Pietro Scoppola, la democrazia dei cittadini

25 Nov 2008

Tutta LeG ricorda con affetto e riconoscenza Pietro Scoppola a un anno dalla scomparsa, maestro che è stato fino alla fine dalla parte della società civile nella lunga sfida per il rinnovamento dei partiti.
Pietro Scoppola è stato sicuramente uno dei protagonisti principali del processo di formazione prima dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Il PD non è la continuazione dell’Ulivo, ma è indubbio che tra l’uno e l’altro molti sono i fili di connessione e Scoppola è stato ed è tanta parte di questo nesso. Si potrebbe dire che egli ne è “ l’ispiratore”, ma, come tutti i luoghi comuni, rispecchia soltanto in parte la verità. Soprattutto non mette in luce la profondità e l’ampiezza del suo pensiero che l’attuale PD, con le sue ombre, riflette soltanto in misura monca. Ma su questo aspetto ritornerò in seguito. Ridurre però Pietro a questo non è giusto. Considerava il partito uno strumento, seppure molto importante, ma non il fine. Il fine era la democrazia dei cittadini ovvero la democrazia dei cristiani, che per lui era la stessa cosa, data la sua convinzione sul nesso originario tra cristianesimo e democrazia. Scoppola è stato uno storico di grande valore, un intellettuale pubblico autorevole, tra i più ascoltati non soltanto nel mondo cattolico ,ma anche tra i laici. Ma in questa sede noi intendiamo ricordare soprattutto la sua opera di grande costruttore e riformatore della democrazia italiana, che tanto amava e che egli voleva rendere meno fragile, più coesa e partecipe.

“I cittadini per l’Ulivo” erano per lui – questa la mia convinzione- uno dei laboratori sperimentali della democrazia dei cittadini.Ho conosciuto Pietro molti anni fa’, negli anni Settanta, ma i nostri primi incontri risalgono alla campagna referendaria del 1991 e del 1993 allorché fu introdotto il maggioritario, e soprattutto dopo, nelle elezioni del 1994, quando si trattava di costruire una lista unitaria tra lo schieramento di sinistra, che comprendeva l’ex PCI in cui militavo e Alleanza Democratica di cui egli faceva parte. Tuttavia fino alla sconfitta elettorale del 2001 non posso dire che tra di noi ci fosse comunanza di frequentazione e di idee. Dopo sì. Specialmente con la nascita e la costruzione de “I cittadini per l’Ulivo”. Mi ricordo molto bene il lungo colloquio che avemmo, Renato Strada ed io, a casa sua, per proporgli di presiedere la costituenda “Rete”, ed anche i suoi interrogativi, le sue riserve e diffidenze che poi superò con la consueta generosità. Da allora non passava settimana che non ci sentissimo: e non soltanto sui problemi che riguardavano la Rete, ma un po’ su tutto. Ho imparato molto da questi incontri. Pietro credeva molto nell’amicizia, tanto è vero che volle introdurre nel manifesto costitutivo la frase seguente che è di suo pugno :” I cittadini per l’Ulivo lavorano per l’unità dell’Ulivo e ne interpretano l’anima unitaria. Devono perciò instaurare tra le varie componenti oltre che un rispetto reciproco, un clima di amicizia, senza il quale è difficile dare vita ad una volontà politica comune.” A me manca molto la sua amicizia.
Un cattolico a modo suo
Pietro Scoppola è scomparso un anno fa’, il 25 ottobre 2007.

Tre giorni prima che ci lasciasse mi parlò dell’al di là. Anche la volta precedente, circa quindici giorni prima, in un colloquio durato quasi un’ora, ne parlammo. Soprattutto l’ultima volta era molto stanco, parlava a fatica, ma con molta lucidità. Venne, premurosa, sua figlia, ma la pregò di lasciarci continuare. E ancora di più mi è rimasta impressa l’assenza di angoscia e la serenità del volto e delle parole. Mistero e fede. Mistero perché mi rammentò la scommessa pascaliana. “ La fede può essere proposta o vissuta non come verità dimostrata o dimostrabile, ma come scelta, come rischio di un impegno senza riserve, come scommessa”, mi ripeté quasi sottovoce. Addirittura pensai che fosse una sorta di cortese generosità, abituale nei miei confronti, verso di me non credente. Mentre sentiva venir meno le forze residue ed era costretto a ricorrere alla bombola di ossigeno per respirare.Ma, ripensandoci, ne compresi la pienezza di fede, il suo personale, continuamente ricercato e ravvivato rapporto con Dio. Mi venne allora in mente il versetto che spesso citava :” Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam” La fede non è riducibile ad una dottrina, è libertà, è coscienza. A questo proposito non ha esitato a interloquire e a discutere, nei suoi ultimi interventi su “La Repubblica”, il modo con cui Benedetto XVI affronta il nesso tra fede e ragione e la storicità del diritto di natura.Religione e fede, a suo parere, non possono essere identificate.

Sono due “grandezze” per così dire diverse. L’una la religione è credere nella verità rivelata, appartenenza di tradizione, di storia, di cultura. L’altra, la fede, è il rapporto con Dio, che è un rapporto di devozione e sottomissione, ma pugnace, combattuto, e sempre personale E la persona per lui significa individuo innalzato a valore. Il legame tra le due grandezze sta nel fatto “ che “non si crede da soli, ma solo e sempre in una comunità credente e orante”.Per questi motivi era come spaurito di fronte alla fede dei giovani di oggi. “Questo clima di incertezza sul futuro – scrive -” spinge verso il rifiuto di ogni prospettiva di fede, di ogni valore –visto che nulla è garantito- e verso una fede senza dubbi, senza ricerca, che possa rappresentare psicologicamente un punto saldo di approdo”. Per Pietro, invece “una fede che non dubita, ripeteva con Miguel de Unamuno, è una fede morta” ( “Un cattolico a modo suo, Morcelliana, 2008, p.15 e p.48)Il pontefice Paolo VI lo definì “un cattolico a modo suo”.C’è in questa definizione non soltanto una indubbia acutezza nel cogliere un tratto essenziale della personalità di Pietro, ma anche qualcosa di più. Scoppola non ha mai concesso nulla ad atteggiamenti di eresia e neppure di dissenso più o meno pregiudiziale. Questi comportamenti erano considerati da lui manifestazioni di aristocraticismo intellettuale e personale, se non anche, talvolta, di sciocco esibizionismo. Ferme erano le sue convinzioni, ma altrettanto ferma era la sua fiducia nel confronto democratico, nel dialogo, nella capacità di ascolto, nel rispetto non soltanto delle regole democratiche, ma anche della tradizione e del sentimento popolare.Scoppola non ha mai messo in discussione il principio di autorità del pontefice, ma, nello stesso tempo, ha sempre denunciato, in particolare negli anni più recenti, quella che definiva la “Chiesa del silenzio”, che parla con una voce sola, sia pure autorevole, come quella del Papa.

