Il Concilio Ecumenico Vaticano II: c’era una volta, or non c’è piú?

09 Giu 2008

Questo convegno è stato pensato parecchio tempo prima delle elezioni, e il titolo che mi ero scelto non è legato alla nuova responsabilità di deputato, ma ai precedenti cinquantatré anni di vita da comune cittadino e cristiano.Ritengo di non avere la formazione storico-filosofica e giuridica necessaria per fare un discorso organico; il mio intervento può quindi affrontare la questione posta nel titolo solo alla luce dei ricordi: per ragioni varie mi sono trovato abbastanza vicino al cuore del cattolicesimo democratico italiano al tempo del Concilio, che per me è stato anche il tempo dell’infanzia e della giovinezza, tempo non vicinissimo ma centrale per la mia formazione. In questo tempo il mio amico Paolo Giuntella, morto giovedì, è stato per me uno dei maestri. Parto da una sua citazione di Eligio Cacciaguerra, cristiano impegnato, prima del fascismo, con la “Lega Democratica Cristiana”, poi confluita nel Partito Popolare di Sturzo. Cacciaguerra nel 1913 scriveva: La realtà più profonda della vita è la realtà religiosa, e il problema che assilla le associazioni fondate da cattolici e spesso verniciate di cattolicismo è spesso un problema religioso. È il problema di come essere liberi pur rimanendo obbedienti, è il problema di come le associazioni possano rimanere cristiane o cattoliche senza le dande dell’assistente ecclesiastico quando questi sia intransigente, gretto e reazionario, del come il deputato cattolico possa conservare il collegio senza la propaganda politica fatta dai parroci e dai sacerdoti, del come cioè una democrazia vera e autentica possa attuarsi e vivere in armonia con la più integra e sana tradizione cattolica.

Questa citazione di Cacciaguerra è tratta dal capitolo Laico perché cristiano dell’ultimo libro di Paolo Giuntella, L’aratro, l’ipod e le stelle: diari di viaggio di un laico cristiano. Nello stesso libro un’altra citazione di poche righe dopo, anch’essa adatta al mio intervento, è di Giuseppe Donati, fondatore del “Popolo”, diventato dopo la guerra quotidiano della Democrazia Cristiana. A metà degli anni venti il giornale che egli dirigeva, ed egli stesso come avvocato, accusarono il regime fascista dell’assassinio di Matteotti e don Minzoni. Qualche anno dopo (1928), Donati, ormai in esilio, scriveva a Sturzo: …e poi, caro don Luigi, tutti noi ridotti dal fascismo all’estremo in cui ci troviamo e benché poco sorretti e compresi dal Vaticano, il giorno in cui ci fosse da difendere le cose sacre a cui il Vaticano stesso è connesso, ci faremmo ancora scannare per il Papa, per la Chiesa…nella quale hanno creduto i nostri vivi e i nostri morti. E allora? e allora non ci rimane che sopportare e sopportare ancora finchè la tempesta passi, come dei soldati che non rinnegano la bandiera anche se sanno che i loro generali sono imbecilli e traditori.Fra Cacciaguerra e Donati, democratici poco compresi dalla chiesa cattolica di circa un secolo fa ed oggi, c’è stato un evento, il Concilio Vaticano II. Tale evento segna, non solo a mio avviso, una tappa importante nel rapporto fra chiesa cattolica e democrazia. La domanda cui vorrebbe rispondere il mio intervento è se si tratti di una parentesi superata, di un momento breve e irrilevante nella storia di questo rapporto.

