Democrazia e laicità: i maestriIl Seminario annuale di LeG

28 Mag 2008

Gustavo Zagrebelsky Presidente Onorario Libertà e Giustizia

Gli altri interventi: P.Bellini // C.Stajano// G.Bachelet //1. (generi di maestri) Il tema su cui ci troviamo a riflettere sembra ridicolmente anacronistico. In questo nostro tempo, dove sono i maestri e chi, nella vita civile, userebbe questa parola senza almeno una punta d’ironia, se non anche di dileggio? Maître sopravvive senza discredito in francese, nel settore culinario, alberghiero e forense, mentre il femminile, maîtresse, sembra un residuo di romanzo ottocentesco. Il maître de conférence è semplicemente un aiutante del professore che svolge quelle che noi avremmo definito un tempo “esercitazioni”, prima di diventare agrégé. Ma chi si lascerebbe oggi definire impunemente maître à penser, espressione che suona pretenziosa e gonfia, allo stesso modo di “maestro di vita”? Meister, che richiama tempi andati di corti principesche e di domestici alle dipendenze (i Kappelmeister), oppure gilde e congreghe medievali (i Meistersinger wagneriani, ad esempio), è da tempo fuori uso, come lo sono i mondi cui allude. Il “gran maestro” delle logge massoniche o degli ordini cavallereschi appartiene a piccole cerchie iniziatiche e, da queste, non esce facilmente all’aria aperta.

Solo in America Latina, circolano numerosi i maestri, ma in un senso che, se non si è ridotto a indicare il giovane “masterizzato” (frequentatore di un “master”) equivale semplicemente a professore di non più giovane età, che gode di un qualche rispetto. I maestri resistono nelle arti, soprattutto nel campo musicale, ma fuori, nel vasto mondo della cultura di questo mondo, sembrano in via d’estinzione, se non già scomparsi.
I tempi sono cambiati. Il “magister” che insegnava nelle aule universitarie è diventato il professore, un termine di per sé maestoso, ma ormai totalmente volgarizzato come equivalente a insegnante. Residua il maestro elementare, con l’iniziale minuscola, e questa sopravvivenza meriterebbe un esame, prima che una qualche circolare ministeriale lo faccia sparire, sostituendolo con “operatore” di qualche cosa. In generale, però, possiamo dire che i maestri si sono ritirati dalla vita civile pubblica. Se vi faranno ritorno, sarà perché saremo entrati in un’epoca diversa dalla nostra e perché avremo fatto un ripensamento su noi stessi.
Dove invece i “maestri” prosperano, anzi si moltiplicano, è nel mondo delle religioni e in quello parareligioso del sapere esoterico, delle esperienze sapienziali ispirate, e di quello che si accomuna generalmente sotto la dizione di new age. Ci riferiamo ai “maestri” dell’interpretazione biblica e della mistica ebraica, ai “maestri” del Corano, ma come a un mondo lontano e vagamente esoterico.

Nel campo cristiano, dopo i “padri” e i “dottori” della Chiesa, si sono fatti spazio i “biblisti”, ma non troviamo i maestri, forse perché di “Maestro” ce n’è (stato) uno solo e, semmai, è la Chiesa stessa, con il suo “magistero” istituzionalizzato, a porsi come “mater et magistra” di tutte le genti. Per il resto, basta scorrere il catalogo di qualche casa editrice specializzata in “spiritualità” per trovare maestri, guru, rushi, pandit, iniziati d’ogni tipo, maestri “illuminati” buddisti, induisti, zen, yoga, “del cammino interiore”, “del risveglio”, “della verità ultima”, ecc. Questi “maestri” indicano strade che ci portano lontani, propongono il distacco o la fuga dal mondo, non sono certo maestri di virtù civili, come quelli ai quali ci volgiamo qui ora, avvertendone la mancanza.
Così, ci introduciamo su un terreno difficile e scivoloso, ove troviamo figure diversissime, dai liberatori agli ammaestratori (nel senso degli animali ammaestrati) di coscienze, dai promotori di impegno civile ai fautori di disimpegno, dai sostenitori di vita pubblica a quelli di vita nascosta. Le differenze sono infinite, onde sembra che non si possa parlare di maestri in generale e non si possa prescindere dalla necessità di precisare e scegliere, mettendo questa figura in rapporto con ciò che da essa attendiamo e in essa poniamo speranze.
Noi qui pensiamo alla parola nel senso, per esempio, di Luigi Meneghello, in Piccoli maestri (1964), a proposito di Antonio Giuriolo; nel senso di Norberto Bobbio in Italia civile (1964) e Maestri e compagni (1984), a proposito di Croce, Trentin, Salvemini, Capograssi, Calogero, Calamandrei, Capitini, Eugenio Colorni, Leone Ginzburg, Mondolfo, Augusto Monti; recentemente, nel senso di Filippo La Porta, in Maestri irregolari (2007), a proposito di Nicola Chiaromonte, George Orwell, Simone Weil, Albert Camus, Ignazio Silone, Arthur Koestler, Carlo Levi, Hannah Arendt, e altri; o nel senso di Corrado Stajano, in Maestri e infedeli (2008), a proposito di uomini d’azione e di pensiero, da Carlo Emilio Gadda a Claudio Magris.