Sovente mi ha detto che non amava le piazze piene e le chiese vuote e silenti. Verso la gerarchia ecclesiastica, diceva, occorre obbedienza, ma obbedire in piedi, non in ginocchio. Egli rifiutava le etichette. Perciò era critico verso espressioni, quali cattolico liberale, cattolico popolare, e persino cattolico democratico lo sentiva un po’ stretto. Talora li utilizzava, perché era consapevole che non esistono “cattolici senza aggettivi”, ed anche i cristiani sono “ dentro una cultura, una estrazione sociale…insomma una scelta di campo e tanti condizionamenti reali” (“ La democrazia dei cristiani”, Laterza p.14, ). “Un cattolico a modo suo” è il titolo che volle dare, con una punta di orgogliosa compiacenza, al suo ultimo libro, pubblicato, per sua scelta, per i tipi della “Morcelliana”, una casa editrice cara a Paolo VI. Me ne parlò con sollievo, nell’ultimo incontro che abbiamo avuto, per essere riuscito in pochi mesi a dare di sé l’ultima testimonianza. Una testimonianza sobria e sincera, in cui fa i conti con se stesso, con la lucidità del laico e la serenità del credente. Come mi disse, era, per certi versi, un ritorno ai pensieri che lo avevano arrovellato in gioventù. Fino all’ultimo, in questa sorta di piccolo testamento spirituale, non esita a esporre i suoi dubbi e le sue convinzioni sui tempi più discussi e spinosi, che tormentano la Chiesa cattolica: sulla contraccezione, sui sacramenti alle persone divorziate, sull’ordinazione femminile, e persino sui novissimi, a partire dalla vexata quaestio dell’inferno.

E sempre con al centro la problematicità della fede e la saggezza del dubbio. Non si è mai presentato, come ha detto Oscar Luigi Scalfaro, “come credente in divisa, questa divisa che subito divide perché io non sono come gli altri, non sono come voi. Lui infatti è sempre stato totalmente eguale”.
Il mondo cattolico e la democrazia italiana
Non è mia intenzione, né ho la competenza necessaria per ricordare l’ elevato contributo che egli ha dato agli studi storici. Altri l’ha già fatto, e lo potrà fare in futuro molto meglio di me. Una delle sue qualità- l’ho già detto- era la generosità e pertanto la capacità di formare allievi di notevole levatura, orientarli e seguirli, all’università e nella vita associativa.Credo che la sua passione politica risalga agli anni giovanili. Ne “la democrazia dei cristiani” dice che il suo primo riferimento è stato don Primo Mazzolari, un riferimento almeno curioso per un giovane proveniente dalla borghesia romana e cresciuto in una scuola molto cattolica, addirittura gesuita, come il liceo Massimo. Ma solo parzialmente, perché , in quegli anni di guerra e del crollo del fascismo e subito dopo la fine della guerra per un giovane di formazione cattolica l’antifascismo , democratico e progressista e soprattutto in prima persona, di don Primo Mazzolari aveva una forte attrazione. Tuttavia, il suo impegno politico, vero e proprio, inizia a partire dagli anni Settanta. Prima c’è stata la partecipazione, appassionata e intensa, ai lavori del Concilio Vaticano II, che ha lasciato in lui un segno molto profondo nella sua attività e opera futura.

E prima ancora il lavoro di storico, cioè lo scavo nella storia italiana, specialmente sul rapporto tra questa storia e la Chiesa e il mondo cattolico dal Risorgimento ad oggi. Il suo interesse precipuo, in questi anni, ma anche dopo, è nei confronti dei movimenti politici laici all’interno della Chiesa cattolica: il neoguelfismo (1957), il modernismo e la formazione, poi fallita, della prima democrazia cristiana (1961), fino alla nascita del partito popolare (gli studi compresi in “Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino966) e “la Chiesa e lo Stato nell’Italia contemporanea” e “ La Chiesa e il fascismo” (Laterza 1967 e 1970). Anche nei lavori del Concilio vaticano II uno dei punti che più gli premeva, come cattolico e come intellettuale, sono stati il ruolo autonomo e la responsabilità dei laici nei confronti del clero e della Chiesa in generale.Infatti il cuore della sua ricerca, storica e teorica, che durerà tutta la vita, è il rapporto tra democrazia e cattolicesimo. Ricordava e citava spesso Alexis Tocqueville e in particolare i due splendidi tomi “La democrazia in America”, in cui Tocqueville rivendica alla religione, e a quella cattolica, più che a quella protestante, un ruolo regolatore e moralizzatore della democrazia, in quanto contiene e tempera la passione egualitaria, e quindi protegge i cittadini contro le pretese irragionevoli a conoscere e dunque a rivoluzionare tutto, mentre affida a Dio la questione dei fini ultimi e del destino dell’umanità.

La credenza o “l’ardore per l’eguaglianza”, per Tocqueville, è inevitabile. Ma, affinché sia compatibile con la libertà, deve essere parte dell’ordine sociale e del processo democratico. La condizione sine qua non per cui la religione possa svolgere questo ruolo è che ci sia una separazione tra potere politico e religione, e pertanto una concezione laica della vita politica. Se c’è “unione intima” con la politica la religione perde la propria universalità. E lo stesso accade allo Stato e al potere politico. “Lo stato laico- scrive Scoppola, seguendo Tocqueville- ha bisogno della religione. Ma la religione deve accettare in pieno la laicità per svolgere il ruolo di lievito della democrazia”. E ancora:“La democrazia sfida ogni religione, perché si fonda sulla libertà di coscienza e sul principio di maggioranza che può entrare in conflitto con i criteri di verità proposti da una religione”.Gli stessi concetti si trovano in Norberto Bobbio e Jurgen Habermas, due intellettuali agnostici, ma che hanno compreso a fondo la portata della tradizione e del sentimento popolare religioso.Andando oltre Tocqueville, Scoppola sottolinea due concetti. Il primo è il nesso originario tra cristianesimo e la democrazia. “L’esperienza religiosa ebraico- cristiana – scrive- è quella che ha offerto alla democrazia il suo vero fondamento: il senso della fragilità, del limite, del peccato, della fallibilità umana fonda l’esigenza di stabilire i diritti individuali dell’uomo, di sottoporre il potere al controllo e alla necessità del ricambio”.Il secondo concetto concerne il diritto soggettivo che il cattolicesimo deve maggiormente considerare, se vuole essere coerente con il nesso originario precedente e soprattutto affrontare la modernità.

Soggettività e libertà di coscienza, persona e fede sono i termini che, insieme a democrazia, forse più percorrono la sua ricerca storica e umana. “La democrazia –scrive- si concilia difficilmente con l’integralismo religioso di ogni colore; si concilia assai bene con la fede intesa come scelta personale rispettosa delle scelte diverse, come adesione ad una verità che trascende l’uomo sicché nessuno può dire di possederla come cosa sua, ma tutti devono cercarla” ( Le citazioni della pagina sono a p.200, 14, 193, 210 di “La dem.dei cr.”). Scoppola ripeteva spesso l’espressione di Aldo Moro che i cristiani, nei confronti della democrazia, avevano o, più esattamente, potevano avere qualcosa di più: il principio di non appagamento, che derivava loro dalla religiosità vissuta in modo completo e senza ipocrisia. Ha ricordato Leopoldo Elia, amico di una vita, che Scoppola “ non poteva permettere che la religione fornisse alibi a condotte transigenti e disinvolte”.Conseguentemente a quanto detto l’analisi storica, e politico-culturale, di Scoppola sul rapporto tra la chiesa e più in generale tra il mondo cattolico e la democrazia italiana è molto realistica. Non è assolutamente “tenero”, nei suoi studi storici, nei confronti della Chiesa. “Il mondo cattolico italiano – scrive – soffre di una sorte di anemia religiosa e culturale” , “di arretratezza culturale, che non ha ancora chiaramente preso coscienza dei problemi più vivi del mondo moderno, che non ha ancora chiaramente risolto il problema della libertà, che si dibatte nelle strettoie del vecchio clericalismo”.(“Cosc.