Se, come si chiedeva il professor Bellini ieri, il Concilio sia un fatto in sé incoerente, un tentativo patetico di rinnovare qualcosa che per definizione non può essere rinnovato perché la chiesa cattolica in quanto tale è quella che abbiamo visto all’opera da Costantino fino a Pio XII, intrinsecamente incompatibile con la democrazia.Riuscirono anche prima del Concilio ad essere e restare profondamente cattolici alcuni democratici morti in esilio come Giuseppe Donati o Francesco Luigi Ferrari, al quale Paolo Giuntella intitolò negli anni ’70 il nostro circolo, inizialmente chiamato “gruppo panchina” perché ci vedevamo su una panchina di via Monte Zebio; nel circolo c’era anche David Sassoli, che conoscete grazie alla Rai.Negli anni del fascismo, diversamente da Donati e Ferrari, altri democratici in origine profondamente cattolici, come Alessandro Galante Garrone (che nel 2002 fu fra i fondatori e Garanti della nostra associazione Libertà e Giustizia), sentirono, dopo il Concordato, di non poter piú conciliare la loro fede democratica con la loro appartenenza alla chiesa cattolica, e la abbandonarono.Tutto ciò avveniva prima del Concilio Vaticano II. Resta da capire se questo evento abbia prodotto qualcosa di nuovo oppure no; se sui rapporti fra chiesa cattolica e democrazia sia giustificata, oggi, un’analisi altrettanto pessimistica che prima del Concilio; se, oltretutto, dare per persa ogni possibilità di rinnovamento della Chiesa Cattolica giovi alla democrazia o piuttosto la danneggi: c’è da chiedersi insomma se stati e movimenti politici democratici, restando intransigenti sulla propria laicità, debbano incoraggiare e avere fiducia in quei credenti, in particolare in quei cattolici, che, singoli o associati, dimostrano amore per la democrazia, o debbano invece continuare a guardarli con sospetto e tenerli in un angolino, ritenendo la religioni organizzate, e la chiesa cattolica in particolare, irrimediabilmente incompatibili con essa.Come già detto, mi posso basare solo sui ricordi.

Parto da cinquant’anni fa, 1958. Al momento dell’elezione Giovanni XXIII abolí il bacio della sacra pantofola, un rito medioevale che sanciva la sottomissione al Pontefice di sovrani e nobili. Pochi mesi dopo, ben prima del Concilio, fece un’altra piccola riforma, per lui evidente¬mente urgente: cambiò la preghiera del venerdí santo, di cui si è parlato di nuovo negli ultimi mesi, nella quale si pregava, sí, per gli Ebrei, ma dicendo “oremus pro perfidis Judaeis”; papa Giovanni tolse l’aggettivo. Avevo poco piú di tre anni; queste due cose me le hanno raccontate i genitori.Invece ricordo bene, di prima mano, la sera di ottobre del 1962, quando mio padre tornò da piazza San Pietro dicendo che il Papa mi mandava una carezza e aveva chiesto a tutti di pregare per il Concilio appena incominciato. Tanto in quei primi gesti del pontificato quanto nel testo del discorso inaugurale di Giovanni XXIII ai padri conciliari, che ho letto da grande molti anni dopo, mi è parso di trovare la cifra di quegli anni di straordinario rinnovamento della mia chiesa, che per me sono stati gli anni incantati dell’infanzia e dell’adolescenza, e per l’Italia e il mondo i favolosi anni sessanta.Mi permetto di leggervi un pezzetto di questo discorso di apertura di Giovanni XXIII:… l’apertura di questo Concilio cade proprio in circostanze favorevoli di tempo.Spesso infatti avviene … che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio.

Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e ragionano come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente …A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative…Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole.Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento, piuttosto che condannando.La cifra della chiesa cattolica, in quegli anni di rinnovamento, era uno sguardo nuovo rivolto al mondo contemporaneo: uno sguardo sorridente e non accigliato, fiducioso e non sospettoso.

Gaudium et Spes, gioia e speranza, era appunto il titolo di uno dei quattro documenti fondamentali del Concilio, dedicato alla Chiesa nel mondo contemporaneo.Un simile sguardo intelligente e critico, ma pieno di speranza, brillava anche nelle parole conclusive del testamento di Paolo VI:Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo. Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà.Di questa attitudine era compagna la volontà, nuova e clamorosamente notata in quegli anni dai media, di guardare a quel che unisce e non a quel che divide, sia tra le diverse chiese cristiane, sia nei rapporti tra diverse religioni, sia fra credenti e non. La nuova attitudine non implicava minor amore per la verità e la rivelazione cristiana, ma “solo” il riconoscimento di non averne l’esclusiva, in quanto la grazia e la verità che promanano dalla resurrezione di Gesú possono raggiungere, in misura e grado diverso, tutti gli uomini, in un modo che non sempre è dato conoscere. Questo riconoscimento, ispirato ad antica saggezza evangelica ma piuttosto rivoluzionario rispetto alla dottrina della “nulla salus extra ecclesiam”, si trova espresso al n. 22 della costituzione “Gaudium et Spes”:Il cristiano certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma, associato al mistero pasquale, diventando conforme al Cristo nella morte, così anche andrà incontro alla risurrezione fortificato dalla speranza (38).E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia (39).