Pensiamo, cioè, a un magistero civile, come alimento della vita sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose nel quale è facile adagiarsi e, da soggetti, diventare oggetti. Questo è il nostro argomento, e qui, guardandoci attorno, pur vedendoci circondati da “maestri” d’ogni tipo, troviamo ragioni di sconforto.
2. (eterodossia) In quanto gli uomini non vivano isolati, ma in società, e in quanto la vita ch’essi concepiscono non si esaurisca con la fine della loro esistenza, ma si prolunghi nella loro discendenza, cioè di generazione in generazione, l’edificazione di un ethos comune e la sua trasmissione da chi precede a chi segue sono due funzioni essenziali di qualsiasi comunità umana che non si voti alla decomposizione. Per questo, tutte organizzano, come proprio compito primario, la formazione e la trasmissione del sapere. La concezione trifunzionale della società, che troviamo già in Platone, che nel Medioevo è stata concepita in termini trinitari e che, di recente, George Dumézil ha teorizzato come forma propria delle società indo-europee, vede, accanto all’organizzazione della forza e all’organizzazione dell’economia, l’organizzazione e la trasmissione della cultura, cioè delle conoscenze e delle convinzioni necessarie ad assicurare la tenuta nel tempo della società, sotto l’aspetto morale. Questa è la funzione dei maestri, maestri i quali, nel corso della storia, hanno assunto gli aspetti più diversi.

La funzione del didàskalos, nei tempi antichi, era prerogativa di qualche casta sacerdotale, dispensatrice del “sacro”, l’elemento spirituale, indisponibile da parte di tutti, perfino da parte del re, che teneva insieme le società. Nei tempi moderni, questa funzione è stata assunta direttamente dallo Stato che l’esercita attraverso insegnanti ch’esso stesso dota di “abilitazione” attraverso procedimenti burocratici, come concorsi e cooptazioni. La loro libertà rispetto all’istituzione – libertà di pensiero, ricerca e insegnamento -, negli Stati liberali, è normalmente garantita da apposite norme costituzionali; negli Stati totalitari, portatori di un’etica autoritaria, quella libertà è negata, attraverso l’imposizione di giuramenti di fedeltà, controlli di conformità, ecc. In entrambi i casi, però, agli studenti, gli insegnanti sono, per così dire, “forniti”; non sono oggetto di elezione e questo vale per qualsiasi tipo di scuola alla quale ci si “iscriva”, pubblica o privata che sia. Si può decidere sì di “cambiare scuola”, ma non di “cambiare professore”. Questo spetta all’istituzione. Lo studente non può sottrarsi a questa scelta. Al più può cercare di difendersi dalla burocratizzazione dell’insegnamento, attraverso scelte preferenziali e “elezioni” interne a ciò che la scuola gli offre. Il “maestro” del quale vogliamo qui parlare è invece “l’eletto” non il nominato, cioè non colui che è rivestito di un titolo formale, ma colui che è liberamente riconosciuto come tale da coloro che, altrettanto liberamente, si riconoscono come suoi discepoli.

Prendiamo ad esempio la celebre scenata-pedata dell’arcivescovo di Salisburgo, in seguito alla quale Mozart si trasformò, negli ultimi dieci anni della sua vita, da “domestico” in libero artista, cioè in “maestro” di musica nel senso nostro, in un rapporto di libera elezione col suo pubblico. Prendiamo ad esempio, ancora, il Maestro per eccellenza, Gesù di Nazareth, al quale si dice che “i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo” (tutte persone, per così dire, istituzionali) domandarono: “con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?” (Mt 21, 23; Mc 11, 28; Lc 20, 2). In precedenza, nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1, 21,22; anche Mt 8, 29), si dice che la gente “era stupita del suo insegnamento, giacché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi” che non hanno ma ricevono autorità. Qui la contrapposizione tra “autorizzato” e “eletto” compare nel modo più chiaro. Gesù non era stato ordinato maestro e ciò non ostante insegnava, era didàskalos. La folla o le turbe lo riconoscevano e lo seguivano spontaneamente e ciò, già di per sé, costituiva una perturbazione dell’ordine costituito, un sovvertimento: il suo insegnamento era, per così dire, legittimato non dall’alto di una burocrazia, ma dal basso di un consenso. Naturalmente, da un punto di vista teologico, le cose sono più complicate e sfuggono a questa contrapposizione puramente secolare: voi mi interrogate in proposito, dice Gesù alludendo misteriosamente a un’altra investitura, ma “neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose” (Mc 11, 33; Mt 21, 27).