religiosa e dem..p..322 ) Scoppola vede in questi limiti, che non sono leggeri persino nei termini (anemia religiosa, arretratezza culturale, clericalismo), una delle ragioni di fondo che hanno fatto sì che nel nostro Paese non si affermasse e avesse basi di massa un partito conservatore di chiara impronta democratica. Addirittura scrive che la Chiesa ha impedito o almeno ostacolato la costruzione di “un sentimento nazionale condiviso”.Questi limiti, insieme all’orientamento prevalente del clero e delle gerarchie vaticane, sono stati determinanti per fare vincere le correnti più intransigenti e clericali, e far naufragare la prima Democrazia cristiana, quella di Romolo Murri, e il moto di rinnovamento religioso e culturale rappresentato dal modernismo, agli inizi del ‘900, e, negli anni seguenti, per condizionare e offuscare il programma e la politica del partito popolare, in contrasto con le aspirazioni autonomistiche e democratiche di Luigi Sturzo.Successivamente questo conservatorismo clericale ha avuto un peso considerevole nel determinare la connivenza e le compromissioni tra Chiesa e fascismo, a cui Pietro dedicherà pagine illuminanti e incontrovertibili. La democrazia italiana è stata segnata dalla freddezza, se non proprio dalla ostilità della Chiesa, le cui manifestazioni principali sono state la non separazione tra Chiesa e Stato, che, attraverso il Concordato del 1929, ha assunto anche i risvolti di “unione intima” con il fascismo, per usare l’espressione di Tocqueville, la non partecipazione dei cattolici alla vita politica, se non in modo ipocrita e non trasparente, il rifiuto a ogni processo di rinnovamento sociale.

Questa tradizione è stata una zavorra negativa e pesante anche negli anni della Repubblica. Scoppola , giustamente, ha contribuito in maniera notevole ad allargare la visione della Resistenza e della lotta di Liberazione al fascismo, che non può essere ristretta, al ruolo, seppure primario, della guerra partigiana. La partecipazione alla Liberazione è stata molto più ampia. Soprattutto dalla caduta del fascismo in poi c’è stata una funzione, a livello di massa, oltre che dei militari, della popolazione civile, con un apporto molto significativo del mondo cattolico, che sta sempre più venendo in luce: nell’aiuto, anche con gravi rischi personali, dei perseguitati ebrei, dei militari italiani e stranieri delle truppe alleate, dei prigionieri e dei partigiani. Un contributo che va parecchio al di là di quella “zona grigia” di chi stava in disparte e si era ritirato e rifugiato “nella casa in collina”.( 25 aprile, la Liberazione, Einaudi 1995.La costituzione contesa, Einaudi 1998). E’ significativo che Andrea Riccardi, suo allievo, abbia dedicato a Pietro il recente “ L’Inverno più lungo”, sulla Roma città aperta del 1943-1944.Tuttavia , anche lui come Giuseppe Dossetti, che pure la guerra partigiana l’ha fatta, seppure senza sparare un colpo, conveniva che, in larga parte del modo cattolico, non era avvenuto “un innamoramento serio”verso la Costituzione, nata dalla Resistenza, La Democrazia Cristiana, e in particolare la leadership di De Gasperi è dovuta partire da qui.

Cercando di “garantire alla rinascente democrazia italiana il consenso della Chiesa dopo le sue compromissioni con il fascismo,riportare alla democrazia quei ceti medi e quelle realtà popolari che avevano dato il loro consenso al fascismo, assicurare su questa base una valida resistenza democratica al comunismo”. ( A colloquio con Dossetti e Lazzati, 14.11.1984, Il Mulino 2003 p.131) Scoppola dà un giudizio positivo sul lavoro svolto dai partiti politici per far crescere e radicare la democrazia da quella che ha definito, forse nella sua opera più matura “La repubblica dei partiti” ( La repubblica dei partiti, Il Mulino 1991, ll ed. 1997). Ma oggi è una democrazia ancora non del tutto consolidata; che contiene nel suo seno aspetti di fragilità e precarietà. Egli è convinto che “il venire meno della DC non ha aperto la via ad una più dispiegata democrazia, ma ha fatto riemergere dal profondo della società italiana una realtà di arretratezza culturale e morale che la DC aveva a suo modo incanalato in espressioni e verso obiettivi politici, che sono stati, nonostante limiti e contraddizioni, sostanzialmente democratici”.( A colloquio con Dossetti, cit, p.132).Oggi, purtroppo, assistiamo a “uno sbandamento di gran parte del mondo cattolico verso una destra senza storia”. Questo è stato il suo assillo nell’ultimo periodo della sua vita. Un assillo tanto più acuto in quanto era convinto, molto convinto che “la democrazia dei cristiani non può essere una nuova democrazia cristiana.

La domanda dei cristiani, invece, oggi coincide con la democrazia di tutti”, nella quale ci sia una grande tensione etica nel pieno rispetto della diversità tra laici e cristiani (La dem.dei cr. p191).
Passione politica come disegno per il futuro
Come ho già detto in precedenza politica Scoppola viene trascinato dentro la battaglia politica dal referendum sul divorzio nei primi anni Settanta. Scoppola è uno dei leader, forse il più autorevole, dei cattolici del no, di coloro cioè, che pur essendo convinti dell’indissolubilità del matrimonio cattolico, sostennero però la piena laicità dello Stato e quindi il diritto di legiferare sul divorzio.La notorietà , conquistata in quella occasione, in una certa misura, gli viene fatta pagare poco dopo, quando una parte del clero e della gerarchia vaticana chiede la sua estromissione dalla presidenza della commissione preparatoria del convegno molto importante, promosso dal Vaticano, su “Evangelizzazione e promozione umana”. Venne difeso dal pontefice Paolo VI, che, come ho già ricordato, per quell’occasione coniò per Pietro la qualificazione di “cattolico a modo suo”. In questi anni, è bersaglio anche di contestazioni violente: alla fine del 1968 all’università di Trento dove aveva avuto da poco la cattedra (si dimette dalla cattedra per non sottostare all’imposizione sui temi e sui metodi di insegnamento da parte del movimento studentesco), e, più pericolosamente, nel 1977, quando viene trovata sotto la sua automobile una bomba ad alto potenziale.Dopo l’esperienza a “Il Mulino”, che ha sempre considerato fondamentale nel suo cammino, nel 1975 è uno dei fondatori della Lega democratica, una delle fucine più interessanti e importanti, e purtroppo ancora poco studiata, dei cattolici democratici.

Insieme al periodico “Appunti di politica e di cultura”, sorto nel 1978 pochi mesi dopo il rapimento di Moro, e diretto in più occasioni da Pietro Scoppola, raccoglierà le riflessioni e le energie delle teste migliori del progressismo cattolico. Purtroppo molti di loro stanno scomparendo. E’ un’intera generazione del cattolicesimo democratico che se ne va, senza che si veda chi la sostituirà, almeno finora. Negli anni della Lega Democratica Scoppola, pur non essendo iscritto alla DC, è fautore di un rinnovamento radicale della DC. Scoppola è sempre più convinto che l’unità politica dei cattolici era un ostacolo non soltanto allo sviluppo democratico e civile del Paese, ma allo stesso cattolicesimo. Tanto da non escludere, in disaccordo con Aldo Moro, l’opportunità di una frattura della stessa DC, se non si fosse rinnovata. In secondo luogo è convinto che per far crescere la democrazia italiana, anche come misura di igiene democratica, è necessario dare vita ad un sistema elettorale e istituzionale che prevede l’alternanza tra campi opposti. Sulla base di questo disegno appoggia con convinzione la segreteria di Benigno Zaccagnini, prima e dopo il caso Moro. Anche dopo, con la segreteria di Ciriaco De Mita, considera possibile tale rinascita. Nel 1981, infatti, è uno dei più prestigiosi e ascoltati membri dell’assemblea dei cosiddetti “ esterni” per rinnovare la DC. Nel 1983 accetta di essere candidato come indipendente nelle liste democristiane e viene eletto senatore.

