Il baratto

16 Ott 2008

Comunque vada a finire, non è stato uno spettacolo edificante. Parliamo del baratto tra commissione di Vigilanza Rai e Corte Costituzionale, parliamo del “tu dai un Orlando a me e io dò un Pecorella a te”. Perché se Gaetano Pecorella non siederà alla Consulta col voto del Pd sarà per merito dello stesso Pd, che si è ribellato al suo segretario. E perché l’idea di squadernare in pubblico le abitudini meno confessabili della politica italiana ha seriamente minato la credibilità degli organismi oggetto dello scambio, con conseguenze devastanti soprattutto per la Corte Costituzionale.Intendiamoci: le trattative di questo tipo sono sempre esistite e, in una certa misura, hanno consentito l’agibilità del sistema. Solo che chi le faceva se ne vergognava e si guardava bene dal parlarne in pubblico. Comportamento ipocrita, si dirà. Ed è in parte vero, ma la perdita dei freni inibitori in questo caso non è liberatoria: è solo un altro passo verso l’abisso. Non per la maggioranza, che di questi dettagli non si cura, ma per il Pd, che della civiltà giuridica dovrebbe essere arcigno custode, almeno nelle speranze di chi lo ha votato.E allora come ha potuto il Pd arrivare a questo punto? La risposta, per chi abbia una certa anzianità di servizio, evoca ricordi sgradevoli e imbarazzanti. Vediamo un partito immerso in faide intestine, che partorisce due televisioni in concorrenza (e in quanti le guarderanno?), che pullula di correnti l’una contro l’altra armate. Il tutto con tanto di capi e capetti che cercano di piazzare i fedelissimi per farsi le scarpe a vicenda.Cose già viste.

Sapete quando accade tutto questo? Accade quando un partito muore. E’ successo nel Psi decapitato da Mani Pulite, quando i suoi nomi più illustri finirono nel tritacarne delle lotte interne. Successe nel Pri quando Giorgio La Malfa decise di traslocare nel condominio berlusconiano. Alla fine, tra anatemi reciproci e scissioni sempre più minuscole, quei partiti sono di fatto scomparsi dalla scena.Si dirà che il Pd non è paragonabile ai partiti citati per il gran numero di voti raccolti, pur perdendo le elezioni. Già, è un partito grande, ma non è un grande partito. Anzi, non è neppure un partito: non ha lealtà interna, non produce senso di appartenenza, non ha sedi collegiali che elaborino strategie e tattiche. La leadership, quella vera, quella che non si rivendica ma che sono gli altri a riconoscerti, sfugge a Veltroni.Qualcuno ha notato che è un segno esiziale per l’opposizione il fatto che oggi chi vuole protestare contro la riforma Gelmini non si rivolga all’opposizione parlamentare ma al Quirinale. Significa che chi vuole opporsi al berlusconismo non percepisce il Pd come un punto di riferimento. E non c’è niente di peggio.Bene, pensare di rispondere a tutto questo non con la politica ma con la furbizia manovriera è suicida. E di questo si tratta quando si parla di Vigilanza Rai e di Corte Costituzionale. E passi per la Vigilanza. Ma coinvolgere la Consulta in questi giochi da retrobottega del potere è veramente imperdonabile. Berlusconi se lo può permettere, Veltroni no.

Per questo il Pd si è ribellato contro l’impresentabile scambio di poltrone, vanificando tutta l’operazione. Ma non è una consolazione, perché rivelando la debolezza del segretario, la contestazione interna finisce per fotografare un partito acefalo, inerme di fronte a ogni tempesta.E così tutto ci riporta alla considerazione di partenza. Una considerazione amara: ciò che sta accadendo nel Partito Democratico assomiglia tanto, ma proprio tanto, alle convulsioni di un partito morente.

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