Ciò che qui interessa è il fatto che questa autorità non è un’autorità costituita.
Naturalmente, se sono i discepoli a creare i maestri, ciò significa che questi ultimi si possono trovare dappertutto, anche quindi nei luoghi istituzionalmente preposti alla trasmissione del sapere, nella scuola, ma non solo e non necessariamente. Molti di noi hanno avuto la fortuna di incontrarne qualcuno, negli anni della propria storia scolastica, e altri, la sfortuna di non incontrarne nessuno. Ma, in generale, i maestri, se ci sono, lo sono in forza di un carattere non accademico. La scuola e l’accademia, anzi, con i loro riti, i loro conformismi, la loro routine burocratica, riducono le possibilità. Quando si entra in una scuola, oggi, ci si attende di incontrare insegnanti, non maestri. Se se ne incontrano, come è pur sempre possibile, non è per garanzia offerta dall’istituzione, ma per un colpo di fortuna. Insomma, non ci sono garanzie, ma solo possibilità che si realizzano in quanto si determini un incontro produttivo, da entrambi i lati. Le condizioni esterne della vita possono favorire o scoraggiare questo incontro. Ci sono epoche storiche, condizioni sociali e culturali, modalità di vita più favorevoli e altre meno. Più favorevoli al riconoscimento di maestri di un certo tipo e meno di altro tipo. Ognuna ha bisogno di “maestri” e il rapporto che questi stabiliscono con i discepoli dipende dai caratteri dell’epoca. Riprenderò questo punto, alla fine. Ma il dato caratteristico di ogni vera maestria è il porsi in posizione autonoma, critica, eccentrica, anticonformista, rispetto allo status quo proprio della istituzione.

Per l’altro grande maestro della nostra tradizione, Socrate, per antitetico che fosse il cammino della conoscenza ch’egli propone, si può dire lo stesso. Potremmo aggiungere, per continuare nelle analogie, questa irriducibilità al senso comune della città, in lui presente in maniera eminente, fu ciò che lo condusse a morte. Al ripetitore delle cose comuni, al volgarizzatore banale di idee recepite, al banditore dell’ovvio e all’adulatore del senso comune non daremmo il titolo di maestro, ma, forse, quello di propagandista. Il maestro vive una condizione pericolosa; il propagandista, una posizione di tutto comodo.
Il Maestro è dunque un irregolare. Claudio Magris ha aggiunto, però: un irregolare che cerca una regola, non un distruttore per la distruzione. In certo senso, il Maestro è necessariamente un critico, uno che mette a nudo, un “provocatore”, attraverso connessioni nuove, unioni di tempo, di luoghi, di pensieri, di storie, di persone, e così crea continuità, contiguità, ma anche divisioni, rotture, ma per riallacciare i fili dispersi. Il maestro è un “filo” a sua volta, cioè uno che cerca di essere e creare una continuità: può torcersi, ritorcersi, annodarsi, sciogliersi, ma non deve spezzarsi. I saltimbanchi, i modaioli, i voltagabbana non saranno mai maestri, nemmeno nei “singoli momenti” della loro storia personale, perché per il maestro la vita è un percorso continuo, non è fatta di “singoli momenti” separati l’uno dall’altro: questo spiega la preoccupazione degli opportunisti di giustificare e, in qualche modo, rivendicare comunque il loro passato, cercando di ristabilire improbabili continuità in quelli che sono invece veri e propri salti di carreggiata.

L’integrità del magistero è dunque una sua condizione, incompatibile con l’ipocrisia. Chi è stato riconosciuto maestro non assume l’obbligo della fissità, ma, a pena di tradimento dei discepoli, è gravato dall’obbligo della giustificazione e dal dovere di umiltà nel riconoscere gli sbagli. La costruzione della propria esistenza come “opera d’arte” o come “auto-citazione” è una tentazione cui non pochi soccombono, una forma di ridicola auto-idolatria che Max Weber, nella sua celebre conferenza su Il lavoro intellettuale come professione, stigmatizzava così: «Egregi ascoltatori! Nel campo dell’attività intellettuale ha una sua ‘personalità’ solo chi serve puramente il proprio oggetto. Non è certo una ‘personalità’ colui il quale, al modo di un impresario, porta se stesso alla ribalta insieme con l’oggetto a cui dovrebbe dedicarsi».
3. (insegnamento esoterico e essoterico) Continuiamo prendendo a modello il magistero di Gesù. Esso ci mostra l’esistenza di due cerchie di discepoli: l’una più ristretta, l’altra più ampia; la prima, costituita dai dodici più prossimi, che erano stati scelti dal Maestro e avevano accesso a un insegnamento più profondo; la seconda, costruita dalla gente comune, che aveva accesso a un insegnamento più superficiale. Il primo, però, è legato al secondo, perché “nessuno accende una lampada e la copre con un vaso o la pone sotto un letto; la pone invece su un lampadario, perché chi entra veda la luce.

Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato, nulla di segreto che non debba essere conosciuto e venire in piena luce” (Lc 8, 16-17; Mt 5, 14); “Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio predicatelo sui tetti” (Mt 10, 26-27). I dodici erano stati scelti da Gesù: “non siete stati voi a scegliere me, ma io voi” (Gv 15, 16). Le moltitudini, invece, erano semplicemente attratte dai detti e dagli atti di Gesù, che avevano risonanza in loro. Questa distinzione, si potrebbe dire, riguardava però solo l’avanzamento nella conoscenza e non comportava una separazione qualitativa tra esoteria (riservata ai pochi) ed essoteria (impartita ai molti). Semplicemente, vi sono alcuni più pronti e altri meno a ricevere l’insegnamento. Per questo, molte volte i discepoli sono invitati da Gesù a non parlare ancora, per il momento, di ciò che avevano visto e udito (17, 9). Ma questa non è gnosi riservata agli eletti ma solo prudenza pedagogica. Gesù non mira a costruire una comunità iniziatica che include i pochi e esclude i molti; mira a parlare a tutti. Il suo insegnamento non è selettivo, non è elitario. Questo è un punto importante, perché ogni volta che si evocano maestri, si incontra l’obiezione: il vostro è l’atteggiamento di chi vuole separare i pochi degni dai molti indegni, dunque un atteggiamento aristocratico e antiegualitario: in definitiva, uno di quegli atteggiamenti contrari alla democrazia dei grandi numeri, che è il dato del nostro tempo.
4.

(rapporto interindividuale) Se non si tratta di elitismo, è però indubbiamente vero che il rapporto tra maestro e discepoli è un rapporto interindividuale, non un rapporto tra individuo e massa. Nella massa, il discernimento, la responsabilità delle proprie opinioni e delle proprie azioni, la possibilità di differenziarsi non solo dagli altri ma soprattutto da se stessi, per come si era in precedenza – tutte condizioni necessarie nel rapporto tra il discepolo e il maestro – sono impossibili. Ancora una volta, l’esempio di Gesù. Numerose volte, quando la folla, cioè la massa lo vuole proclamare re, egli si sottrae e scegli la solitudine, salendo sul monte. Quelli sarebbero stati i momenti in cui il maestro si sarebbe potuto trasformare in demagogo, accettando l’urlo della folla, quella folla che poteva, prima gridare l’osanna e poi, altrettanto facilmente, gridare il crucifige.
Il rapporto maestro-discepolo è sempre un rapporto personale di dialogo e il dialogo non può prescindere da individui pensanti. Qui, si devono prendere le distanze da Gesù, il maestro. Egli era la verità. Un rapporto bilaterale non sarebbe stato possibile. Se, per definizione, uno solo possiede la verità, anzi è la verità, e gli altri, di per sé, sono nelle tenebre, da loro non può venire altro che adesione alla verità del Maestro o la perseveranza nell’errore. Questa, però, non è la situazione nostra, in cui nessuno ha visto la verità e, tanto meno, nessuno può dire di essere la verità, ma tutti siamo impegnati in una ricerca, una ricerca che procede per tentativi, errori e correzioni; in cui tutti hanno da imparare dagli altri.

Il maestro è solo quello che “è più avanti”, non quello che è più su e, tanto meno, quello che è arrivato in cima e può guardare dall’alto in basso tutti gli altri. Si tratta di un cammino, nel senso di Hans G. Gadamer, Maestri e compagni nel cammino del pensiero (1980), un cammino per sentieri accidentati e non segnati, “che costringono il viandante a salire verso l’inesplorato o a ritornare sui suoi passi”.
Un modo di rappresentare questo rapporto è la splendida immagine delle orme, che Lucrezio impiega nel Prologo del terzo libro del De rerum natura, per indicare il legame con Epicureo, suo riconosciuto maestro: “O tu, che in mezzo a tenebre così profonde potesti levare una luce tanto fulgida, illuminando le gioie della vita, per primo seguo te, o gloria del popolo greco, e nelle ormeda te tracciate ora pongo ben salde le impronte dei miei piedi, non tanto perché io voglia gareggiare con te, quanto perché desidero imitarti per amore. Come potrebbe infatti contendere la rondinecoi cigni? O come potrebbero mai i capretti dalle zampe malferme emulare nella corsa l’impeto di un forte cavallo?” Questa immagine potrebbe essere avvicinata, per coglierne le differenze, con quella che usa Virgilio in rapporto con Stazio (Purg. XXII, 67-69): “Facesti come quel che va di notte, / Che porta il lume retro e sé non giova, / Ma dopo sé fa le persone dotte”. Essa dice che maestro e discepolo sono impegnati sulla stessa strada che ha in comune la meta, che le orme del maestro aprono la strada al discepolo, che il loro rapporto è tra chi sta più avanti e chi segue e – sebbene l’immagine taccia di questo – che non è escluso affatto che il discepolo possa sopravanzare il maestro e fare egli stesso da battistrada e che, infine, il discepolo possa prendere un’altra, autonoma strada, quando cieca gli appaia quella tracciata dalle orme che stava seguendo; che, infine, lo stesso maestro non possa a sua volta correggere la sua rotta, trasformandosi a sua volta, da maestro che era, in discepolo del suo discepolo di prima.