Farà parte della commissione bilaterale Bozzi per le riforme istituzionali , dove proporrà una riforma elettorale di tipo tedesco per favorire la partecipazione dei cittadini e l’alternanza di schieramenti contrapposti, uno progressista e l’altro conservatore. Inoltre – altra sua iniziativa significativa – presenterà la proposta di rivedere il Concordato con la Chiesa e di inserire nella scuola l’insegnamento di cultura religiosa, a partire dalla Bibbia, facendo divenire facoltativo, in orario non curriculare, l’insegnamento confessionale. A questo proposito mi ha raccontato con un certo gusto che l’iniziativa era stata ritenuta un po’ avventurosa da parte del gruppo comunista e in particolare del senatore Gerardo Chiaromonte, che pertanto non la appoggiò.Sicuramente non è stato il mancato successo di queste iniziative a farlo desistere dal candidarsi nuovamente nel 1987, ma piuttosto la convinzione che per avviare la terza fase della politica italiana occorreva procedere con altri mezzi. Di qui la stesura, in gran parte opera sua, delle nove tesi per l’alternanza (1988), a cui segue, già nel 1990, l’ impegno, insieme a Mario Segni, a favore del referendum che, nel 1993, ha introdotto il maggioritario.In quegli anni partecipa attivamente ai tentativi di nuova aggregazione politica, che puntano a costruire uno schieramento democratico e progressista: i Popolari per la riforma e Alleanza democratica. Punto centrale di queste nuove alleanze è l’intesa con gli ex PCI, dopo il crollo del comunismo e la svolta del 1989, che porta alla costituzione dei DS.Pietro non è mai stato un cattocomunista.

Pur riconoscendo al Pci e soprattutto ai suoi militanti una tensione etica e spirituale con cui era necessario confrontarsi e dialogare, lo ha sempre combattuto in quanto riteneva che il Pci continuasse ad essere troppo“morbido” e “concessivo” non soltanto nei confronti del comunismo sovietico e della rivoluzione d’ottobre, ma anche, più a fondo, di quella che egli definiva “la cultura della rivoluzione”, la quale porta inevitabilmente al giacobinismo e al terrore come mezzo di comando. E questo perché è intrinsecamente una cultura della verità assoluta. “La rivoluzione – scrive- è un mito fuorviante per la democrazia” (“La repubblica.dei partiti, prefazione. 1997, p.26). Il comunismo, tuttavia, così diceva, va combattuto con l’anticomunismo democratico, quello praticato dalla DC nel dopoguerra per merito della leadership di De Gasperi. “ Non si comprende- scrive- la storia della Repubblica e l’opera di De Gasperi, se non si dà il giusto rilievo a questa categoria dell’anticomunismo democratico, troppo a lungo ignorata, di un anticomunismo cioè convinto di potere e dovere far fronte alla pressione comunista con gli strumenti della democrazia, nella Costituzione, nel rispetto della legge, in Parlamento, sulla base del consenso democratico dell’elettorato (Relazione “De Gasperi, tra passato e presente”, Valsugana, 19.08.2004). Scoppola non era mai stato un seguace di De Gasperi, ma, studiandolo, (“La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino1977) ne apprezza la profonda spiritualità e si rende conto e riconosce la lungimiranza politica del leader trentino, proprio per il rinnovamento sociale e per il consolidamento della democrazia italiana.

Lo spartiacque nel rapporto con i comunisti italiani, anche per lui, è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Già prima erano avvenuti contatti e convergenze, ma si era sempre mantenuto alquanto distante; tanto da essere alquanto critico verso quel gruppo di cattolici , con i quali aveva rapporti di amicizia, che avevano accettato di prendere parte alla lista della Sinistra indipendente a fianco del PCI. Ma dopo Moro si convince sempre più che dal confronto occorreva passare alla ricerca dell’intesa con il PCI. Anche in uno dei suoi ultimi scritti ha insistito sul fatto che la vicenda Moro è stata una grande occasione perduta per dare compimento alla transizione italiana. Per due motivi:”perché ha privato il passaggio ad una nuova fase del sistema politico italiano non solo di una guida e di un sia pure incompiuto e incerto progetto, la cosiddetta terza fase, ma anche di quella riserva etica che il dramma di Moro aveva contribuito ad accumulare nella coscienza del Paese”. La mancata “interpretazione politica unitaria e coerente” si è tradotta in delusione e sfiducia nella democrazia e nella politica. (introduzione a “la coscienza e il potere” 2007). Il decennio 1980-1990, dopo l’assassinio Moro, è per Scoppola “uno dei più cupi della storia della Repubblica”, durante il quale “il popolo cristiano diventa muto” ( La dem.dei cr.p.154 ). Il crollo del comunismo sovietico del 1989 elimina in Scoppola ogni riserva e ogni ombra sulla necessità di procedere ad una intesa piena tra le forze che hanno dato vita alla Costituzione per rendere compiuta la democrazia italiana.

Di qui la sua battaglia referendaria e la sua ferma convinzione che fosse necessario superare definitivamente quelli che erano stati i macigni miliari, contrapposti, della politica italiana: l’unità dei cattolici e l’unità delle sinistre. In un primo tempo Scoppola aveva pensato che le riforme istituzionali o soltanto elettorali potessero accelerare la transizione italiana. Ma in uno dei suoi ultimi interventi questa illusione è completamente caduta e dirà: “Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana ad un livello esclusivamente politologico; di non vedere le condizioni più profonde culturali ed etiche. Abbiamo immaginato che il passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse per sé solo il compimento di quello che ho chiamato il processo fondativo della democrazia italiana.”( Assemblea de “i Cittadini per l’Ulivo, Roma 17 marzo 2007)Egli,a dire il vero, ha sempre avuto una riserva di fondo nei confronti della proposta di una nuova Costituente, persino nell’uso del termine, pur essendo favorevole a rivedere alcune norme di essa , senza però stravolgerne i principi e il dettato di fondo. Nella Costituente, secondo lui, si celava o si mascherava una radicalità e una deriva che egli non condivideva nel modo più assoluto come ha testimoniato la sua battaglia per la difesa della Costituzione nel referendum del 2006, contro la legge del governo Berlusconi che la modificava radicalmente in senso autoritario.Infine non sottoscrisse il referendum Guzzetta-Segni di modifica dell’attuale legge elettorale , perché, diceva, l’esito di esso sarebbe “destinato a coprire il più spregiudicato trasformismo” con un risultato dunque opposto a quello perseguito.

Pur essendo sempre favorevole ad un sistema bipolare che favorisse l’alternanza di schieramenti contrapposti, negli ultimi anni era meno persuaso della validità del sistema elettorale maggioritario e si pronunciò per il modello spagnolo che aveva il merito, attraverso il disegno di piccoli collegi, di condurre i partiti al bipolarismo senza accedere a premi di maggioranza e senza clausole di sbarramento o altri marchingegni come il recupero dei resti che falsano il voto. Agostino Giovagnoli, uno dei suoi allievi, (La repubblica. 26-10-2007) si è chiesto, a proposito della sua azione politica, se si può parlare di sconfitta oppure di fallimento politico e offre una risposta che mi trova d’accordo. In realtà Scoppola “ha perseguito una missione impossibile: cambiare il costume civile e politico degli italiani, facendo leva contemporaneamente su un rinnovato senso religioso e su un profondo spirito laico”. Riformatore religioso e riformatore dello Stato e della democrazia, questo è stato Scoppola. “ Sì, la politica mi ha appassionato – ha candidamente confessato- ma per quello che non riesce ad essere molto più per quello che è”; cioè “come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a una uguaglianza irrealizzabile che tuttavia è il tormento della storia umana”( Un cattolico a modo suo p.47 ).
Il laboratorio de “I cittadini per l’Ulivo”
Quando nasce l’Ulivo, all’inizio del 1995, pochi mesi dopo la inaspettata vittoria elettorale di Berlusconi, Scoppola non ha esitazione a sostenerlo, in quanto vede in questa coalizione l’incontro delle forze politiche democratiche che hanno dato vita alla Costituzione, le quali possono dare attuazione ad essa e rendere compiuta la democrazia italiana.