Cristo, infatti, è morto per tutti (40) e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale.Partendo da un contesto di ragionevole ottimismo sull’uomo si perfeziona nella chiesa cattolica di Giovanni XXIII, e prosegue nel Concilio anche con Paolo VI, l’opzione definitiva in favore della democrazia, della libertà religiosa, della rinuncia da parte della chiesa gerarchica all’intervento diretto in politica in favore di una nuova valorizzazione dell’autonomia e responsabilità dei laici. Tutto si basa sulla riscoperta di un valore che, pur costitutivo dell’evangelo, risultava da secoli indigesto alla gerarchia cattolica (e per la verità, in epoche diverse, a quasi tutte le chiese e religioni organizzate), e cioè la libertà. Nella Pacem in Terris, l’enciclica che Papa Giovanni XXIII scrisse nel 1963, poco prima di morire a Concilio appena cominciato, si legge:La pace tra tutte le genti è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull’amore e sulla libertà.L’aggiunta del quarto pilastro –la libertà– è un fatto storico. Prima di Papa Giovanni, per molti secoli, la chiesa cattolica aveva considerato la libertà un pericolo, una minaccia alla verità, all’autorità, all’ordine pubblico; questa frase di Papa Giovanni spazza via in un sol colpo quel che ancora rimaneva di un’antica e tenace diffidenza della mia chiesa verso la libertà.

Il pilastro della libertà, aggiunto alla pari con la verità, con la giustizia e con l’amore, esclude non solo ogni nostalgia cattolica dell’assolutismo, ma anche ogni laico totalitarismo: come dimostrano la storia, la storia della filosofia e la storia della propaganda, una sacrosanta aspirazione alla verità, alla giustizia e all’amore, se non accompagnata da un sacro rispetto della libertà, produce non solo Santa Inquisizione, ma anche Lager e Gulag. Quindi, con ritardo rispetto al Manzoni, che l’aveva intuito un paio di secoli prima (pur restando profondamente cattolico), l’intera chiesa si rende conto che libertà, uguaglianza e fraternità sono in fondo valori evangelici .Purtroppo anche della libertà si può fare cattivo uso. Mounier, nella prima metà del Novecento, chiedeva: “a che serve la libertà se mi serve solo a scegliere fra la peste e il colera? E se gli uomini la disprezzano, non è forse perché non sanno che farsene?” E un altro pensatore cristiano, Maritain, entrambi da me letti a 17 anni dietro consiglio di Paolo Giuntella, negli stessi anni affermava: “nessuna democrazia può sopravvivere senza un nucleo morale minimo”. In quegli anni del secolo scorso alcune democrazie europee sono poi davvero crollate, con risultati terrificanti per il mondo intero. Una simile preoccupazione emerge anche da alcune recenti pagine di Zagrebelsky su apatia politica e promesse non mantenute dalla democrazia, come le chiamava Bobbio. Senza forti motivazioni, nell’indifferenza generale, la democrazia può anche suicidarsi.

Ci ripensavo grazie alla cronaca di questi giorni, quando, fra una ronda e un campo rom messo a ferro e fuoco, ha cominciato a circolare su internet una poesia che diceva (cito a memoria): “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi….” e finiva dicendo: “Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.” Credevo fosse una poesia di Brecht, invece si trattava di una delle tante varianti apocrife di una poesia del pastore protestante Martin Niemöller, oppositore del nazismo deportato a Dachau.Lungi da me il sostenere, come fanno alcuni amici e preti facendo un cortocircuito, che senza religione non sia possibile fondare un nucleo morale minimo comune a tutti, senza il quale la democrazia va prima o poi a farsi benedire. A naso mi verrebbe semmai da dire, con Zagrebelsky, che tale nucleo coincide empiricamente con i principi costituzionali, sui quali si basa la possibilità stessa di convivere e discutere tutto il resto. Non so abbastanza di filosofia per sostenere questa tesi o il suo contrario. Quindi torno alla domanda iniziale sull’attualità o meno del Concilio e propongo quattro pensierini che proverò a sviluppare.1. la religione non è mai indifferente alla politica e quindi alla democrazia: se non è sua amica, come è ed è stata in varie epoche e parti del mondo, è una pericolosissima nemica2.