Prenderei invece le distanze dalla molto più diffusa immagine del nano sulle spalle del gigante, sul quale esiste un bellissimo saggio del sociologo Robert K. Merton (Sulle spalle dei giganti, il Mulino, Bologna, 1991). I suoi sottintesi non sempre sono accettabili. Innanzitutto, la conoscenza come accumulazione, laddove essa è manifestamente, almeno nelle scienze umane, una correzione, una ritrattazione e un ricominciare da capo con diversi paradigmi; inoltre, l’argomento ex auctoritate, che implicitamente evoca, autorizzando chi si siede sul gigante che, in quel momento, sembra più grande, ad alzar la sua voce e a zittire quella degli altri; infine, la giustificazione di atteggiamenti culturali chiusi in se se stessi: ciascuno ha il proprio gigante di riferimento e tra giganti è difficile che non vi sia lotta e vi sia invece confronto e cooperazione. Insomma: un’idea arrogante, molto diversa da quella delle orme che segnano cammini che possono incontrarsi, intrecciarsi, separarsi, riunirsi. Soprattutto, l’immagine dei giganti evoca l’idea di una sorta di orgogliosa “scalata al cielo” che alla fine provoca solo risse e macerie, come nel racconto della torre di Babele, mentre la più mite immagine delle orme suggerisce l’idea del districarsi tra le difficoltà quotidiane per cercare la via d’uscita da quel labirinto che è l’umana esistenza.
5. (rapporto triangolare) George Steiner, nei saggi raccolti sotto il titolo La lezione dei maestri (Garzanti, Milano, 2004) ha messo in guardia circa i pericoli che questa parola, il maestro, monumentale, gerarchica, prescrittiva, porta in sé.

Il pericolo maggiore consiste nel viluppo del rapporto maestro-discepolo in vischiosità sentimentali. Il desiderio del maestro di piacere al discepolo, di “sedurlo” con la sua personalità, un desiderio che può portare allo schiacciamento di quella di quest’ultimo; il desiderio del discepolo, a sua volta, di primeggiare, di essere il più vicino al suo cuore, di oscurare o annullare tutti gli altri. La disputa tra i discepoli di Gesù di Nazareth su chi di loro sarebbe stato il primo nel regno dei cieli, l’auto-presentazione che l’autore del Vangelo di Giovanni fa di se stesso, come “il prediletto”; perfino la tragedia di Giuda possono ben essere intese entro la cornice di una patologia sviluppatasi entro la cerchia di un gruppo di seguaci, stretta attorno a un maestro carismatico. Le degenerazioni dei rapporti interni alle “scuole”, che possono portare ad altrimenti impensabili meschinità, sono ben note. Il mondo accademico ne è una miniera. Ne traggo solo un piccolo esempio, dal mio campo di studi. Il grande giurista Hans Kelsen, nella sua Autobiografia (in Scritti autobiografici, a cura di M. G. Losano, Diabasis, Reggio Emilia, 2008, p. 78-79) riferisce del suo incontro a Heidelberg con Georg Jellinek, certo uno dei massimi “maestri” del diritto pubblico a cavallo tra il XIX e il XX secolo e lo racconta così: Jellinek “era circondato da un impenetrabile gruppo di allievi adoranti, che lusingavano in modo incredibile la sua vanità. Ricordo ancora la relazione di uno dei suoi studenti preferiti, costituita quasi esclusivamente da citazioni degli scritti dello stesso Jellinek.

