uno dei suoi “ghetti” sociali: italiani con italiani, irlandesi con irlandesi, wasp con wasp, ricchi con ricchi, intellettuali con intellettuali, politici con politici, artisti con artisti…emigranti con emigranti. Vincere quelle barriere era difficile. La mia migliore amica, la grande cantante afroamericana Shirley Verrett, alla quale le signore fiorentine facevano a gara a spalancare i loro salotti, aveva sposato un pittore italoamericano.

Fu lui a dover cercare casa a New York, fu lui a intestarsi l’appartamento sulle rive dello Hudson, era lui che riuscì a portarla fuori dal development ai margini di Harlem dove si erano conosciuti, era lui a dover fermare il taxi mentre lei si nascondeva. Io stessa facevo qualche passo avanti nell’ospitalità dei locali solo se dicevo subito di venire da Firenze e non genericamente da qualche angolo d’Italia.I Kennedy cominciarono a rompere quel mondo stretto e di ghiaccio invitando intellettuali, professori di Harvard, musicisti alla Casa Bianca. Fu con Jacqueline che l’orizzonte cominciò a schiudersi e ci vollero anni e anni perché quella società facesse passi avanti. Spesso i giovani americani marciavano insieme per i diritti civili, cantavano insieme le prime canzoni di Peter, Paul e Mary, di Bob Dylan e poi tornavano a passare il sabato e la domenica nelle loro magioni, in famiglie orgogliosamente elitarie e separatiste, snob, ottuse diremmo oggi. Quando uscivo la mattina per andare a lavorare (al Sarah Lawrence college, o all’istituto di cultura italiano) le vicine di casa mi osservavano severe dalle loro finestre sopra l’acquaio della cucina. Ero una donna che lavorava e dunque sacrificavo figlie e famiglia. Ovviamente sto generalizzando e non tutto era così, specialmente a Manhattan. Vissi le uccisioni dei Kennedy e di Martin Luther King come un segno che quel paese non ce l’avrebbe fatta mai a scrollarsi di dosso segregazione e razzismo, ignoranza e autosufficienza.

Ero convinta che le inchieste per quegli assassini non volessero far luce, non volessero far sapere. Mentre il ’68 cambiava il mondo, anche il mio piccolo universo fu travolto. Divenni giornalista, conobbi più da vicino la parte oscura dell’America, quella che negli anni della guerra fredda ordiva e si alleava con la peggior parte del mondo civile. Quella che ancora resiste, ma che oggi è in un angolo, sconfitta dalla condanna di tanti americani e dalla immensa partecipazione democratica alla elezione di Obama. (E’ tornata anche la musica, la grande musica che negli anni passati suonava e cantava solo per testimoniare il dissenso) .E’ stato lungo o breve il tempo della fine della discriminazione, il tempo della riappropriazione solenne dei principi di uguaglianza, è stato troppo lento il treno di Lincoln, troppo lunga la traversata del deserto di George W. Bush? Quando, fra poche ora, il presidente afroamericano giurerà sulla sacra Bibbia ognuno darà nel suo cuore la risposta. Il treno è stato lento, molte le sofferenze, ma è giunto a Washington fra folle di gente fiera e felice. Nessuno nel mondo potrà più fare come se fosse ancora fermo in qualche stazione remota e sperduta.

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