una religione amica della democrazia non è quella in cui capi religiosi dicono di votare a sinistra anziché a destra, ma quella nella quale, almeno ordinariamente, i capi religiosi, a costo di sembrare vigliacchi o smidollati, non prendono posizione nelle competizioni politiche e elettorali, lasciando ai loro fedeli la responsabilità di farlo3. con imperfezioni e approssimazioni, il caso italiano suggerisce che, quando i cattolici vivono con libertà e autonomia l’impegno politico, il contributo alla crescita della democrazia è positivo4. alla domanda del mio titolo risponderei con il ritornello di una bella canzone di Pierangelo Bertoli: eppure il vento soffia ancora: a mio avviso e dal mio punto di osservazione, interno alla chiesa cattolica, il Concilio cova come brace sotto la cenere; e resta, almeno in campo cattolico e italiano, l’unico riferimento per un rapporto non inquinato e inquinante fra religione e politica1. Del punto 1, sul versante negativo, ci sono esempi estremi come Bin Laden e le Torri Gemelle, o la virata verso il fondamentalismo di palestinesi ed altri movimenti arabi originariamente nazionalisti e laici, e altri meno violenti ma non meno inquietanti, come i TeoCon, o i sostenitori dell’Intelligent Design come disciplina scientifica alternativa all’evoluzionismo nelle scuole medie degli Stati Uniti; anche a casa nostra numerosi esempi e episodi testimoniano un pericoloso clericalismo di ritorno. Ma ci sono esempi straordinari anche sul versante positivo: Gandhi, i fratelli Kennedy, Martin Luther King, i buddisti tibetani o birmani (e prima quelli vietnamiti), l’arcivescovo Tutu in Sudafrica; e si potrebbe continuare, ma lo farò dopo, al punto 3, con esempi specificamente italiani.

Quel che voglio dire qui è che le battaglie per affermare nel manifesto di un partito o nel preambolo di una costituzione la rilevanza pubblica delle religioni (o peggio solo alcune di esse) non mi hanno mai persuaso, però non mi convince neppure la simmetrica affermazione che la religione sia o possa essere ridotta a fatto esclusivamente privato: mi sembra smentita dall’evidenza sperimentale, sia nei casi negativi che in quelli positivi. In quasi tutti i luoghi e in quasi tutti i tempi la religione appare un fenomeno inestricabilmente personale e comunitario, che, anche quando non sono premeditate e volute, produce ricadute sociali e politiche. Ignorarle? Vietarle? Valorizzarle affinché contribuiscano alla crescita e al rafforzamento della democrazia?2. In una religione amica della democrazia i capi religiosi non dovrebbero entrare direttamente nell’agone politico, proporre dettagliati provvedimenti di legge, dire ai loro fedeli per chi votare: salvo emergenze che giustificano notevoli eccezioni (e alcuni dei casi positivi prima citati lo sono: Martin Luther King era un pastore battista, ad esempio), nell’ordinario svolgimento della vita politica di un paese democratico è cruciale che i capi delle organizzazioni e associazioni religiose non prendano posizione in prima persona, affidando invece –per vera convinzione, non come ipocrita mossa tattica– all’autonoma responsabilità dei loro aderenti ogni impegno politico: solo cosí, lo spiega bene Zagrebelsky nel suo ultimo libro Contro l’etica della verità, si può evitare il dilemma della “doppia appartenenza”, non esclusivo delle religioni ma particolarmente delicato nel loro caso.