Dopo quella riunione potei accompagnare Jellinek a casa e, cammin facendo, mi chiese che cosa ne pensavo di quella relazione. Io rimasi molto sulle mie e Jellinek ne fu visibilmente irritato. Affermò che era stata una relazione eccellente e predisse un grande futuro accademico al suo autore: ma questi – aggiunge Kelsen maliziosamente – nel corso della sua carriera accademica, ha prodotto soltanto pochi scritti mediocri”.
Ecco un rischio di questo rapporto malato, la mediocrità all’ombra della megalomania. Quello citato è solo un piccolo episodio di miseria accademica. Ma, spostandoci ad altro campo, il campo del magistero politico, il quadro, da ridicolo può farsi tragico. Il rapporto fideistico col maestro, depositario di una verità ch’egli solo conosce, può condurre a tragedie che annullano la personalità dei deboli e conducono perfino all’omicidio. In I demoni, Fëdor Dostoevskij ha descritto con grande forza e sottigliezza queste derive psicologiche che portano al plagio, al tradimento, al delitto, quando viene a istituirsi un rapporto di malato fanatismo e dipendenza tra il capo, depositario della verità rivoluzionaria e i membri del gruppo (il “quintetto”) che ne dipendono totalmente, senza avere accesso, a loro volta, a questa verità.
La radice di queste degenerazioni sta nel rapporto meramente bilaterale tra il maestro e il discepolo. Se non è filtrato, reso oggettivo da un terzo fattore comune, esso finisce per ridursi a una relazione personale ineguale di fedeltà, in cui tutte le deviazioni irrazionalistiche diventano possibili, e, soprattutto, si viene perdendo di vista il fine in vista del quale tale rapporto ha ragione di instaurarsi: la ricerca di qualcosa che sta fuori tanto del maestro quanto del discepolo.

Se manca questo elemento, la persona del maestro diventa l’oggetto dell’attaccamento del discepolo e la persona del discepolo diventa l’oggetto dell’attenzione del maestro. L’amore della verità – usiamo questa parola con la minuscola – viene a essere sostituito dall’autocompiacimento dell’uno attraverso l’altro, cioè da manifestazioni di narcisismo.
A questo proposito, vale la lezione di Socrate, come ci è presentata dal giovane Alcibiade nell’ultima parte del Simposio, dove il rischio della seduzione, con tutte le devianze, anche erotiche, che ne possono derivare ed effettivamente, nella storia recente, antica e antichissima di questo rapporto, sono derivate. La parola chiave è “compiacere”, cioè piacere e dare piacere l’uno all’altro, l’uno con l’altro, il maestro al discepolo, il discepolo al maestro. Ma il compiacere di Socrate è molto diverso da ciò che Alcibiade, irrompendo sulla scena del banchetto, gonfio di vino, in stato di sovreccitazione, racconta ch’egli si sarebbe aspettato dal suo maestro che pur non disdegnava affatto le attenzioni verso la bella gioventù, come il Carmide testimonia inequivocabilmente. Il discepolo tesse le lodi del maestro, in nome di una conoscenza e di un’intimità esclusive, ch’egli esibisce oscenamente per porsi al di sopra di tutti gli altri: “Non si troverebbe, cercandolo, un uomo fuori del normale simile a costui, sia per quello che lui stesso è sia per i discorsi che fa, né tra i contemporanei, né fra gli antichi”.

Lo paragona a “quei Sileni esposti nelle botteghe degli scultori, che gli artisti raffigurano con zampogne e flauti in mano e che, aperti in due, mostrano nell’interno immagini di dei […] Quando fa sul serio ed è aperto, non so se qualcuno ha visto i simulacri di dentro; ma io li ho visto una volta, e mi parvero così divini e aurei e bellissimi e mirabili da dover far senz’altro quel che Socrate comanda. Infatti, credendolo preso davvero della mia bellezza, stimai un guadagno e una fortuna meravigliosi che mi si offrisse il destro di far cosa grata a Socrate e udire così tutto quello che egli sapeva, perché ero orgoglioso della mia bellezza, e in che misura!”. “Far cosa grata” qui significa concedersi all’amor carnale, come è spiegato nel racconto della notte passata a tu per tu dai due, “a quattr’occhi”. La mattina, Alcibiade “dopo d’aver dormito accanto a Socrate l’intera notte, si levò, né più né meno, che come se avesse dormito con suo padre o con un suo fratello maggiore”. Una notte, dunque, d’attesa frustrata dall’ironia di un Socrate perfettamente padrone della situazione, il quale, fattosi mattino, lavatosi il capo, si leva e va al Liceo, per trattenersi a discorrere, come d’ordinario, tutta la giornata. L’ironia socratica consiste nel deviare costantemente le attenzioni del discepolo da sé a qualcosa di superiore, quel qualcosa – la sapienza e ogni altra virtù – la cui ricerca è la ragione autentica del rapporto tra Maestro e discepolo, un rapporto che Alcibiade aveva frainteso o dimenticato.
Ecco il punto: il rapporto meramente bilaterale mette in ombra la sua ragion d’essere, che è la comune tensione verso qualcosa d’altro, rispetto all’essere dei due.

