I 60 anni della Carta dei dirittiAlcune domande alla Chiesa

12 Dic 2008

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti”. Così recita in maniera semplice, lapidaria, senza ambiguità, la prima frase del primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo di cui stiamo celebrando in questi giorni il 60° anniversario. Perché, allora, un’affermazione talmente univoca e universalmente condivisa è stata in tutti questi decenni così osteggiata, ignorata, spesso calpestata? Sarà perché gli esseri umani, oltre che a nascere liberi ambiscono anche a vivere liberi e, possibilmente, a morire con dignità? E non ricade sulle istituzioni, la politica, la società nel suo insieme cercare di soddisfare questa ambizione?
E’ indubbio che la Dichiarazione Universale è discendente diretta di altre pietre miliari come la Magna Charta del 1215, il Bill of Rights del 1689, la Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen del 1789, che hanno provocato una progressiva erosione del potere assoluto e, viceversa, una graduale affermazione della legge, del diritto e delle garanzie individuali. Ma l’importanza della Dichiarazione Universale sta nel fatto che si tratta del primo documento – certo non vincolante di per sé, come sappiamo – in cui un insieme di garanzie e di diritti vengono riconosciuti non ad un gruppo specifico, una razza, un’etnia, una nazione od altro, ma all’essere umano in quanto tale, al di là del colore della sua pelle, del suo credo religioso, della sua affiliazione politica e, aggiungiamo oggi, del suo orientamento sessuale.
Fa quindi riflettere Benedetto XVI quando afferma, come ha fatto mercoledì, che i diritti dell’uomo sono “fondati in Dio creatore” e “se si prescinde da questa solida base etica, rimangono fragili perché privi di solido fondamento”, come pure il suo Segretario di Stato Bertone quando aggiunge che occorre evitare “di far dilagare arbitrariamente nuovi diritti non meglio precisati che introducono una visione unicamente individualistica”.

Domandiamoci allora: la Dichiarazione Universale, così come adottata nel 1948, passerebbe oggi indenne attraverso le forche caudine di molti stati membri “sovranisti”, per usare un brutto ma efficace neologismo, ma dove la Chiesa cattolica gode ancora di molta influenza?
Ovviamente qui non si disconosce alla Chiesa cattolica il suo ruolo caritatevole in soccorso dei più poveri ed indigenti, ma la Santa Sede deve interrogarsi sul fatto che sulla questione del reato di omosessualità – per citare un caso scoppiato recentemente – non è in corso una discussione morale. Più semplicemente si sta cercando di evitare che le persone omosessuali siano vittime di persecuzioni esattamente come lo sono stati e lo sono – e guarda caso quasi sempre negli stessi paesi – i cristiani per via della loro fede. Ed è sempre il fatto di non distinguere tra reato e peccato che spinge la Chiesa, per fare un altro esempio, a non sottoscrivere la Carta Onu sui diritti dei disabili.
La solidarietà, la carità è una cosa; la difesa dei diritti individuali, che da ultimo discende dal Secolo dei Lumi e non da altro, è un’altra: non si faccia confusione su questo, proprio in questi giorni che celebriamo la Dichiarazione Universale. Dichiarazione in cui dobbiamo credere e che dobbiamo tenerci stretta, amare, difendere e sostenere nel suo carattere storico e universale.

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