Questa scelta, che ha enorme valore civico, deve idealmente essere, a mio avviso, libera e unilaterale, ed ha come ovvia controparte l’autonoma responsabilità dei laici cristiani impegnati in politica, secondo il modello che anche prima del Concilio hanno incarnato politici cattolici come Alcide De Gasperi o John Kennedy, che il 12 settembre 1960, a Houston (Texas), diceva:…credo in una America in cui la separazione fra lo Stato e la Chiesa sia assoluta, dove nessun prelato cattolico possa dire al Presidente (se questi è cattolico) come agire, e nessun ministro protestante possa dire ai suoi parrocchiani come votare, dove nessuna Chiesa o scuola confessionale possa ricevere fondi pubblici o privilegi politici e in cui a nessun uomo possa essere negato l’esercizio di una pubblica funzione perchè la sua fede è diversa da quella degli altri…Naturalmente può darsi che dal Concordato si possano anche derivare strumenti con i quali delimitare per legge fin dove preti e vescovi possano spingersi con le loro “ingerenze”. Tuttavia, come democratico e liberale, mi sento piú tranquillo se chiunque, incluso il capo di una qualunque religione, è libero di dire quel che gli pare (anche di dirci che da domani dobbiamo tutti metterete la biancheria intima sopra anziché sotto i vestiti, come, alla fine del film di Woody Allen “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, dichiara il protagonista nel suo primo discorso pubblico). Viceversa, come membro della chiesa cattolica, mi sento sollevato se, secondo quanto deciso e messo nero su bianco dai miei vescovi nel Concilio, essi rinunciano liberamente, in condizioni ordinarie, al diritto di entrare nel dettaglio dei provvedimenti legislativi o nel fuoco di una campagna elettorale.

Infine come cittadino penso che, poiché la revisione del Concordato del 1984 si richiama esplicitamente ai principi della Costituzione per un verso e a quelli del Concilio Vaticano II per l’altro (lo ricorda anche Zagrebelsky nel libro citato prima), sia una buona idea quella di richiamare i capi politici e religiosi alla lettera e allo spirito dellla Costituzione e del Concilio, e una cattiva idea quella di far finta che la Costituzione e il Concilio non ci siano mai stati. Certo quando i capi della chiesa per primi si comportano come se il Concilio non ci fosse mai stato, il che negli ultimi decenni è parso molte volte accadere, alimentano essi stessi la rinascita di un anticlericalismo che in Italia sembrava scomparso, il desiderio di vietare per legge “ai preti di fare politica”, l’indignazione per le “ingerenze del Vaticano”. Ma osservo che poi, anche le poche volte che la chiesa si comporta secondo il Concilio, essa risulta incomprensibile non solo ai clericali, ma anche agli anticlericali: specialmente sotto elezioni, tutti tendono a dimenticare i sani principi (costituzionali, e conciliari per i cattolici) di autonomia e rispetto reciproco fra comunità civile e comunità religiose, e a considerare luoghi di culto e capi religiosi come una comoda scorciatoia per raggiungere e orientare in un sol colpo molte opinioni, raccogliendo con poca fatica molti voti. Si finisce cosí per preferire una chiesa che appoggi la propria parte politica, sia essa di destra o di sinistra, ad una chiesa attenta al rispetto della vita politica e civile, capace di formare molte coscienze ai principi del vangelo, orgogliosa di lasciare ad esse il difficile compito di tradurre quei principi semplici ed eterni in scelte operative quasi sempre opinabili e spesso limitate all’orizzonte temporale di una legislatura.

Si finisce col considerare la chiesa come un serbatoio di voti, e ciò è disastroso ai fini della formazione di un corretto rapporto fra politica e religione: nel medio e lungo periodo fa male a tutti e diseduca tutti. Ed è, oltretutto, di dubbia utilità immediata: da un lato sono proverbiali gli “scherzi da prete” (Rutelli, grazie alle ultime elezioni comunali di Roma, ne sa qualcosa), dall’altro la potenza elettorale dei vescovi andrebbe studiata, pesata e non sopravvalutata, come invece capita spesso di fare a chi non proviene dal mondo cattolico.3. Con imperfezioni e approssimazioni il caso italiano suggerisce che, quando i cattolici vivono con autonomia l’impegno politico, il loro contributo può essere positivo. Lo so che la mia chiesa cattolica sta da molti anni allontanandosi dallo spirito del Concilio. So che noi cristiani (laici e preti) passiamo buona parte della giornata a maledire questo nostro tempo e ad elencarne rischi ed orrori anziché guardare al suo lato buono, alle opportunità che ieri non c’erano, a nuove strategie capaci di sconfiggere, o almeno diminuire un po’, qualcuno dei dolori e dei guai che ci sono nel nostro paese e nel mondo. Però siamo anche diseducati dai politici laici. A molti politici piace di piú fare i preti o i profeti. A molti preti piace di piú fare gli organizzatori o i politici. Nessuno fa bene il suo mestiere. Quando un sindaco, un ministro e un direttore di giornale, tutti e tre di centrosinistra, anziché difendere il legittimo diritto al dissenso di un gruppo di professori della mia università La Sapienza, li chiama cattivi maestri paragonandoli agli ideologi delle BR, a me, che pure non ho firmato la loro “lettera anti Papa”, cascano le braccia.