Ridurre il rapporto a un “compiacersi” l’uno con l’altro sarebbe il tradimento dello scopo. Anche così, sottraendosi ai “tranelli d’amore” tesigli da Alcibiade, Socrate si dimostra autentico maestro. Egli è mosso dal suo demone, che lo trattiene dal mescolarsi con le “bassure” della vita, sia essa la politica o l’amor carnale.
6. (tempi attuali) Il maestro, s’è detto all’inizio, è ridicolmente anacronistico. Sembra non essercene bisogno, sembra anzi un ingombro nella società egualitaria dei grandi numeri, propria del nostro tempo, che propone bensì modelli di successo, ma, per così dire, di successo applicativo, non creativo. La via del perfezionamento personale, della conoscenza, della sperimentazione e della consapevolezza, e quindi anche della critica e della ribellione, la via che indicano i Maestri, non è confacente a questa società. L’innovazione, lo shibboleth del nostro tempo, non significa veramente ricercare il nuovo, ma perfezionare e potenziare il vecchio. Il modo di essere della società e il modo di viverla non sono in discussione. Il consenso di cui essa ha bisogno, per diffondere la sua presa inclusiva degli individui senza incontrare ostacoli, presuppone una superficie tutta liscia su cui scorrere, mentre l’autorità dei maestri crea asperità. Il linguaggio pubblico si livella al basso, supera anzi, in banalità e ovvietà (per non dire in volgarità), la media comune e così accarezza, anzi, nobilita e lusinga l’essere sociale e spegne la tensione verso ciò che potrebbe o dovrebbe invece essere.

La contrazione degli strumenti concettuali ed espressivi – per esempio, il lessico sempre più povero di parole e significati generali, ma sempre più ricco di neologismi di natura tecnico-esecutiva – rende progressivamente più difficile qualsiasi magistero, in quanto non lo si voglia ridurre a “istruzioni per l’uso”. I “valori” messi in circolazione dai mezzi di comunicazione di massa si propongono alla imitazione, alla riproduzione e al consumo passivi. La molla sociale che mettono in moto è un misto di ammirazione e invidia. Il loro tempo è effimero come quello della moda, che si forma e si distrugge nel tempo breve. L’auto-rigenerazione continua crea affanno per non perdere la presa e tiene sulla corda. La competizione non è affatto esclusa, ma è una competizione per l’omologazione. Il più bravo è quello che più si immedesima, non quello che più si distingue. La possibilità di riflessione, che è l’ingrediente di ogni magistero, è erosa da uno stile di vita in cui il silenzio, propedeutico a ogni atteggiamento riflessivo, è proscritto. La costruzione di rapporti profondi sembra sempre più difficile. Per i più, i maestri sono sostituiti dagli idoli e questi idoli devono essere banali, “devono esibire una testa d’argilla”, come ha scritto Georg Steiner, per incontrare un facile favore. L’eterodossia, il segno dei maestri, è un bersaglio da abbattere anche con la diffamazione e la denigrazione; non è un valore da coltivare. Non c’è bisogno di ricordare, in proposito, episodi recenti.

La democrazia dei grandi numeri ha bisogno non di maestri ma di persuasori, non di guide dello spirito ma di tutors per il successo, non di inquietudini ma di torpore, non di dubbi che aprono gli occhi sul presente e sul futuro ma di pregiudizi che li chiudono. La contraddizione è solo apparente: in questa società, i maestri prosperano, ma sono maestri del dogma, dell’irrazionale, della fuga dalla realtà. Questi prosperano come non mai. Il malessere della società dell’assuefazione, incapace di alzare lo sguardo su se stessa in vista di una qualche auto-riflessione, ha pur bisogno di essere lenito con qualche dose di tranquillante. La religione stessa, che di per sé potrebbe svolgere un ruolo potente nel risvegliare domande di senso ed energie creatrici, sembra più che altro ridotta a sedativo delle inquietudini e delle paure che le mode non riescono a mettere da parte e occultare, a onta dei tentativi del papa Benedetto XVI di portare la religione nei confini della ragione. I maestri di cui il nostro tempo sembra avere bisogno sono quelli che rassicurano e consolano, non quelli che risvegliano le coscienze.
7. (bisogno di maestri?) Questa società non ha dunque bisogno di maestri. Sono pateticamente inutili. I mezzi attraverso cui si trasmettono conoscenze e si formano coscienze si chiamano maestra-televisione, maestra-pubblicità, maestra-comunicazione, maestra-moda, ecc. Queste sì sono maestre ugualitarie, stanno sul nostro stesso piano, usano il nostro stesso linguaggio, si prestano a essere comprese da tutti senza sforzi, sono adatte alla società dei grandi numeri, sono perciò pienamente democratiche.