Dopo la fine della guerra fredda considerava questa intesa non solo possibile, ma auspicabile poiché “La repubblica dei partiti” aveva esaurito il suo compito. Occorreva andare a qualcosa di nuovo. “..Il problema –scrive – non è quello di far nascere una “seconda repubblica” che potrebbe essere peggiore della prima, ma ancora quello molto più complesso del passaggio da una repubblica dei partiti a una “repubblica dei cittadini”; un passaggio tanto più arduo e difficile perché coinvolge (…)questioni di mentalità e di cultura e non solo problemi istituzionali”.Scoppola era troppo “storico” per non comprendere che tale processo non poteva avvenire attraverso l’azzeramento delle vecchie tradizioni, sulla base cioè della scomparsa o dello scioglimento dei partiti storici. Ma nello stesso tempo era consapevole che il processo doveva condurre ad un ridisegno di quelle tradizioni, ad un superamento di esse e dei partiti che ne erano l’espressione. Incontro sì, ma con l’obiettivo cosciente del superamento. Un superamento in tutte le direzioni: nei contenuti e obiettivi politici, nella cultura di base, nella forma e nel modo di essere del partito, a partire dalla piena attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che prescrive nella vita interna il “metodo democratico”. Per questo era necessario coinvolgere tante energie e forze disparate, iscritte e non iscritte ai partiti. Sull’Ulivo si impegna subito, anche per il suo rapporto di amicizia con Romano Prodi.

Infatti partecipa a Roma a uno dei primi comitati Prodi, che saranno decisivi l’anno dopo nelle elezioni del 1996, quello che ancora ora si chiama 2 aprile 1995 e a cui resterà sempre affezionato. Comprende però anche il limite di fondo dell’Ulivo: l’essere, al momento attuale, in grande prevalenza, una intesa contro, contro la destra, una destra nuova “dai caratteri confusi, ma preoccupanti per la democrazia”. L’Ulivo non è ancora un progetto politico e culturale, sebbene disponga di un serio programma di governo, quello del primo governo Prodi, non ha ancora un radicamento territoriale adeguato, con una estesa e convinta partecipazione dei cittadini.Scoppola segue con attenzione e partecipazione le vicende del governo Prodi, la crisi del 1998, e non condivide assolutamente l’ipotesi, coltivata da Massimo D’Alema, di rilanciare i partiti storici, sia pure trasformati e rinnovati, con una sorta di modello tedesco, ipotesi che, negli anni Novanta, considera alternativa all’Ulivo. Poi, dopo la sconfitta ulivista del 2001, egli si impegna di nuovo in prima persona: entrando nella direzione della Margherita che egli vede come “il futuro dei popolari” e soprattutto come “anticipazione del’Ulivo” e “ strumento della sua ricostruzione”. Fu in quel periodo- nei mesi precedenti, avevo coordinato l’elaborazione e la redazione del programma elettorale dell’Ulivo – che cominciammo a frequentarci con assiduità. Fu allora che iniziammo a discutere di dare vita ad una rete che raccogliesse i comitati, Prodi e Rutelli, e le varie realtà associative che, al di là dei partiti, facevano capo all’Ulivo.

Non c’era ancora il nome. “I cittadini per l’Ulivo”, nome indovinato, verrà dopo. Il primo atto è stato un seminario-convegno che si svolse a Chianciano il 26-27 ottobre 2002. Scoppola svolse una delle quattro relazioni, la quale aveva un titolo significativo:”L’ulivo che vogliamo”. In essa già era presente il cardine della proposta. L’Ulivo non deve essere soltanto un cartello elettorale, ma “ un valido soggetto politico per il bipolarismo italiano nascente”, che fa “incontrare e valorizzare in un rapporto nuovo e sulla base di una cultura nuova, tradizioni politiche e realtà sociali che nel quadro della guerra fredda erano state contrapposte, dando voce, tra l’altro, alle nuove culture ambientaliste”.E’ sbagliata la proposta del grande Ulivo, dice Scoppola, perché ha come condizione l’unità della sinistra, che invece è finita, così come è terminata l’unità politica dei cattolici. L’unità politica cattolica è un fatto storico, non un valore permanente. “Il grande Ulivo è la negazione dell’Ulivo, e, a mio avviso, scrive, non è affatto una garanzia di successo elettorale perché non rende visibile e credibile una proposta di governo”.Da quel seminario scaturì l’idea di dare vita ad un manifesto costitutivo che avesse due obbiettivi principali: 1. la costituente dell’Ulivo, cioè di un soggetto politico unitario federato che mettesse insieme i partiti, gli eletti e le realtà associative di base, quelle che venivano definite le tre gambe; 2.

la costruzione di una sorta di democrazia dei cittadini tramite lo sviluppo della partecipazione democratica. Le leve erano le realtà associative di base e un ruolo nuovo degli elettori, con il ricorso a strumenti nuovi quale l’albo degli elettori e le primarie nella scelta delle candidature e nella approvazione dei programmi elettorali. .In questo periodo Scoppola ed io ci vedevamo e sentivamo molto spesso: per scambiare impressioni e idee, per valutare le cose da fare e così via. Potevo così apprezzare non soltanto la sua acutezza e intelligenza, ma anche la schiettezza e lealtà nel rapporto personale e la sua amicizia.Il sentiero era alquanto stretto. Ritenevamo che, nella situazione data, i punti non risolti e le contraddizioni de “l cittadini per l’Ulivo” non potevano essere superati da forzature elitarie, e che soltanto il processo democratico, dentro e fuori la Rete, potesse condurre ad una maggiore chiarezza sia negli obbiettivi programmatici, per corrispondere ad una efficace azione di governo della società italiana, sia nelle forme organizzative del nuovo soggetto politico. Inoltre, eravamo dell’opinione che uno dei problemi principali dell’Ulivo fosse la crescita di una cultura ulivista, al momento inadeguata e insufficiente. “L’Ulivo – diceva spesso schiettamente Scoppola – è debole di suo, perché è ancora fragile e insufficiente una cultura condivisa di base”. Senza dubbio non ci aiutava la palese diffidenza dei partiti o di parti di essi, che temevano l’emulazione e lo scardinamento dei loro apparati oppure, per fini opposti, strumentalizzavano la nostra azione.