E mi cascano perché, oltre a quelli piú famosi e morti in modo tragico, come Aldo Moro, Piersanti Mattarella, mio padre o Roberto Ruffilli, io ho conosciuto molti politici e amministratori che, semplicemente per il fatto di essere democratici e cristiani, come Oscar Luigi Scalfaro, non si sarebbero mai permessi nemmeno la metà delle genuflessioni che ho visto fare ai cosiddetti laici; e pazienza se qualche vescovo mugugnava; che, per esempio, non avrebbero mai accettato, proprio a causa della loro ispirazione democratica e cristiana, il meccanismo del buono, che oggi vedo incombere sul futuro della nostra scuola senza che nessuno dei miei cosiddetti rappresentanti laici abbia ancora iniziato un adeguato fuoco di sbarramento. Io ricordo un dibattito televisivo cui partecipavano da un lato il ministro Falcucci e dall’altra l’onorevole Martelli, reduce dall’ennesimo meeting di ciellini. Già allora Martelli sosteneva il buono scuola; ma la Falcucci, che qualche goliarda definiva l’unico uomo di quel governo, dichiarò a brutto muso che finchè c’era un democratico cristiano su quel ministero non lo avrebbero mai fatto, perché per la DC l’interesse prevalente era una buona scuola pubblica. Incidentalmente, da quando non ci sono più i democristiani in quel ministero, i fondi alle scuole private sono cresciuti: il primo ad aumentarli è stato Luigi Berlinguer. Scusate la lamentazione e la rivendicazione di laicità della vecchia DC. Certo le forme e i modi specifici dell’impegno politico di quei democratici cristiani appartengono ad un’epoca ormai conclusa.

Alcuni di essi (come Kennedy o De Gasperi, come i cattolici anticonformisti francesi degli anni trenta, e come il grosso dei politici democristiani usciti dalla guerra di liberazione) sono stati precursori: si sono nei fatti ispirati, prima del Concilio, ad un atteggiamento e uno stile (autonomia dei laici, legittimo pluralismo delle loro opzioni politiche) che è poi divenuto, col Concilio, patrimonio di tutta la chiesa. E’ nella distinzione chiara degli ambiti e nella valorizzazione delle competenze e dell’autonoma responsabilità dei laici, cioè nel Concilio, la chiave non solo del minore tasso di clericalismo degli anni sessanta e settanta rispetto alla politica di oggi, ma anche del grande e positivo contributo politico che una generazione di cattolici ha dato, partecipando alla guida dell’Italia negli anni della ricostruzione, del boom, del terrorismo, e perfino negli anni più recenti del post-comunismo e della cosiddetta seconda repubblica di Prodi e Scalfaro, anch’essi figli di questa concezione della politica svolta da cristiani adulti, autonomi.4. Che ne facciamo di questo Concilio? Lo diamo per perso oppure no? A volte l’epoca dell’impegno dei cristiani adulti, autonomi e responsabili sembra proprio agli sgoccioli. Quell’epoca è conclusa non solo perché è finito il comunismo, c’è stata Tangentopoli e i referendum elettorali, eccetera, eccetera; è finita, dicono alcuni, anche perché la chiesa cattolica è cambiata rispetto agli anni sessanta e settanta.