Che c’è di meglio? L’idea del Maestro, invece, porta in sé un germe aristocratico. Il discepolo deve riconoscerne l’autorità. In certo modo, ne è condizionato, ne subisce la preminenza. “Plus de maîtres”, si leggeva su un murale alla Sorbona, nel maggio 1968. Gli studenti che cacciavano dalla cattedra i professori e ne prendevano il posto, esprimevano nei fatti lo stesso concetto. Non rimpiangiamo dunque la scomparsa di questo relitto d’altri tempi. Del resto, che cosa c’è da fare, di fronte alla verità che si impone in forza della dura realtà. Se le società ugualitarie dei grandi numeri sono queste; se ciò che è non può non essere, non c’è niente da fare e dobbiamo adeguarci e accontentarci, dichiarando definitivamente chiusa l’epoca dei maestri. Parlarne ancora è solo nostalgia o rimpianto.
E invece no. Le cose non stanno affatto così. Non si tratta di aristocrazia contro democrazia, ma di due concezioni della democrazia, l’una in opposizione all’altra. L’una, la potremmo definire democrazia critica; l’altra, acritica. La democrazia critica pone se stessa sempre necessariamente in discussione, non è mai paga e tronfia, sa riconoscere i suoi limiti e sa correggere i suoi sbagli. E’ un sistema capace di auto-correzione, in vista di un bene o di una verità non assoluti ma relativi al momento e alle condizioni date e alle capacità ch’esso ha di padroneggiarle. Il suo senso è dato da questa tensione, tra ciò che si è e ciò che, in meglio, si potrebbe essere; il suo ethos, la molla che lo mette in movimento, è l’esigenza di colmare questa distanza.
La democrazia critica non assume, come sua massima, il detto vox populi, vox dei, per l’implicita supposizione di infallibilità ch’essa comporta.

Considera un cedimento a un’inaccettabile ideologia della democrazia anche l’espressione, spesso ripetuta con leggerezza, secondo cui la maggioranza ha sempre ragione, e ciò non perché la maggioranza abbia presumibilmente torto, come ritiene ogni pensiero antidemocratico ed elitario che divide la società in migliori (i pochi) e peggiori (i tanti), ma perché semplicemente, nella democrazia critica è bandito il concetto stesso di ragione, contrapposto a torto. La maggioranza non ha né ragione né torto; ha invece diritto di decidere perché si ritiene che le decisioni che riguardano tutti debbano assumersi, se non da tutti, almeno dal maggior numero. E’ una questione di distribuzione e assunzione di responsabilità, non di ragione o di torto.
Questo modo di concepire la democrazia comporta la capacità di estraniarci da noi stessi, di uscire dalla nostra pelle per poterci osservare per quello che siamo e confrontarci con quello che non siamo e vorremmo essere. Essere al tempo stesso soggetto e oggetto, cioè la coscienza di se stessi, è forse ciò che di più difficile possiamo immaginare, nella vita individuale e, a maggior ragione, in quella collettiva. Quando si dice “la lezione dei maestri”, si dice innanzitutto distanza tra noi, come soggetti, e noi, come oggetti, cioè coscienza critica. La funzione del maestro, nella democrazia critica, non è un lusso, è una necessità vitale.
Tutto il contrario, nella democrazia acritica. Se la maggioranza ha sempre ragione, se la sua volontà è infallibile come quella divina, la voce ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio, come quella del grillo parlante che Pinocchio, che non vuol sentir parola, schiaccia con un colpo di martello.

Non c’è bisogno di maestri in questa democrazia, ma di ideologi, di comunicatori, di propagandisti o di pubblicitari, cioè di quelle false maestre (televisione, pubblicità, moda, ecc.) di cui s’è detto testé. Esse non creano tensione, allontanano da noi l’inquietudine del dubbio, ci fanno credere che ciò che siamo sia anche ciò che non possiamo non essere, che dove siamo non possiamo non essere. Ci fanno stare in pace con noi stessi, perché ci privano della coscienza di noi stessi e ci trasformano da soggetti attivi in oggetti passivi
8. (riscoprire maestri) Si è visto: i maestri non esistono se non ci sono discepoli. Non sono i maestri a creare i discepoli, ma i discepoli a creare i maestri. Quando tra noi, potenziali discepoli, incominciano a porsi domande di senso ed esigenze di ethos, allora possono comparire i maestri. Questo – porre domande inevase e far valere esigenze insoddisfatte – è il compito di crede che valga la pena di impegnarsi per una democrazia con gli occhi aperti su se stessa e sul suo futuro, cioè per una forma di convivenza che coltivi l’inquietudine non come un vizio, ma come una virtù.
Abbiamo di fronte a noi degrado della vita pubblica, deterioramento della democrazia, inquietudine senza sbocco per l’avvenire e incapacità generalizzata di indicare prospettive diverse dal tirare in qualche modo a campare per allontanare soltanto il momento di una crisi che, non possiamo non saperlo, prima o poi verrà. In quel momento, la presenza o l’assenza di un magistero civile sarà determinante.


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Nato a San Germano Chisone (To) il 1° giugno 1943. Laureato a Torino, Facoltà di Giurisprudenza, nel 1966, in diritto costituzionale, col professor Leopoldo Elia.

  • Professore di diritto costituzionale e diritto costituzionale comparato alla Facoltà di Giurisprudenza e alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Sassari dal 1969 a 1975.
  • Professore di diritto costituzionale comparato alla Facoltà di scienze politiche dell’Università di Torino dal 1975.
  • Professore di diritto costituzionale alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dal 1980 al 1995.

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