Per questi motivi, pur essendo impegnati – senza esitazione e subito – alla attuazione della Costituente dell’Ulivo, eravamo convinti che il processo non sarebbe stato di breve durata – come il concilio Vaticano II, dicevamo tra di noi – e soprattutto avrebbe avuto bisogno di una regia autorevole e di un forte disegno politico.Eravamo convinti, insomma, come disse Pietro in una delle assemblee più riuscite, quella al Residence Ripetta dell’aprile 2003, rivolgendosi non soltanto ai capi partito, quasi tutti presenti, ma anche ai movimenti che “ il progetto dell’Ulivo esige la costruzione di un soggetto:non c’è progetto senza soggetto”. Da questo punto di vista l’Ulivo non è mai stato per noi soltanto “un punto di partenza e un orizzonte”, come è stato detto in una recente intervista e tanto meno “un non so che”. E’ molto di più,come si può ricavare dai punti del nostro manifesto. L’Ulivo è insieme un soggetto e un progetto di società e di governo della società. Ovviamente eravamo consapevoli che la federazione dell’Ulivo veniva intesa dai più non così, ma, in modo sbrigativo e semplificante, come l’intera coalizione di centrosinistra o, confusamente,come sovrapposizione di due o più cerchi concentrici. Per superare tale contraddizione,a Monte San Savino (giugno 2003), proposi una distinzione – forse troppo artificiosa, tant’è che non venne raccolta – tra il programma di governo che riguardava l’intero schieramento elettorale e il progetto dell’Ulivo, che doveva andare al di là della legislatura ed avere una portata generazionale.L’altro problema riguardava la leadership.

I cittadini per l’Ulivo sono stati, fin dall’inizio, in tutti i momenti decisivi, a fianco di Romano Prodi. Non è che non vedessimo i problemi ed anche i limiti di questa posizione, che, tra l’altro, ci metteva in una sorta di emulazione critica, se non di contrasto, con i partiti. Ma proprio i presupposti da cui partivamo, cioè la concezione partecipativa della politica e della democrazia, cioè il ruolo della società civile, della cittadinanza attiva e del self-government ci portava in questa direzione. Non abbiamo mai concesso nulla all’antipolitica, ma, nello stesso tempo, non abbiamo mai “mollato” nella nostra azione sul criterio, da noi ritenuto basilare, di “una testa, un voto”. Il superamento dei partiti tradizionali, il mescolamento delle tradizioni, degli iscritti e degli elettori, e in particolare l’apporto che poteva sopraggiungere dalla società richiedeva una leadership nuova, in grado di far dialogare e convergere la sinistra con il mondo cattolico.Le primarie, insieme agli albi degli elettori, sono state lo strumento principale che individuammo, fin dall’inizio, a Chianciano nel 2002, sia per mettere in campo una più larga partecipazione democratica, sia per affermare, a livello locale e nazionale, una nuova classe dirigente. La relazione venne tenuta da Stefano Ceccanti. Pietro era ben consapevole dei rischi che le primarie presentano. Se estremizzate e non regolamentate in modo serio possono stravolgere in senso negativo la vita politica nazionale e locale, in direzione del plebiscitarismo populistico e della eccessiva personalizzazione, anche per effetto dei media.

Più volte con Pietro abbiamo parlato di questi pericoli in atto che stanno trasformando nel profondo i partiti politici, da marcatamente ideologici e proprio per questo sorpassati, in partiti non programmatici, come noi propugnavamo, ma “personali”,in cui dominano oligarchie, che hanno la propria base, oltre che sull’uso spregiudicato dei media, su interessi circoscritti e corporativi, e talora su vere e proprio clientele elettorali. Dato il legame che esiste tra la vita interna dei partiti e il modello istituzionale e viceversa, la cosa che temevamo di più erano gli effetti che tali processi avrebbero potuto avere sulla Costituzione e sulle istituzioni democratiche. Non volevamo, in alcun modo, lavorare per il re di Prussia , e quindi, sia pure involontariamente, favorire quelle forze politiche e culturali che ipotizzano un cambiamento istituzionale – antistorico e squilibrato in quanto senza adeguati contrappesi – in direzione di un presidenzialismo populista o del “premierato assoluto”, per usare l’espressione di Leopoldo Elia. Il riferimento era ed è alla destra attuale che sul nesso federalismo presidenzialismo e ambizione personale di Berlusconi basa il proprio disegno strategico. Ma riguarda anche settori del centro sinistra che perseguono, in modo troppo leggero, un modello di tipo americano di cui anche l’Ulivo e adesso il Pd sarebbero espressione e partecipi. Senza tenere conto della realtà storica italiana ed europea e soprattutto sena ricostruire un nuovo sistema di checks and balances tra poteri e istituzioni dello Stato in grado di equilibrare la politica presidenziale.

Scoppola vedeva che oramai il leaderismo di tipo presidenziale di fatto si stava affermando in tutti i livelli istituzionali, ma credo che condividesse pienamente quanto ha detto il Capo dello Stato in una recente intervista all’Osservatore Romano, “allontanarsi dalla democrazia parlamentare può condurre veramente fuori strada”. Furono anni intensi e faticosi, in un continuo oscillare tra il partito dell’Ulivo e l’Ulivo dei partiti. Sulla costruzione del nuovo soggetto politico dal 2002 in poi è stato un continuo stop and go: la proposta Parisi di una federazione a due livelli, sul modello europeo, la bozza Chiti-Franceschini, la nostra assemblea di Monte San Savino, in cui venne costituita ufficialmente la Rete, nel momento di maggiore sviluppo con oltre 400 comitati in tutta Italia, i vari tentativi di coordinare gli altri movimenti e realtà associative. Nei confronti della Rete dei Cittadini per l’Ulivo Scoppola manifestò una grande impegno che si allentò soltanto nell’estate del 2003 quando dovette subire una difficile operazione chirurgica. Ad un certo momento è sembrato che le nostre idee passassero anche nei partiti e che la Costituente dell’Ulivo, tanto sperata, potesse essere avviata. Dopo che Prodi, nel luglio del 2003, lanciò l’idea della lista unitaria alle elezioni europee, Scoppola fu incaricato dallo stesso Prodi di presiedere il gruppo di lavoro per la Costituente, che predispose una proposta concreta e dettagliata che riguardava sia il futuro del nuovo soggetto politico che la procedura per arrivarci.

Ma il tutto, ancora una volta, si arenò. Esito analogo ebbe, alcuni mesi dopo, il progetto di federazione dell’Ulivo, diretto anche questo da Pietro, che rispetto alla Costituente era una proposta più “octroyè” e più partitica, Qui ci fu anche lo spolvero ufficiale, al Teatro Brancaccio, ma la nascita all’inizio del 2005 dell’Unione e della Federazione certamente non entusiasmò. “Fed e Gad (questo il primo nome dell’Unione) – disse Scoppola alla assemblea della Rete di Montecatini del 4 dicembre 2004 – non riescono ad entusiasmarci e non credo che entusiasmino il Paese. Non è questione di sigle, più o meno infelici, ma di sostanza”. Nell’Unione la mediazione interpartitica venne portata all’eccesso e persino il simbolo dell’Ulivo scomparve;e nella Fed la partecipazione dell’associazionismo fu ridotta a ben poco. Per fortuna la straordinaria partecipazione alle primarie del 16 ottobre 2005, con 4 milioni 300 mila voti e l’affermazione indiscussa di Romano Prodi, pose fine ai malumori e alla scontentezza, riaprendo la speranza. Tre giorni dopo Pietro mi regalò “La democrazia dei cristiani” appena uscito in libreria, che mi dedicò con queste parole. “A Iginio con affettuosa amicizia nei giorni della speranza…” Subito dopo scrivemmo insieme“Una nuova primavera per l’Ulivo e per l’Italia” l’’introduzione alla silloge de”I cittadini per l’Ulivo” per l’assemblea di Firenze. del 12-13 novembre 2005. Ma, purtroppo, le primarie non cambiarono il corso delle cose.