E così vari amici mi dicono: Svegliati, Giovannino, tu credi alla befana. Al Concilio non crede piú nessuno, tranne te, tuo zio prete che ha 86 anni, tua sorella e Paolo Giuntella che ora è morto e pochi altri. E’ stata una parentesi, una favola, bella come gli anni della tua infanzia e della tua adolescenza. Ma ormai è finita. Siamo tornati a prima del Concilio, anzi addirittura al patto Gentiloni: accordi diretti fra vescovi e leader politici su candidati di comune gradimento, frequenti interventi ecclesiastici a gamba tesa e a 360 gradi su tutto lo scibile umano, tormentone quotidiano sul relativismo etico senza farsi sfiorare dal dubbio che la piú probabile antitesi al relativismo, se non si sta attenti, potrebbe chiamarsi assolutismo, cioè il contrario della libertà e della democrazia; e soprattutto, nella chiesa e fuori, preti, preti, preti da tutte le parti, a causa di una totale sfiducia nell’autonomia dei propri laici: sembra che perfino per illustrare le posizioni della chiesa, quando in televisione non parla un prete, sia meglio che a suo nome vadano Adornato o Ferrara: chiunque, purché non sia uno dei propri fedeli laici. Altro che partecipazione responsabile di cristiani adulti: dei cristiani adulti si ha il terrore (basta pensare il trattamento riservsto a Prodi o Rosy Bindi), meglio atei purché ubbidienti e devoti, purché bacino la sacra pantofola e non facciano mancare i finanziamenti a scuole, ospedali ed altre opere cattoliche. Basta, Giovannino, non pensare piú al Concilio, non vedi? è tutto finito.

Ho un po’ esagerato, ma questo è il contenuto di molti dialoghi fra cattolici di varia estrazione: alcuni disperati, altri contenti, ma tutti concordi nel dare per conclusa un’epoca. Lo stesso concetto ho ritrovato anche in un recente articolo su cattolici e partito democratico scritto da un parlamentare che da giovane era nel partito comunista italiano, e in altre occasioni mi era parso serio e acuto; diceva piú o meno cosí: basta dialogare coi nostalgici del Concilio, parliamo con quelli che contano, il resto sono balle. A questo atteggiamento liquidatorio la mia obiezione è: eppure soffia. Eppure il vento soffia ancora, come dice una vecchia canzone di Pierangelo Bertoli. La rivoluzione culturale e spirituale che un evento come il Concilio richiede a una comunità di un miliardo di persone sparse in tutto il mondo e in particolare ai suoi “funzionari” (che noi cristiani chiamiamo pastori) incontra molte resistenze e richiede molto tempo. Ma il vento soffia ancora! una figlia, reduce da un mese di volontariato in Congo, mi dice che da quelle parti il Concilio è inarrestabile (nella liturgia, nella partecipazione, nella responsabilità dei laici), anche per ragioni di necessità: in una parrocchia di centomila persone sparse nella foresta, l’unico modo di essere cristiani è quello ispirato al Concilio, nel quale i laici svolgono molti servizi e compiti che da noi fanno i preti, per consentire ai preti di occuparsi a tempo pieno del dono straordinario che Gesú ha loro affidato: spezzare il pane, perdonare i peccati, annunciare con gioia la risurrezione dei morti.

Anche nella scelta preferenziale dei poveri e degli ultimi, nella resistenza a dittatori e sfruttatori, in Africa il vento del Concilio soffia ancora. Ma lento e inesorabile il Concilio avanza anche nel resto del mondo, anche nel nostro continente, perfino nella nostra chiesa italiana (che ci crediate o no). Molte novità conciliari degli anni sessanta e settanta sono ancora in piedi: La lingua nazionale nella liturgia.La bibbia in mano a tutti i fedeli.La partecipazione dei laici e in particolare delle donne al servizio della lettura e dell’altare.L’elezione dei capi e in generale la vita democratica a tutti i livelli, da quello parrocchiale a quello nazionale, nelle piú grandi associazioni come l’azione cattolica, gli scout, le ACLI [grandi movimenti come Comunione e Liberazione, o l’Opus Dei, o altri ancora, non hanno, invece, un meccanismo trasparente e partecipato per l’avvicendamento dei loro capi: in questo senso sono pre-conciliari, e per questo hanno avuto uno spazio incomparabilmente maggiore tanto nella chiesa che nei media berlusconiani dell’ultimo trentennio]Il pluralismo nelle opzioni politiche, fatto incontrovertibile a fronte di ogni maldestro, periodico tentativo di irreggimentare (o, a mio avviso, millantare come irregimentabili) le parrocchie a fini elettorali.In conclusione: il vento soffia ancora, il Concilio è in fase di latenza ma non è morto. Quando ai primi di giugno del ‘63 morì Giovanni XXIII, ad un cardinale fu attribuita da un giornalista questa frase: ci vorranno quarant’anni per rimediare a tutti i guai che ha fatto questo Papa in quattro anni.


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