Il clima politico mutò quasi completamente con l’approvazione della nuova legge elettorale, il cosiddetto “porcellum”. Ancora adesso mi chiedo perché i partiti di centrosinistra condussero, in parlamento e nel paese, una battaglia politica così debole, quasi rinunciataria. Probabilmente perché più diffusa di quanto ritenessi era la spinta proporzionalista e non partecipativa, di cui noi, Cittadini per l’Ulivo, eravamo l’antitesi Poco dopo la Margherita decise di presentarsi alle elezioni politiche del 2006, al Senato, con il proprio simbolo, anziché con quello di “Uniti nell’Ulivo”. La “pressione” nostra e delle altre realtà di base non servì a nulla; non si riuscì a far cambiare idea ai partiti e fu un errore grave che si pagò caro sul piano elettorale e dell’immagine; riprese sulla stampa ed anche nei gruppi dirigenti dei partiti il de profundis dell’Ulivo. Scoppola, insieme a Beppe Tognon, scrisse una nuova prefazione a “La democrazia dei cristiani”, ancora più critica di quella precedente. Le vicende confermavano quanto ripeteva:“Il destino dell’Ulivo è di stare sempre in bilico tra grandi speranze e crisi radicali”.Talora sembra quasi abbandonarsi alla rassegnazione, ma non è così. Infatti non rinuncia da avere un ruolo, ancora una volta non secondario, nella progettazione del Partito Democratico.
La democrazia dei cittadini e il Partito Democratico .
Come dicevo all’inizio è oramai un luogo comune considerare Pietro Scoppola uno dei padri del PD.

In verità, nei suoi ultimi scritti, parecchie sono le riserve che esprime sul processo in atto. A cominciare dalla relazione di Orvieto dell’ottobre 2006, in cui pone parecchie condizioni alla riuscita positiva del nuovo partito. Anche sulla partecipazione alla redazione del manifesto che, dopo Orvieto, aprì la discussione sul PD ebbe molti dubbi, come mi confessò: prima, nell’accettare di farne parte, tra i dodici cosiddetti saggi, e poi durante la stesura, in quanto era insoddisfatto per il taglio complessivo del testo, in cui non appariva a sufficienza e in modo convincente la necessità storica della nuova formazione politica.Scoppola vedeva la complessità dei processi necessari. i quali, tra l’altro, si realizzavano tardi, dopo innumerevoli errori e fallimenti, che avevano frustrato l’elettorato. In particolare era preoccupato per gli spostamenti a destra del mondo cattolico e della stessa Chiesa. Il referendum sulla procreazione assistita, secondo lui, era stato un vero e proprio disastro, sul piano dell’influenza negativa sugli elettori cattolici. Pietro era molto critico verso il partito di Dio del cardinale Ruini, per usare il titolo del felice libro di Marco Damilano, e ancora di più verso gli atei devoti alla Giuliano Ferrara, i nuovi Maurras, ma riteneva che alcuni temi sulle questioni etiche dovessero essere affrontati con maggiore equilibrio e comprensione della sensibilità cattolica. Egli, mentre è stato dichiaratamente contrario alla abrogazione del divorzio nella legislazione italiana, non è stato favorevole all’introduzione dell’aborto ed è stato contrario alla procreazione assistita esogamica.

Dopo il referendum del giugno 2005 si chiede persino se non è necessario riprendere la lezione di De Gasperi ed anche quella di Moro che è stata quella di tener ferma l’unità dei cattolici per impedire che vadano a destra; e nella seconda prefazione a “La democrazia dei cristiani” si pone il problema se non è opportuno cercare nuove forme di aggregazione culturale del mondo cattolico per fermare o almeno frenare la deriva.Considerava l’incontro tra la sinistra democratica nelle sue diverse espressioni – liberale, egualitaria, ambientalista – e il mondo cattolico il cuore del PD; ma temeva che, all’interno del PD, proprio per quello spostamento a destra prima accennato, la presenza e la visibilità dei cattolici si riducesseroa poca cosa. Sulla base di questa preoccupazione partecipò – irritando gli ulivisti più intransigenti – al convegno dei cattolici popolari, che si tenne a Chianciano due settimane prima di Orvieto. La relazione di Scoppola colpì soprattutto per due affermazioni. La prima è la seguente: “La nostra tradizione ha concepito il partito come strumento, non come elemento di identità collettiva. L’identità politica dei cattolici è sempre una identità, come dire, di secondo livello” E’ vero che prima c’è quel”come dire”, ma il significato della frase mi sembra molto chiaro: aderite al PD, ma non dimenticate di essere cattolici all’interno di esso”. La seconda riguarda la dimensione internazionale del nuovo partito.

Non si poteva in alcun modo porre come condizione l’adesione all’internazionale socialdemocratica, pena la perdita della grande maggioranza dei cattolici e pena l’ostilità della stessa Chiesa. La polemica che seguì oscurò completamente una postilla che pure Scoppola disse subito dopo, cioè che la decisione dell’affiliazione ad una o l’altra organizzazione internazionale non doveva essere fatta prima, ma spettava- democraticamente – ai futuri aderenti del nuovo partito. “Il problema della collocazione europea – dice a Orvieto- dovrebbe essere semplicemente rinviato a dopo la nascita del partito, quando i suoi aderenti potranno far sentire la loro voce”.Queste affermazioni rispecchiavano la sua profonda. conoscenza – storica e attuale – del mondo cattolico. Non c’era riunione o iniziativa, anche da parte di piccoli gruppi cattolici, a cui egli, invitato, non partecipasse con molta generosità. La sua casa, a Prati, era sempre aperta e ospitale. Sempre nella relazione di Orvieto, egli raccomanda una forma organizzativa del nuovo partito del tutto diversa rispetto al passato: non più sulla base di tessere che diventano sovente luoghi di correnti e di clientele personali, ma iscrizioni e adesioni individuali e collettive per obiettivi e per progetti, al fine di valorizzare, anche all’interno del nuovo soggetto politico, i centri di studio e di formazione, le realtà associative, il volontariato, a partire da quello cattolico che lui ben conoscevaAnche la formula dei “riformismi che si incontrano” non lo convinceva.

L’aveva fatta passare nel manifesto, ma più volte mi ha detto che non lo persuadeva. “ In questo Paese – diceva- di riformismo ce n’è stato poco per molti decenni; e più che espressione di grandi e forti tradizioni politiche è stato un fatto di élites illuminate”. E ancora più nettamente: “il riformismo non è sufficiente a dare vita ad un partito nuovo”. Il riformismo, così come si è sviluppato nella nostra storia, è povero di tensione etica e spirituale, manca di fede, cristiana o laica che sia, e quindi non ha la forza sufficiente per generare una nuova classe dirigente e una volontà collettiva. Le radici più robuste della carta costituzionale e le due grandi riserve morali e spirituali del popolo italiano egli le vedeva nelle energie migliori del mondo cristiano e del movimento dei lavoratori.Scoppola, senza dubbio, condivideva la prospettiva del PD. Le “ragioni storiche fondamentali” del PD sono illustrate con grande chiarezza a Orvieto. Lo stato attuale della democrazia italiana, governata da una destra senza storia, così diceva, lo preoccupava molto. La relazione al seminario di Orvieto e I suoi ultimi interventi, quello all’Eliseo “ I cittadini e la Costituzione” contro la grande riforma della maggioranza di destra (21 maggio 2006), e quello all’Hotel Massimo D’Azeglio “Il manifesto del PD e le attese dei cittadini” ( 17 marzo 2007), sono veramente tre testi da leggere e rileggere per la tensione morale in essi contenuta e per la profondità di pensiero.La sua analisi è lucida.

Vedeva il fenomeno del belusconismo , con il suo populismo apparentemente democratico, e l’unificazione del potere politico col potere economico e col potere mediatico-culturale, come “ una delle possibili versioni della crisi della democrazia”. Di una democrazia, per giunta, la quale “sotto l’effetto della società dei due terzi rappresenta e garantisce sempre più interessi costituiti e sempre meno è capace di dare voce agli esclusi”.Si inquietava molto dinanzi al dannunzianesimo dominante, cioè la mancanza di serietà, l’estetismo fine a se stesso, l’esibizionismo personalistico, fenomeni che infettavano anche lo schieramento democratico e progressista e soprattutto la parte più estrema. Anche lui riprendeva la metafora di Piero Gobetti sul fascismo e si chiedeva, come Norberto Bobbio, “se il berlusconismo non fosse una sorta di autobiografia della nazione, nell’Italia di oggi”.“ Berlusconi- aggiungeva, guardando anche oltre i nostri confini- ha radici nella nostra storia, è legato alla debolezza in Italia della destra, ma si inquadra nel fenomeno più ampio della crisi della democrazia”. E’ necessario affrontare le nuove domande , le nuove sfide che pongono oggi la modernità, il progresso scientifico e tecnologico e i processi di globalizzazione. La democrazia, in Occidente, si rilancia se trova nuova linfa, se viene innervata da forti tensioni morali e intellettuali, da nuova spiritualità e religiosità. La nuova linfa è tanto più necessaria in quanto, in democrazia, la maggioranza numerica prima giocava a favore dei meno abbienti e dei poveri, oggi, nei paesi a benessere diffuso, si è rovesciata, facendoli diventare una minoranza.

Non dimenticava mai che la democrazia per essere vitale ha bisogno della “passione egualitaria”. Occorre affrontare la nuova povertà, a livello di ogni singolo Paese e del mondo, e contemporaneamente quella “sorta di vuoto etico, che è quello della cultura consumistica diffusa, oramai dominante nel nostro paese”. Domande che ci spingono a ricercare – dice a Orvieto- un nuovo modello di sviluppo ed anche un nuovo Welfare compatibili con la tutela dell’ambiente e della solidarietà sociale e comunitaria, addirittura con il valore dell’amicizia, e a porci in termini muovi la ricerca sul destino dell’uomo e sui fini ultimi. Da tempo, almeno dopo l’esperienza parlamentare, Pietro era convinto, come ho già detto, che la democrazia italiana dovesse essere consolidata e sviluppata attraverso una maggiore partecipazione in modo tale da rinnovare la repubblica dei partiti in repubblica dei cittadini. Ecco dunque la missione del PD, secondo Scoppola, in piena continuità, ci sembra, con la sua battaglia per l’Ulivo e con i Cittadini per l’Ulivo: essere il perno dello schieramento progressista, che mette insieme la sinistra e il mondo cattolico, ed essere il lievito di questa nuova fase della vita democratica, basata su una più ampia partecipazione dei cittadini e su un sistema di alternanza nel pieno rispetto della carta costituzionale.Gli ultimi scritti di carattere politico sono amari. Sempre più pensa ad un lavoro carsico, più culturale che politico in senso stretto, e a tempi lunghi.

Anche da parte della Rete de “I cittadini per l’Ulivo”. Pur essendo da sempre favorevole ad una costituente del PD aperta, esprime perplessità sulla opportunità di presentare un appello degli intellettuali per allargare la partecipazione democratica, perché un probabile insuccesso, prima dei congressi dei partiti promotori, avrebbe potuto generare difficoltà e ulteriore delusione. Troppi, secondo lui, erano i segni contro, avversi alla costituzione del PD: il conflitto, ora esasperato, tra laici e cattolici; i rigurgiti proporzionalisti; lo spostamento in senso moderato e conservatore del mondo cattolico; la fuga dai DS della componente più a sinistra e così via. Aveva visto i pregi della relazione di Salvatore Vassallo, a Orvieto, sulla nuova forma organizzativa, che prevedeva l’apertura alle associazioni di base e il metodo della “testa, un voto” nella formazione della leadership, ma non ne ignorava le contraddizioni e le ambiguità ,a partire dalla non chiara distinzione tra partito degli aderenti e partito degli elettori ed anche tra leadership individuale e leadership collegiale. Le primarie servono certamente a raccogliere la spinta popolare e il sentimento ulivista, ma, così come vengono realizzate, in cui i cittadini sono chiamati più a ratificare che a scegliere e a decidere, non sono in grado di dare vita ad una leadership autorevole, capace di governare le oligarchie esistenti e di superare i veti reciproci.Da ottimo professore qual’era Pietro amava il dettaglio e la concretezza.”Proposte concrete” mi ha raccomandato fino all’ultimo.

E fino all’ultimo si chiede, come già aveva fatto a Orvieto, se esiste una “regia” adeguata a guidare un processo così complicato come la formazione del nuovo partito; e come riuscire a realizzarla. Il processo, diceva, è in larga parte “octroyé”, cioè una concessione e pattuizione di vertice da parte dei due partiti promotori, i DS e la Margherita, ma non deve nascere dall’alto, ma deve suscitare una larga e vivace partecipazione democratica. La democrazia dei cittadini e dei cristiani, appunto. Senza questo lavoro di base “il PD o non nascerà affatto o sarà poca cosa”. Soprattutto non sveglierà le coscienze delle nuove generazioni e non farà ritrovare l’antica passione a quelle più anziane.Nell’ultimo suo scritto politico – l’introduzione a “La coscienza e il potere” – ancora una volta si domanda perché la transizione, a trent’anni dall’assassinio di Moro, resta tuttora incompiuta. La sua risposta è perentoria:“perché senza guida, affidata a iniziative molteplici e contraddittorie”. Questa assenza fa sì che il Paese “appare logorato nella sua capacità di operare, incerto nel suo destino, ripiegato sul perseguimento di interessi particolari a scapito di ogni visione di interessi collettivi”. Poco più di due settimane prima della morte,l’8 ottobre, nell’intervista a Repubblica che accompagna il libro, è ancora più acre: “..Quello che si avverte oggi – dice- è la pochezza della leadership. La transizione italiana è povera di veri leader politici, di grandi disegni, di cultura”.Tuttavia anche allora, come ben ricordo, non perdeva la speranza; la speranza di trovare lo spiraglio, il “pertugio”, disse una volta, attraverso il quale suscitare la partecipazione popolare democratica.

Davvero spes contra spem. Come tutti i grandi riformatori, Da una parte il pessimismo dell’intelligenza, l’analisi realistica e quasi spietata dei tempi, delle condizioni, del materiale a disposizione, dei rapporti di forza, dall’altra parte la tensione morale e intellettuale e la fiducia nel popolo e nella democrazia dei cittadini. Non credo di fare una forzatura se dico che il suo modo di essere e di fare, in lui così cristiano, si configurava con i tratti di una religione civile.Le due grandi istanze del suo pensiero, cioè la democrazia dei cittadini e l’incontro tra mondo cristiano e sinistra, come condizione e fine per riformare il nostro Paese e per costruire un nuovo e più robusto costume morale, civile e politico degli italiani, restano validissime; e, come sappiamo, vanno ben oltre la relazione, di continuità o discontinuità, tra Ulivo e Partito Democratico. La società italiana contiene anticorpi democratici resistenti, che non lasciano cadere la speranza, come testimoniano i movimenti di queste settimane. L’opera di Pietro Scoppola, ne sono convinto, non soltanto rimarrà, ma continuerà a fare scuola, così come l’ha fatta a noi, anche nel futuro.
* Relazione di Iginio Ariemma al convegno su Pietro Scoppola (Roma, 22 novembre 2008)

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